Roberto Malini è tra coloro che operano affinché si conservi la memoria della tragedia dei campi di sterminio. Amante della pittura, si è trasformato in un instancabile cacciatore di quadri dipinti prima, durante e dopo la persecuzione dei nazisti contro gli ebrei, alcuni di grande valore artistico e tutti profondamente emozionanti. Malini ha ritirato nel 2018 il Premio Rotondi come salvatore dell’arte dell’Olocausto per aver donato al nascente museo della Shoah di Roma 240 dipinti, da lui recuperati, di artisti ebrei scomparsi nei lager nazisti. Cinquanta di loro, in via del tutto eccezionale, vengono riproposti da Giannella Channel nella fotogallery che segue questo testo.
Per ricostruire le storie degli eroi sconosciuti che, a rischio della vita, hanno salvato l’arte dalle guerre dell’ultimo secolo ho percorso migliaia di chilometri, in Italia e all’estero. Ma per illuminare la vicenda più emozionante dell’intero libro (“Operazione Salvataggio”, editore Chiarelettere, già esaurito nell’edizione cartacea e disponibile in versione eBook a 2,99 euro) mi è bastato imboccare la familiare Strada Padana e sbarcare nella vicina Treviglio, nella Bergamasca, dove abita uno scrittore che è riuscito a recuperare (e a donare al Museo della Shoah a Roma) 240 opere di artisti ebrei, realizzate prima della persecuzione nazista e durante l’Olocausto: così Roberto Malini ha consegnato all’umanità un patrimonio fondamentale per comprendere l’arte yiddish, altrimenti destinata alla damnatio memoriae, e illuminato un buco nero della storia del Novecento.
Aveva 12 anni, Roberto, quando una sopravvissuta ai lager nazisti concluse la sua testimonianza “a nome di sei milioni di vittime ebree”, in un’aula della scuola media Puecher di Milano, commuovendo insegnanti e allievi.
Di quell’invito perentorio il giovane Roberto avrebbe fatto una delle ragioni della sua vita e, dal 2000 in poi, si sarebbe impegnato a ricostruire le vite degli artisti dell’Olocausto e i loro dipinti.
Il resto della raccolta (240 opere) è il risultato di viaggi in mezzo mondo, nelle comunità ebraiche e nei principali musei, specialmente negli Stati Uniti e in Israele. Quando non viaggiava, Malini usava telefono e computer. Così, amplificata dai messaggi telematici, si è concretizzata in poco più di un decennio l’Operazione Salvataggio di gran parte dell’arte yiddish.
La pittura del dolore per tenere viva la memoria
Malini indica in circa 200 mila gli artisti ebrei internati nei lager, 50-60 mila di essi rappresentanti del filone artistico yiddish. Il valore delle opere donate viene sottolineato dalla curatrice della collezione, Carol Morganti, storica dell’arte:
Chi si avvicinasse a questa collezione donata da Malini rimarrà sorpreso dalla elevata qualità artistica di ogni singolo pezzo. Una parte delle opere risale al periodo precedente allo sterminio (anni Venti e Trenta), altre si collocano invece negli anni cruciali delle deportazioni e altre ancora nell’immediato dopoguerra.
La ricerca di Malini ha fatto emergere dall’oscurità maestri di notevole valore, come Jacob Vassover (vivente), Eugeniusz Aleksandroski, Tamara Deuel (scomparsa quest’anno), nomi non ancora acquisiti dalla storia dell’arte. Di altri, già noti alla letteratura artistica, sono stati trovati nuovi lavori: Shimon Balicki, Simcha Nornberg, Yehoshua Grossbard, Herbert Sandberg, Yehuda Bacon, Leo Kahn, Samuel Bak, Moshe Fishon, Moshe Chauwski, Leonard Bernstein, Fiszel Zber (Fiszel Zylberberg), Halina Olomucki, Esther Lurie, Regina Mudlak, Moshe Kupferman, Aldo Carpi e Simon Natan Karczmar. Completano la collezione opere grafiche conosciute di artisti noti: Leo Haas, Anatoli Kaplan, Richard Grune, Rudolph (Rudy) Lehmann e Hermann Struck.
