I giornali e chi li fa sono sempre stati in cima alle curiosità studiose e rigorose di Pier Luigi Vercesi scrittore di libri, nei rari momenti di pausa concessi dal Vercesi giornalista preparato e innovatore (ha fondato e diretto Il Nuovo, primo giornale telematico italiano nato direttamente su Internet). Adesso Sellerio manda nelle librerie un intrigante saggio di storia del giornalismo (dopo Storia del giornalismo americano e Dal nostro inviato speciale). Il titolo promette tutto quello che le pagine mantengono: Ne ammazza più la penna. Storie d’Italia vissute nelle redazioni dei giornali, una storia d’Italia nelle sue tappe principali, dalla caduta di Napoleone fino agli anni Sessanta del Novecento, attraverso i giornalisti italiani, da Ugo Foscolo (messo a libro paga dagli austriaci) alla rivoluzione editoriale partita dalla Milano del dopoguerra.
Giornalisti avventurieri, giornalisti scandalosi, giornalisti venduti e comprati, giornalisti eroici, svelatori di luminose verità oppure occultatori di vergogne nazionali. Pagina dopo pagina, la storia d’Italia e quella dei giornalisti si dipana con un cura minuziosa, ricca di fatti e aneddoti fino all’ultimo capitolo (che vede dominante la figura di Angelo Rizzoli senior, 1889-1970) che qui di seguito ho condensato. C’è chi ha scritto: “Questo libro riesce a riflettere, come uno specchio, il carattere nazionale nella minuta vicenda di ascese e cadute personali, con la concertazione vera e piacevole di una commedia di costume”. Ben detto. (s. g.).
Dopo le elezioni del 1948, Milano cominciava a essere quella che conosciamo oggi: indaffarata, con le ostentazioni della piccola borghesia ambiziosa e l’austera parsimonia dell’oligarchia industriale passata indenne attraverso i rivolgimenti economici e politici degli ultimi anni. Uno stile sobrio, quest’ultimo, perfettamente interpretato dal monumento di via Solferino: il Corriere della Sera. Si racconta, tra le migliaia di aneddoti veri e inventati sul quotidiano milanese per eccellenza, che un giorno Mario Mapelli, direttore amministrativo e vestale del rigore del Corsera, convocasse Paolo Monelli, già principe degli inviati speciali, esortandolo a non presentarsi al giornale con l’auto personale: meglio il taxi, per evitare di offendere i redattori peggio retribuiti. Del resto, Orio Vergani, celebrità milanese della penna e del gusto, attraversava la città in bicicletta con due mollette da bucato strette attorno no ai risvolti dei pantaloni per evitare che finissero nella catena. Per sottolineare la sua naturale propensione al risparmio, i maligni sostenevano che Vergani si presentasse dal direttore con le braghe ancora incardinate alle caviglie fingendo di essersene dimenticato.
Era così che andavano le cose al Corriere della Sera. Quando, per esempio, fu stanziata la somma necessaria per acquistare i venti volumi della Larousse illustrata, si decise che le spese di trasporto erano inutili. Ogni inviato di passaggio dalla capitale francese avrebbe dovuto farsi carico di traghettare un volume nella propria valigia. La lettera M andò smarrita tra un viaggio e l’altro, e l’archivio dovette accontentarsi di 19 volumi. Emme, come il doppio monogramma di Mario Missiroli, direttore che governerà, in età già avanzata (era nato nel 1886), il quotidiano milanese per quasi tutti gli anni Cinquanta (1952-1961): due lustri in cui la macchina del Corriere mortificherà ogni tentativo di concorrenza, ma anche anni di conservatorismo spinto agli eccessi; si trasformerà, nella seconda metà del mandato, nell’incapacità di accorgersi che l’Italia è ormai quella di Lascia o raddoppia, della televisione.
