Il primo ricordo di Pasquale Rotondi pittore, anzi, di mio nonno pittore festeggiato in una recente mostra nel suo paese natale di Arpino (Frosinone), risale per me all’estate del 1971. Nonno era ancora direttore dell’Istituto nazionale del restauro, sarebbe andato in pensione di lì a due anni, e aveva raggiunto la mia famiglia in vacanza a Frontignano, nelle Marche, a pochi chilometri dalla meravigliosa Piana di Castellucccio.
Era appena nato il suo quarto nipote maschio, Matteo, e non era un’estate facile, per mio padre Nanni e mia madre Paola, con tre figli rispettivamente di dieci, nove e sette anni, cui si aggiungeva un neonato tormentato da coliche continue, con il conseguente corredo di notti in bianco.
Non ho idea ancora oggi del perché nonno Pasquale avesse scelto proprio quell’estate per riprendere in mano pennelli e tavolozza, né delle ragioni che lo indussero a scegliere la casa in cui soggiornavamo come suo primo soggetto. Ricordo solo che il risultato fu così agghiacciante che nonno decise di “annerire” il cielo e tutto quel che si trovava attorno alla casaccia rosa che campeggia ancora oggi al centro di quel dipinto, ribattezzato, con il senso dell’umorismo e l’ironia che lo avevano sempre contraddistinto, “Nocturnus schifosus”.
Nonno non si sarebbe fermato lì, però: negli anni successivi – anche per effetto del tempo libero assicurato dal pensionamento – la pittura avrebbe occupato un posto importantissimo nella sua vita e, non tanto indirettamente, anche nella nostra. Niente più Frontignano, però: il suo sguardo si sarebbe concentrato in primo luogo sulla sua amata Arpino, e a seguire sui paesaggi valdostani attorno alla Casa alpina dei padri barnabiti di Ollomont, nella quale avrebbe trascorso una lunga e felice serie di estati.
(Pasquale Rotondi, lettera a Francesco Carnevali, 12 giugno 1979).
Paesaggi, appunto: era il paesaggio, con i suoi colori, l’alternarsi di natura e presenza umana, il susseguirsi delle stagioni, a calamitare l’attenzione di nonno. Il quale, certo, non mancò di ritrarre, uno dopo l’altro, i componenti della famiglia – e ricordo ancora la lunga tortura della posa per il mio ritratto, la magliettina gialla che portavo addosso, la spalla destra leggermente inarcata che, nell’immobilità forzata, mi procurava dolori lancinanti -, ma dedicò alle sue native terre della Ciociaria molte delle sue giornate migliori.
Non mi lancerò qui in considerazioni sugli ascendenti e i modelli cui nonno attingeva in quanto pittore: sarebbe facile parlare di impressionismo, o ricordare la luce nei suoi occhi ogni volta che parlava dei paesaggi di Cézanne, ma mi sentirei comunque di uscire dal seminato e toccare un terreno non mio.
E non voglio neppure esprimere valutazioni estetiche, perché, nel guardare i quadri di nonno che popolano tutte le nostre case – da quelle delle figlie, mamma a Roma e zia Giovanna a Genova, a quelle di tutti e sette i nipoti – l’appagamento e il senso compiuto di bellezza non sono separabili dall’immagine di quell’uomo piccolo, con la sua gran chioma di capelli bianchi, gli occhi cerulei accesi di una luce inconfondibile, il camiciotto e i pantaloni blu, davanti a una tela che, da bianca, si imbeveva letteralmente di colore: l’argento vivo degli ulivi, il verde dei campi, il bianco e il giallo delle casupole sparse.
Voglio solo ricordare una delle decine di giornate che ho trascorso, ora da solo, ora insieme ai miei fratelli maggiori, ad Arpino, in compagnia di nonno Pasquale e di nonna Zea. Il “momento del quadro” scattava regolarmente di pomeriggio, e ci imbarcavamo tutti sulla Kadett di nonno, diretti in uno dei tanti luoghi della campagna ciociara che lo ispiravano. Arrivati a destinazione, nonno montava cavalletto e tela, definiva i contorni del paesaggio che gli si distendeva davanti con pochi e rapidi tratti di matita, e si dedicava a preparare la tavolozza. Nel frattempo, che fossi solo o in compagnia dei miei fratelli, io cominciavo a giocare: con un pallone, con le biglie e con i tappi di bottiglia, scatenandomi in simulazioni di corse ciclistiche che potevano durare ore intere. Quanto a nonna Zea, si accomodava sulla seggiolina pieghevole che nonno aveva allestito per lei, e cominciava a lavorare a maglia, ascoltando la musica classica che risuonava dal mangianastri portatile, a pieno volume.