Com’è noto, il feroce sterminatore degli artisti dell’Olocausto era un artista mancato: Hitler aveva desiderato molto diventare una firma dell’arte ma ebbe cocenti delusioni. (vedi la sezione a fine articolo).
L’ultimo degli artisti yiddish ancora viventi, incontrato da Roberto Malini in Israele, è Jacob Vassover. La sua storia è esemplificativa di tutti gli altri. Nacque a Lòdz, in Polonia, nel 1926. La sua arte yiddish è la pittura degli shtetl, fatta di luce e colore puri, splendida come la Shekinah, la manifestazione dello spirito divino, e innocente come una mitzvah (una buona azione).
Ascoltiamo Malini:
Un mondo davvero brutto, ma che potrebbe tornare. Satana è ovunque in qualunque momento.
Tra i quadri donati da Malini c’è anche uno Chagall
Roberto considera Jacob uno degli artisti più importanti del nostro tempo, l’erede di una cultura che poteva (e forse può ancora) influire non solo sull’immaginario, ma sul pensiero dell’umanità. Un pittore incomparabile, che il mondo non ha ancora scoperto, forse perché la sua opera rappresenta il simbolo di un dolore senza confini. E dal dolore gli esseri umani tendono a fuggire. Jacob ha visto suo fratello uscire dal camino di un crematorio di Auschwitz-Birkenau. Ha visto i suoi familiari, i suoi amici cadere nelle mani dei carnefici e subire un destino atroce. L’arte yiddish, prima che la popolazione ebraica di Lòdz fosse ridotta in cenere, celebrava la vita, la gioia, l’amore, la preghiera. Oggi celebra la memoria. Per restituirci il ricordo di un mondo perduto, Jacob Vassover è scampato alla più feroce persecuzione. Di 250.000 ebrei che vivevano a Lòdz prima della Seconda guerra mondiale, meno di 10.000 sono sopravvissuti. Dopo cinque anni nel ghetto, Jacob fu deportato ad Auschwitz, quindi in una fabbrica a Braunschweig. Poco prima della Liberazione dovette affrontare una lunga marcia della morte, nel corso della quale i suoi compagni cadevano uno dopo l’altro. Riascolto Malini:
La raccolta donata da Malini contiene opere di artisti famosi come Marc Chagall (una litografia, Mystical Crucifixion, 1950) e di anonimi. Molti autori ritrovati sono maestri che fiancheggiano i grandi dell’arte all’epoca e che forse avrebbero potuto essere protagonisti.
Nel 2012 i dipinti donati da Malini al Museo della Shoah a Roma hanno costituito il nucleo di una collezione internazionale attualmente conservata presso il Museo Nazionale della Shoah di Roma, che ha sede provvisoria in via del Portico d’Ottavia, 29. Come sede definitiva è stata scelta Villa Torlonia, a quanto stabiliscono il contratto fra il Comune di Roma e la Società appalti e Costruzioni – vincitrice dell’appalto nel 2015 – e la delibera del Consiglio di Stato. Dopo sette anni, però, i lavori non sono neppure incominciati e il Museo che dovrebbe consentire al pubblico di ammirare la raccolta in una sede permanente si trova ancora in una fase di stallo, in attesa di non ben definite autorizzazioni e dello sblocco dei fondi destinati a completare il progetto.
La tragedia in cornice
Vi presentiamo i principali dipinti degli artisti dell’Olocausto ancora oggi invisibili al grande pubblico
A PROPOSITO
Ecco dove sono finiti i quadri dipinti da Hitler
testo di Salvatore Giannella per Conoscere la storia
A Hitler, artista mancato, bruciò in particolare il rifiuto dell’Accademia di belle arti di Vienna, che nel 1907 emise un verdetto senza appello:
Negli anni seguenti, nella sua vita raminga tra Vienna (città che lo respinse e che poi detesterà come simbolo dell’odiato ebraismo) e Monaco, dove si trasferì nel 1913, si guadagnò da vivere ricopiando cartoline, creando schienali campestri per i divani, dipingendo acquerelli per i corniciai.