I tre fratelli e la porticina misteriosa
L’integrità e l’autorevolezza del giornale erano garantite da una proprietà attenta a non interferire con il lavoro dei giornalisti. I tre fratelli Crespi – Aldo, Mario e Vittorio – andavano al giornale solitamente di venerdì o in occasione di qualche consiglio di amministrazione. Nessuno li vedeva, passavano da una porticina misteriosa di via Moscova all’angolo con via Solferino affacciata direttamente sulla strada. Quel passaggio venne murato negli anni Sessanta, quasi a rappresentare la fine di un’epoca. Era una porticina in ferro brunito con un pomolo d’ottone più grande del normale che si faceva notare già a una certa distanza. Un omino con un basco grigio in testa e una valigetta di legno lo lucidava tutti i giorni. Oltre la porticina, c’era una scaletta che portava al primo piano, dove i Crespi incontravano i vertici amministrativi dell’azienda. I tre fratelli ripetevano ogni volta di voler rimanere al giornale il minimo indispensabile, «per non disturbare». Un giorno arrivarono senza preavviso e trovarono la porticina di via Moscova chiusa. Si presentarono all’ingresso del giornale, dove nessuno li riconobbe.
Il deserto dei Tartari? In via Solferino
Alla Milano sobria dei Crespi e un po’ bigotta di Missiroli ne corrispondeva un’altra più disinvolta, vissuta e raccontata nei molti giornali di cui era la culla, perché la grande industria della stampa, soprattutto periodica, cresceva e si sviluppava nel capoluogo lombardo abbandonando città come Roma, Firenze, Bologna o Torino. Chi meglio raccontò e cercò di interpretare quella finta metropoli fu una ragazza di buona famiglia lombarda, tanto buona da vedersi respingere da Dino Buzzati. Giornalista alle prime armi, Camilla Cederna si era innamorata del cronista principe leggendo Il deserto dei Tartari, dove la fortezza Bastiani era l’edificio del Corriere della Sera di vedetta contro la barbarie dell’epoca. Era carina e cercò di avvolgerlo nella sua tela, ma si sentì rispondere, dall’autore di Un amore, che non poteva innamorarsi di una come lei: gli avevano inculcato che il sesso è peccato e lo si può fare solo con le peccatrici, donne a pagamento. Camilla si consolò e intraprese, da sola, l’avventura giornalistica, a piccoli passi, fino ad approdare all’Europeo, un settimanale che sarebbe entrato nella storia del giornalismo italiano, e milanese in particolare, grazie a lei e a molte firme presto famosissime, da Oriana Fallaci a Giorgio Bocca.
Quando direttore-editore fa rima con seduttore
Nel marzo del 1950, sbarcava a Milano anche un giovanotto di 26 anni. Sarebbe diventato uno dei pilastri del giornalismo italiano della seconda metà del Novecento, un uomo della levatura di Luigi Albertini, capace di fare il giornalista ma anche il direttore-editore: Eugenio Scalfari. Camilla Cederna lo accolse così: «Un bel giovanotto, senza barba, una larga fossetta nel mento, vestito all’inglese, era il capo dell’Ufficio Estero alla Banca del Lavoro. Aveva molto orecchio, suonava e cantava specialmente canzonette degli anni Trenta. Ballava volentieri, gli piacevano molto le donne. Non conosceva anima viva a Milano: aveva in mano una lettera di presentazione di Mario Pannunzio per Mario Paggi. Diventò subito amico di Paggi e di Benedetti e di tutti noi, ed eccolo, dopo qualche mese, titolare della prima rubrica economica sul mio settimanale». L’Europeo era nato il 4 novembre 1945, primo periodico del dopoguerra, di formato esagerato, con foto molto grandi, come si usava negli Stati Uniti. Direttore Arrigo Benedetti, editore Gianni Mazzocchi, che avrebbe poi pubblicato anche Il Mondo.