Trascorso un tempo che poteva variare tra l’ora e mezzo e le tre ore, nonno Pasquale faceva un cenno, impercettibile quanto inequivocabile, con il quale avvertiva la sua amata Zea che al quadro mancava solo la rifinitura finale. Nonna si alzava, si accostava alla tela, guardava a lungo e dava il suo imprimatur con un cenno altrettanto impercettibile e silenzioso. Dopodiché rimetteva nella borsa il suo lavoro a maglia e ci chiamava a raccolta, perché ci avviassimo a piedi verso Arpino.
Per dare il tocco finale al suo quadro, evidentemente, nonno preferiva rimanere solo. In ogni caso, raramente gli occorreva più di un’altra mezzora, trascorsa la quale riprendeva l’auto e ci raggiungeva a mezza via per prenderci a bordo e portarci a destinazione.
L’unica a poter guardare l’opera non ancora compiuta, dunque, era nonna Zea: non ricordo che a me o ai miei fratelli sia mai stato permesso di farlo. Avremmo visto il quadro a casa, appoggiato sul ripiano del grande mobile di legno massiccio, in salotto.
Quei pomeriggi, tra giochi, musica classica e, ogni tanto, il raschiare di un pennello sulla tela, sono fra i ricordi più belli della mia vita. E si rianimano ogni volta che guardo uno dei paesaggi di Pasquale Rotondi, quasi ne assorbissero i colori, accendendosi di luce.
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Soggetto privilegiato: i paesaggi
“Certi miei piccoli disegni colorati”, li chiamava così
Pasquale Rotondi. La figlia Giovanna ci mostra
alcuni che ornano i muri della sua casa genovese
A PROPOSITO / Un progetto a Genova
E un’altra nipote, Micol, ci invita a tavola
con le piante che si possono mangiare
testo di Micol Balma* (foto) per Giannella Channel
Nel 2018 Anno Europeo del Patrimonio Culturale e nell’Anno Italiano del Cibo io e altri amiche abbiamo voluto riportare, a partire da Euroflora e successive mostre, l’attenzione sulla cultura della cucina ligure nella preparazione di piatti a base di piante edibili spontanee. L’allestimento è costituito da un frutteto di specie antiche, al cui centro è posta una lunga tavola apparecchiata, la quale accoglie 24 posti. La tavola è forata e all’interno del buco è posto il vaso contenente l’erba spontanea, come fosse in un piatto. Ogni postazione ospita, oltre la pianta, forchetta, coltello, cucchiaio e un bicchiere, un segnaposto, che indica il nome volgare e scientifico dell’erba edibile, e un menù, che fornisce le informazioni generali della pianta e una ricetta culinaria con protagonista l’erba spontanea edibile, quest’ultima è comodamente scaricabile sul telefono tramite il qrcode.
L’agricoltura a Nervi era specializzata nell’esportazione di fiori, frutti, agrumi e ortaggi primaticci. Tuttavia, mentre nelle ville agricole si coltivavano agrumi e alberi da frutto, nei versanti a nord, lungo i pendii e nelle zone destinate al pascolo si raccoglievano tutto l’anno quelle erbe che erano alla base delle semplici ma saporite ricette che sono tipiche della regione Liguria. I Parchi storici di Nervi sono stati quindi lo scenario ideale per ricomporre questo antico dualismo.
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Le Erbe in mostra!