Gli insuccessi accademici facevano sentire il dittatore nazista un artista incompreso da un mondo che, a suo dire, aveva abbandonato i canoni classici e si era fatto contaminare da modelli irrazionali e degenerati, derivati soprattutto dalla cultura e dalle tradizioni giudaiche, che il suo odio antisemita identificava quali germi di decadenza. Espresse chiaramente il suo pensiero a tale proposito nel Discorso per il congresso della cultura del 1935. Eccone uno stralcio: “Sono sicuro che pochi anni di governo politico e sociale nazionalsocialista regaleranno importanti innovazioni nel campo della produzione artistica e notevoli progressi nel settore, comparati ai risultati degli ultimi anni del regime giudaico. Per raggiungere tale fine, l’arte deve proclamare imponenza e bellezza e quindi rappresentare purezza e benessere. Chiunque voglia giustificare i disegni e le sculture di dadaisti, cubisti, futuristi o di quei malati degli espressionisti, sostenendo l’opportunità di uno stile primitivista, non capisce che compito dell’arte non è quello di nutrire germi di degenerazione, ma di trasmettere ideali di salute e di bellezza”.
Picasso? Il male
Hitler, quindi, provava disgusto di fronte alle opere di Marc Chagall e dei pittori yiddish. Suscitavano in lui sentimenti iconoclasti le novità formali di Otto Müller, Otto Dix, George Grosz, Max Beckmann. Era convinto che il lavoro di Kandinskij, Paul Klee, Kathe Kollowitz, Edward Munch corrompesse i giovani artisti del Reich, distogliendoli dalla ricerca della perfezione. Nel suo mondo ideale, sterilizzato da ogni diversità e imperfezione, Pablo Picasso rappresentava il serpente di Eva, il male assoluto.
Spesso mi sento chiedere: dove sono finiti i quadri di Hitler? Quattro dei suoi dipinti li ho visti con i miei occhi nel luglio del 1981 (ero inviato del settimanale L’Europeo) in un deposito dell’esercito statunitense al pianterreno di un anonimo palazzo di dieci piani ad Alexandria, in Virginia, a meno di venti chilometri da Washington. Rappresentano vie e piazze cittadine, rigorosamente prive di ogni traccia di vita. In occasione della mia visita al deposito dei quadri di Hitler mi furono mostrati anche alcuni dei 6953 quadri firmati da 369 Kriegsmaler, pittori di guerra nazisti. Rappresentavano la desolazione, la distruzione sui vari fronti, dal bombardamento di Cassino ai francesi in fuga davanti ai Panzer, ai villaggi ucraini che bruciano tra le bandiere tedesche. Mi sorprese la diversità dei soggetti: volti di volontari francesi e cosacchi ritratti accanto a quelli dei soldati tedeschi, lugubri bandiere e svastiche del Reich, capi politici e militari a cavallo intenti ad avanzare tra i mostri del bolscevismo e del liberalismo.
Strumenti di propaganda
“Come nascono questi quadri?” chiesi alla custode di quella collezione nazista, Marilou Guernes. Mi fu spiegato che l’idea venne proprio al Führer. Da artista mancato, riconosceva l’importanza dell’arte come strumento di propaganda della dottrina nazista. Ancora prima dell’invasione della Polonia (1939) aveva invitato vari artisti a dipingere in studio scene di combattimento della Prima guerra mondiale. Roman Feldmeyer, per esempio, dipinge immaginarie scene di battaglia sul fronte di Fromelles e Lille, dove aveva prestato servizio l’allora caporale Hitler.
Il programma artistico ufficiale della Germania viene elaborato nel 1941 quando, durante uno dei rari viaggi al fronte, il Führer vede alcuni quadri di ottima fattura eseguiti nel tempo libero dai soldati-pittori per i comandi locali. Hitler, che si ritiene un’autorità in tutti i campi dell’arte, istituisce presso l’alto comando delle forze armate un reparto speciale composto da un’ottantina fra i migliori pittori. Li seleziona tra i disegnatori della scuola di Paul Klee e di Vasilij Kandinskij, fa venire i più bravi dalla periferia dell’impero (da Merano, per esempio, fa le valigie Rudolph Hengstenberg). Nomina come supervisore del programma un capitano, Luitpold Adam. E a lui ricorda l’obiettivo principale del reparto: glorificare i risultati ottenuti dalle forze armate tedesche e fornire un supporto alle attività di propaganda destinate a rafforzare e a perpetuare lo spirito militaristico.
