È ricco e importante il calendario di iniziative che caratterizza il 110° compleanno del mitico Grand Hotel di Rimini, seconda casa di Federico Fellini e monumento nazionale dal 1994. Gli eventi celebrativi si sviluppano per i due mesi centrali dell’estate e hanno come cuore il Grand Hotel stesso, ma non solo. Luogo fisico e dell’immaginifico, grazie ad Amarcord e a Fellini, il Grand Hotel (che avevo conosciuto e apprezzato personalmente grazie agli inviti delle Giornate di studio del Centro Pio Manzù) apre le sue porte a molte iniziative allargate alla città: l’elenco completo è su www.grandhotelrimini.com. Giovedì 5 luglio è la data più importante, anteprima della lunga Notte Rosa. Sarà una notte magica, in abito da sera, sulla terrazza, con la conduzione di Massimo Giletti, reduce da una stagione di grandi successi con “Non è l’Arena” su La7, “timoniere” preferito ieri da Tonino Batani (una mia intervista all’ “albergatore a 5 stelle” nella cornice del Grand Hotel la trovate qui e nel mio nuovo libro: “In viaggio con i maestri”, sottotitolo: “Come 68 personaggi hanno guidato i grandi del nostro tempo”, Minerva) e oggi da Paola Batani & Family (Cristina, Gianni e Luciana). Dallo stesso 5 luglio sarà visitabile l’esposizione allestita nella sala “Tonino Guerra” dal titolo “110 anni di storie di viaggi”, un percorso nei saloni del Grand Hotel. Negli stessi giorni sarà presentato il volume dedicato alla storia di questo albergo: “Grand Hotel: Rimini il mito”, curato dalla cronista (e amica) Letizia Magnani, edito dalla bolognese Minerva.
Voglio condividere questa festa con due mie interviste, una reale e una immaginaria: la prima è a Massimo Giletti, già apparsa sul n. 49/2016 di Sette, lo storico magazine del Corriere della Sera, in cui il giornalista televisivo svelava un suo sorprendente (e, al contrario della sua figura, perdente) spirito guida; l’altra, un’intervista immaginaria a Federico Fellini, che fa parte di una fortunata serie di interviste impossibili scritte nel 2008 per la rivista De Vinis, fondata dall’amico comune, scomparso da poco, Terenzio Medri, quando oltre che presidente degli albergatori di Cervia (il suo vice era proprio Batani) era anche presidente dell’Associazione italiana sommelier.
Lo spirito guida di Giletti? Toro Seduto, un leader lontano da potere e profitto
GIANNELLA: Caro Giletti, ti confesso di non conoscere il nome dell’eroe che mi hai appena indicato: Thathanka Iyothanka.
GILETTI: “Ti aggiungo il suo soprannome: Hunkesni, cioè “lento”, a causa della sua abitudine di ben riflettere, prima di agire”.
Resto nel buio.
“I due nomi sono in lingua originale dei Sioux. Indicano quello che è il mio personaggio di riferimento: Toro Seduto, il capo indiano ricordato nei libri di storia degli Stati Uniti per la vittoria sul colonnello Custer del Settimo cavalleggeri, il 25 giugno 1876”.
Una scelta sorprendente.
“Ma non per chi conosce i particolari della mia biografia. Da ragazzino sono cresciuto a Ponzone di Trivero, in Piemonte, importante centro laniero e porta d’accesso alla strada che attraversa l’Oasi Zegna. Qui mio padre era titolare di un’azienda tessile e io vivevo in una casa di campagna tra i boschi con i miei fratelli gemelli, Emanuele e Maurizio, più grandi di me di sette anni. Con loro, anzi contro di loro organizzavamo vere e proprie battaglie: loro in divisa blu, come i soldati americani, e noi più piccoli travestiti da indiani, seguendo una ritualità precisa. Trenta, quaranta combattenti con archi, frecce, fionde… La sera, a tavola con mamma Giuliana (mio padre era sempre in viaggio per lavoro) c’era la ricostruzione degli scontri che mi vedevano sempre, inesorabilmente, perdente. Nasce da qui la mia propensione battagliera e a essere dalla parte degli sconfitti”.
Poi parti per Torino, liceo classico, laurea in Giurisprudenza con 110 e lode, la scelta del giornalismo come mestiere, l’approdo a Roma nel 1988 nella redazione del programma televisivo Mixer, con Giovanni Minoli…
“È con Minoli che riappare nella mia vita Toro Seduto. Giovanni un giorno mi regala una biografia di quell’uomo sacro dei Sioux con questa dedica: ‘A Massimo perché, seguendo l’energia di Toro Seduto, sappia essere forte, saggio e soprattutto paziente’, cioè Hunkesni… La lettura del libro e la scoperta del poker di virtù di quel guerriero indiano, lontano dal profitto e dal potere economico, mi confermarono la bontà della scelta che avevo fatto da ragazzino”.