Benedetti, lucchese, nato insieme a Mario Pannunzio all’Omnibus di Leo Longanesi, aveva avuto non poche disavventure con il regime fascista: lo avevano incarcerato per aver nascosto in casa sua alcuni prigionieri fuggiti dal campo di concentramento di Modena. Nel ’45 riuscì a raggiungere la Milano semidistrutta della Liberazione. L’amico Mazzocchi gli disse: «E se fondassimo un settimanale?». Lui rispose: «Perché no». Passò qualche settimana. Per ottenere le autorizzazioni e la carta dall’allampanato maggiore scozzese Michael Sinclair Noble, del Psychological Warfare Branch anglo-americano, occorreva avere almeno un nome per la testata. Il primo che venne in mente, su due piedi, fu L’Europeo. La redazione era composta da numeri uno come Emilio Radius e Tommaso Besozzi. Poi arrivarono Manlio Cancogni, Alfredo Todisco e, secondo la leggenda, Giancarlo Fusco, tirato fuori da sotto le barche di Viareggio dove, si racconta, dormiva abitualmente. Fusco divenne una firma brillantissima e anche presentabile esteticamente grazie alla colletta dei colleghi che gli consentì di comprarsi una dentiera (aveva peso tutti i denti, tranne uno, negli incontri di pugilato nella foresta di Tombolo, in Toscana, la terra di nessuno dei disertori di tutti gli eserciti e dei contrabbandieri italiani).
La futura regina del gossip
Camilla Cederna è brillantissima, intrigante, curiosa fino all’indiscrezione. Ma soprattutto, giovane com’è, non è compromessa con il fascismo, cosa all’epoca assai rara nell’ambiente. Benedetti, che come tutti i grandi direttori aveva le sue idiosincrasie per alcune parole, ad esempio quelle che finivano in “one”, la assume e la sguinzaglia a caccia di storie milanesi, con l’ordine tassativo di non usare frasi fatte come «topo nel formaggio» o «rimanere di stucco». Camilla fa di più: coglie a fondo la natura dei signori e delle signore milanesi e, quando non le viene data l’opportunità di raccontarne vezzi e tic, li suscita lei stessa dal nulla, inventandoseli, più veri del vero. La vita mondana milanese, alla fine degli anni Quaranta, stava lentamente riprendendosi, ma non era ancora il tempo dei cocktail e delle feste. Cederna batteva le prime a teatro per spiare chi c’era e con chi era, svolazzando intorno al bel mondo nei foyer. Ma la borghesia milanese, quella buona, al secondo articolo cominciò a schivarla, tenendosene alla larga, come da una spia del nemico. Così, un po’ per noia un po’ per necessità, la futura regina del gossip inventò un personaggio che entrò in scena alla prima rappresentazione di Strano interludio di Eugene O’Neill al Teatro Nuovo. Si trattava della contessa Raoul Pellettier de Belminy. Qualche giorno prima aveva inaugurato la sua nuova casa in via Brera, tutta pareti nere con quadri di Pablo Picasso e Maurice Utrillo, per non parlare di un piccolo James Cardenas dal titolo Pomeriggio mortale acquistato per un milione e mezzo di lire. Nota ancor più intrigante: «La contessa ha aperto le porte di casa mentre il marito, un noto fisico, si trova in India per lavoro». «Milano – diceva la nobildonna alle sue selezionatissime invitate – è una cara città. I milanesi sono gai come tutti i meridionali. La neve mi ha meravigliato: credevo che in Italia non nevicasse mai». Poi tutti a casa, con in dono l’ultimo romanzo di Riccardo Bacchelli, Il pianto del figlio di Lais. Da allora, ogni tanto la contessa, con i suoi boccoli color del miele e le unghie laccate d’oro o d’azzurro a seconda dell’intonazione all’abito, rispuntava insieme ai Gavazzi, ai Dubini, al barone Lombardo, ai Bompiani. Ora aveva un lorgnon listato di velluto ametista, ora le penne d’anitra arancio nei capelli disegnate da Leonor Fini apposta per lei, una volta guanti di zebra, un’altra tacchi di cristallo sotto sandali cobra nero. Amava tanto pescare il tonno in Sicilia. Tutta Milano voleva incontrarla e cominciò a dare il tormento alla Cederna. Un giorno alcune signore della buona borghesia milanese affermarono di averla incontrata alla Bibliofila, dove era stata presentata da Carla Marzoli. Dissero che portava una deliziosa veletta. Ma la giornata trionfale della contessa Pellettier de Belminy fu una domenica d’agosto, quando comparve sulle colonne del Corriere della Sera. Indro Montanelli in persona la citava tra le «persone più eleganti di Riccione» e per la prima volta venivano nominati anche i suoi «due graziosi bambini». A quel punto, per evitare ulteriori usi impropri della contessa, Cederna la fece sparire dalle cronache accompagnandola in una clinica svizzera perché necessitava di cure, spiegò ai suoi lettori, avendo preso troppo freddo durante una caccia alla tigre a Bombay.