Queste le erbe spontanee edibili, in mostra insieme alle piante protagoniste dei frutteti: 1. Crithmum maritimum Finocchio marino; 2. Foeniculum vulgare Finocchio; 3. Hyoseris radiata Radicchio selvatico; 4. Sonchus oleraceus Cibertina; 5. Bellis perennis Pratolina; 6. Parietaria judaica Parietaria; 7. Plantago lanceolata Piantaggine; 8. Plantago major Piantaggine; 9. Capperis spinosa Cappero; 10. Borago officinalis Borragine; 11. Viola odorata Viola; 12. Leopoldia comosa Lampascione; 13. Umbelicus rupestris Ombelico di Venere; 14. Calendula officinalis Calendula; 15. Calendula arvensis Calendula; 16. Sanguisorba minor Pimpinella; 17. Allium triquetrum Aglio triqueto; 18. Allium neapolianum Aglio napoletano; 19. Cichorium intybus Cicoria; 20. Calamintha nepeta Mentuccia; 21. Mentha sp. Menta; 22. Asparagus sp. Asparago selvatico; 23. Primula vulgaris Primula; 24. Trifolium pratense Trifoglio rosa.
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- L’uomo che ha combattuto nella ex Jugoslavia per salvare i suoi tesori d’arte. Un nuovo libro illumina la figura e le azioni di Francesco Papafava, una figura a metà tra Sindbad, l’Ulisse d’Oriente e Gino Strada, il medico fondatore di Emergency. Ha fatto fino all’ultimo il pendolare tra la sua casa sulle rive dell’Arno e il Kosovo, per invocare un aiuto (concesso) affinché possano rinascere 1.800 monasteri e affreschi stupendi (testo di Salvatore Giannella)
- E Sgarbi annotò: onore a Pasquale Rotondi, salvò l’arte dalla furia nazista. Il Montefeltro in festa per la settimana ad arte dedicata al premio nato vent’anni fa per illuminare chi pratica l’arte di salvare l’arte (testo di Vittorio Sgarbi per QN, foto di Filippo Biagianti)
- La dichiariamo dottoressa in legge grazie alla sua tesi su guardie e ladri d’arte. Una studentessa in giurisprudenza all’Università Cattolica di Milano assiste a una serata condotta da uno 007 dei Carabinieri (il capitano Francesco Provenza) impegnato nel recupero delle opere d’arte. S’innamora dell’argomento e s’impegna per un anno in una documentata tesi di laurea che Giannella Channel, dato il grande interesse, presenta condensata in più puntate (testo di Camilla Angelino dalla tesi “Crimini contro il patrimonio culturale”)
- Ritrovato dopo 70 anni il Cristo rubato a Lucca dai nazisti. Gli 007 dell’arte dei Carabinieri, sezione Toscana, guidati dal maggiore Lanfranco Disibio, hanno recuperato una scultura in terracotta di Matteo Civitali del valore di oltre un milione di euro: era stato trafugato dalle truppe tedesche durante la Seconda guerra mondiale.
- Finalmente esposto a Bonn e Berna il tesoro di Hitler custodito da Gurlitt. Due mostre per fare chiarezza ed esortare altri eredi a richiedere la restituzione di opere trafugate in Italia e nel resto dell’Europa.
- L’Italia ringrazia l’avvocato cacciatore di tesori perduti. Un ritratto del mantovano Maurizio Fiorilli, l’inflessibile avvocato di Stato che dal 1965 ha rappresentato l’Italia in vari tribunali del mondo. Grazie alla sua diplomazia culturale ha riportato a casa tanti capolavori, soprattutto tesori archeologici, saccheggiati in anni recenti, meritandosi l’appellativo di “flagello dei predatori di tombe”.
Caro Salvatore, la testimonianza di Luca Briasco, nipote di Pasquale Rotondi, è commovente. Quanta grandezza umana, nell’umiltà con cui Rotondi si avvicinava ogni volta a una tela, a una piccola tela. La sua straordinaria cultura artistica, la sua esperienza a contatto con i più grandi capolavori del Rinascimento si annullavano di fronte al mistero dell’arte, all’atto di dipingere “con una gioia incomparabile”. Che maestro! E quanta bellezza nelle sue opere semplici e pure come lo sguardo di un bambino.
Roberto Malini, Genova
Presentazione di Salvatore Rotondi efficace e bella per chiarezza e linearità della limpida semplice e chiara esposizione descrittiva della bellezza globale dell’impegno per l’arte, fin alla descrizione dell’impegno diretto.