Gli artisti vengono inviati sui vari fronti di guerra dove prendono schizzi e appunti di scene di vita (sul fronte italiano si segnala Herbert Agricola, discendente di una famiglia di pittori pendolare da secoli tra Italia e Germania). In un secondo tempo rientrano nei loro studi nelle retrovie e trasferiscono sulla tela le scene cui hanno assistito. I loro quadri finiscono esposti nei comandi militari, nei musei, nelle mense. I pittori che ricevono un incarico ufficiale sono costretti ad accettare le direttive artistiche di Hitler: stretta aderenza al realismo, nessuna concessione alle correnti artistiche di avanguardia che si stanno sviluppando in Europa.
«Raccogliete tutti i quadri di ispirazione nazista e attendete nuove indicazioni»: l’ordine del presidente americano Harry Truman arriva con il messaggio cifrato JCS 1067/6 al generale Dwight Eisenhower il 15 maggio 1945, otto giorni dopo la fine della guerra. La ricerca diventa una vera e propria caccia al tesoro. Dipinti e schizzi sono stati portati via e nascosti nei luoghi più impensati durante gli ultimi, caotici giorni del Reich. Parte della collezione di Hitler è stata nascosta nella famosa miniera di salgemma ad Altaussee, in Austria. Anche la collezione Alti comandi di Adam viene divisa: acquerelli e disegni finiscono nella baracca abbandonata di un taglialegna vicino alla frontiera con la Cecoslovacchia, mentre quella di Heinrich Himmler, Arte di guerra delle SS, finisce a Kelheim in una sala congressi.
Che fare delle 8722 opere raccolte? La decisione è presa a Potsdam nel luglio del 1945 da Stalin, Truman e dal premier inglese Clement Attlee: «È dichiarata illegale l’installazione di qualsiasi quadro o altro emblema che conservi o tramandi la tradizione militare germanica». In base all’accordo, Washington s’impegna a distruggere i quadri della collezione di guerra. Che, intanto, vengono imbarcati e portati in America, al Museo di storia militare di Washington.
Alcuni quadri, quelli «politicamente neutrali», sono stati assegnati agli uffici dei parlamentari e alle caserme americane. Tutti quelli presi agli alleati dei nazisti, i giapponesi, per esempio, sono stati restituiti a Tokyo: erano 150 tele. Nell’ottobre del 1950 il dipartimento di Stato ha autorizzato il rientro in Germania di ben 1659 quadri riconosciuti «senza contenuto né militaristico né politico». Altri dieci quadri, tutti del pittore norvegese Claud Bergen, sono stati imbarcati il 6 agosto 1979. Destinazione: Bremerhaven, sede di un museo di guerra navale. “Invece terremo qui gli acquerelli di Hitler e quei quadri che potrebbero diventare simboli per i neonazisti” concluse Marilou Guernes accompagnandomi all’uscita della galleria-bunker.
Fonte: Conoscere la storia è un mensile creato nel febbraio 2015 dal gruppo Sprea Editori (sprea.it). Così lo presenta il suo ideatore, Mario Sprea: “Nel fitto panorama delle riviste di Storia, alcune eccellenti e autorevoli (come “BBC History Italia”, della nostra scuderia), Conoscere la Storia si distingue non solo per l’eccellenza dei testi e delle illustrazioni ma per la qualità dell’impronta divulgativa. Nell’alimentare la passione per la storia dei suoi lettori, Conoscere la Storia, derivata dalla fortunata rivista inglese All About History, fornisce una grande quantità di informazioni accessorie, insiste su elementi mnemonici e visivi, come planimetrie dei luoghi in cui si sono verificati gli avvenimenti narrati, scalette cronologiche, riferimenti topografici. Un metodo quasi didattico – una didattica affascinante, ricca di dettagli e di curiosità, con suggestive copertine disegnate da grandi illustratori – che permette a chi non ha una grande cultura di farsela, di ricordare, di stabilire collegamenti continui tra fatti e personaggi. Una rivista pensata non solo per quelli che sanno già tutto ma anche e soprattutto per quelli che vogliono sapere tutto”.
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