Milano inventata, un po’ cialtrona
Questa Milano inventata, a volte un po’ cialtrona, era la terra di bengodi del giornalista. Quando nel 1954 Giorgio Bocca sbarcò all’Europeo chiamato da Michele Serra, che aveva preso il posto di Arrigo Benedetti, disse di sentirsi finalmente sollevato. «Venni a Milano volentieri, con Torino avevo chiuso una volta per sempre. La mia città aveva un suo grande fascino, era città-guida per molti aspetti, ma il rapporto fra il potere economico e l’informazione non consentiva di fare il mestiere come volevo farlo io».
A dire il vero non era esattamente così. Benedetti, infatti, si era dimesso con un proclama che lasciava intendere ben altro: «In seguito a dissensi d’ordine politico ed editoriale intervenuti tra la Società editrice dell’Europeo e me, lascio la direzione di questo settimanale. Ne iniziai le pubblicazioni nell’autunno del 1945, scegliendo per il nuovo giornale un titolo che con evidenza si richiama agli ideali di vita civile e di cultura, indispensabili, a mio giudizio, per ricostruire un paese dopo una Guerra sfortunata. Ed a tali ideali, in quasi nove anni di lavoro, ho cercato di essere fedele […]». Il settimanale era passato a Rizzoli, che voleva trasformarlo da giornale d’élite in periodico adatto a un più vasto pubblico. Attorno all’uscita di scena di Benedetti gravavano dissensi ben più profondi tra il fondatore e il nuovo proprietario. Secondo Paolo Murialdi si agitavano, in quei primi anni Cinquanta, tensioni politiche che rendevano instabili molti direttori troppo gelosi della propria indipendenza e delle proprie opinioni. Oltre al caso Montesi, altri due scandali politico-giornalistici toccarono da vicino Angelo Rizzoli.
Innanzitutto la condanna e l’incarcerazione di Giovanni Guareschi, direttore del Candido, per avere diffamato il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, accusandolo, sulla base di documenti falsi senza preoccuparsi di sottoporli a perizia, di avere chiesto agli anglo-americani, nel 1944, di bombardare Roma. Benedetti commentò il fatto in maniera troppo cauta, cosa che non piacque al vecchio Rizzoli. Inoltre, poco tempo dopo, L’Europeo pubblicò ampi stralci di un discorso riservato dell’ambasciatore americano in Italia Clara Luce. Rizzoli si sentì in dovere di intervenire con una lettera aperta in cui affermava di aver sempre concesso la massima libertà ai suoi direttori, e il nuovo nocchiero del settimanale, Michele Serra, rassicurò i lettori garantendo, pur in forma diplomatica, che il settimanale sarebbe rimasto «fedele, senza slittamenti, al costume giornalistico finora seguito e a una linea politica di liberalismo progressivo».
Arrigo Benedetti, dal canto suo, non restò a lungo disoccupato: alla fine del settembre 1955, con data 2 ottobre, tornò in edicola alla guida di un nuovo settimanale su cui campeggiava la testata L’Espresso, anch’esso di grande formato, sedici pagine, prezzo 50 lire.
“Dov’è la stampa indipendente?”
Il clima editoriale era tornato a farsi pesante. Nella prefazione a un suo libro, Ernesto Rossi si chiedeva: «Dov’è la stampa indipendente in Italia? I quattrini per finanziare i giornali li hanno soltanto i grandi industriali, i partiti al potere e i comunisti […]. La stampa finanziata dai partiti che sono al potere è quasi tutta foraggiata anche dagli industriali […]. La critica della stampa comunista e filocomunista mostra troppo la trama delle intenzioni moscovite ed è troppo screditata dalla disinvoltura con la quale mischia continuamente la verità alla menzogna, per dare veramente noia ai signori della Confindustria».
Lamberto Sechi e gli Agnelli
A Torino, quindi, era prevedibile andasse peggio. Lamberto Sechi, che allo scadere degli anni Sessanta trasformò Panorama da mensile in settimanale e ne decretò il grande successo, alla fine degli anni Cinquanta dirigeva la prestigiosa Settimana Incom, giornale appena acquistato dalla Fiat. Fu chiamato a Torino dai fratelli Agnelli, che lo incontrarono per rinnovargli l’incarico: «Ricordo che l’Avvocato sapeva poco di giornali, o così almeno voleva far credere: mi disse che leggeva solo L’Equipe, il giornale sportivo francese, quando viaggiava in aereo. Invece Umberto sapeva tutto, anche quello che avevo fatto io. Ci mettemmo d’accordo. Mi diedero il mandato di fare un periodico simile a L’Europeo di Arrigo Benedetti, piuttosto vispo. Mi alloggiarono al Principe di Piemonte e cominciai l’avventura. A un certo punto si profilò all’orizzonte la ricorrenza del luglio di Tambroni: la rivolta di piazza contro il tentativo di imbarcare nel governo i missini. Feci fare il pezzo a Ugo Zatterin, un signor giornalista con fama televisiva. Sapeva come erano andate le cose per aver collaborato, in passato, con Tambroni e, da ottimo professionista, le raccontò senza reticenze. Qualche giorno dopo mi chiamò l’Avvocato, all’alba come era sua abitudine, e mi disse: “Caro direttore, mi dispiace molto, ma Tambroni ci ha fatto tali piaceri che non posso scontentarlo. Non posso più far uscire questo giornale”». Sechi chiese aiuto a Giorgio Fattori, direttore de L’Europeo e, attraverso di lui, mise in contatto Agnelli con Rizzoli. Il vecchio Angelo, evidentemente non ricattabile da Tambroni, accettò di buon grado, in regalo, la patata bollente della Settimana Incom. Il settimanale era però sceso da 150.000 copie a 90.000. Lamberto Sechi riuscì in qualche modo a rivitalizzarlo con uno strano espediente: «Un giorno incontrai Peter Kolosimo che mi propose una serie di articoli di archeologia fantastica. Provai, e il giornale ebbe subito picchi nelle vendite. Persino Oriana Fallaci, che lavorava all’Europeo, veniva da noi prima dell’uscita del giornale per sapere in anteprima cosa avrebbe scritto Kolosimo: tutti sembravano impazzire per quelle cose».
Anche la romana e poi torinese Settimana Incom sbarcava quindi a Milano per un atto, diciamo, di democrazia editoriale. «L’Angelo Rizzoli – racconta Giorgio Bocca –, il fondatore della casa editrice, era il centro di quella mescolanza produttivistico culturale. Si diceva che tenesse la contabilità delle sue cento aziende sul retro delle scatole di sigarette, si parlava delle sue amanti, della sua barca al Lido di Venezia e di come trattava il figlio Andrea anche quando era quarantenne: “Tas ti, pirla”. Era simpatico, meneghino e non leggeva mai niente. Stavo all’Europeo da cinque anni quando ci invita in casa sua per la presentazione di un film. Qualcuno mi chiama per nome, allora lui, l’Angelo, mi viene vicino e dice: “Bocca? Ma sa che mi ha parlato molto bene di lei il Missiroli, il direttore del Corriere. Ma lei dove scrive?”».
C’è editore ed editore
Milano, per chi veniva dal resto d’Italia, era una liberazione, l’inizio d’una nuova vita… Un giorno Angelo Rizzoli incontrò Mazzocchi e gli disse: «Tu sei un cretino. Fai dei bellissimi giornali e non ci guadagni. Io faccio dei giornali brutti e ci guadagno». E l’editore del Mondo ribatté: «Per forza. Tu stampi i giornali per fare soldi, e li fai. Io li faccio per divertirmi, e mi diverto».
In questo dialogo, c’è tutto Rizzoli, e c’è anche lo snobismo radical chic che negli anni successivi si sarebbe meglio o peggio dispiegato.