A me quell’epopea indiana fa affiorare alla mente il potlàc, il dono maligno consistente in ‘distruzione’ dei beni. Gli antropologi di fine Ottocento, inviati presso le adunate annuali degli indiani del nord-ovest americano convocate per individuare la tribù leader dell’anno, scrissero di intere casse di olio di balena bruciate, di barche nuove fatte a pezzi, migliaia di coperte e di oggetti di rame lanciati in mare. In sostanza, vinceva la tribù che sprecava di più, dando la sicurezza di essere in grado di produrre nuovi beni.
“A pensarci bene, oggi le gigantesche spese per le armi e le guerre somigliano a un grande potlàc quotidiano. Anche per questo la vita di Toro Seduto va riletta”.
LE INTERVISTE IMPOSSIBILI
Il ritorno di Fellini al Grand Hotel: “Un buon vino è come un buon film”
di Salvatore Giannella
Era il Ferragosto del 2008. Entrai nel Grand Hotel di Rimini, storico albergo della Riviera adriatica, inaugurato il 1° luglio 1908 e ancora in festa per il suo centenario. Sulla facciata dell’albergo progettato dall’estroso architetto sudamericano Paolo Somazzi, venivano proiettate immagini di Federico Fellini e dei suoi principali film. Il grande regista di origine riminese ha dato fama mondiale al tempio delle vacanze di monarchi e principi, artisti e scienziati, attori e statisti, frequentandolo nelle sue incursioni romagnole (la sua stanza era la numero 315, al terzo piano) e immortalandolo in molte delle sue pellicole, a partire da Amarcord, in cui il Maestro ne riproduce le atmosfere inimitabili e travolgenti.
Nella sala da pranzo tutti i tavoli sono occupati meno uno, quello a destra dell’entrata, con il muro alle spalle e una vista d’insieme sul salone e su parte dei 4 mila metri quadrati di parco. “È il tavolo di Fellini”, mi spiega il direttore, Leopoldo Veronese, il più antico “servitore” dell’albergo (ci lavora dal 1981, oggi è passato al timone dell’altro gioiello della collana Batani Select Hotels, il Gran Hotel Da Vinci di Cesenatico, Ndr). “Lui amava avere le spalle coperte e la migliore visuale sull’ingresso, proprio come il mitico John Wayne, che quando entrava nei saloon dei suoi film western si metteva con le spalle al muro e controllava l’ingresso per motivi di sicurezza. Chissà perché, da quando lui è morto, 15 anni fa, nessuno ha mai voluto prendere quel posto. Guardi, non si tratta di superstizione. Direi, per una questione di rispetto…”.
“Direttore, credo di non mancare di rispetto a Fellini se scelgo di sedermi a quel tavolo. Lei che lo ha conosciuto bene, che cosa ordinava?”
“Guardi, non era un mangione, bastava poco per saziarlo, preferiva quei pasti che lo riportassero all’infanzia riminese: adorava i primi, i passatelli in brodo, le tagliatelle, gli strozzapreti, i cappelletti con ripieno di Morra romagnola. Di secondo una sogliolina dell’Adriatico o una tagliata di carne o una porzione di cosciotto di maialino in porchetta con due-tre patate arrosto. Chiudeva raramente con un dolce (potrà assaporare stasera una mela artusiana così come piaceva a lui) con un sorbetto al limone o al cedro. Tanta acqua, un sorsetto di vino rosso Sangiovese, qualche volta sostituito da un mezzo bicchiere di bianco Trebbiano.”
Fellini a tavola era un “gourmet con gli occhi”, un francescano che godeva del piacere di veder mangiare gli altri”. Parole che non mi sorprendono. Le avevo più o meno lette in una confessione di Paolo Villaggio, superbo interprete della felliniana Voce della luna:
Li ordino anch’io, al Grand Hotel, i sapori della Romagna felliniana, questa terra dove il cibo entra in tutto e condiziona la vita. Una vecchia ballata narra la lite di due innamorati: “La mia morosa mi ha detto gnocco, e io ci ho detto: brutta crescentona”. Do un’occhiata alla guida La mia Rimini, dove Fellini ricorda così lo storico albergo: “Il Grand Hotel era la favola della ricchezza, del lusso, dello sfarzo orientale. Quando le descrizioni nei romanzi che leggevo non erano abbastanza stimolanti da suscitare la mia immaginazione, allora ricorrevo al Grand Hotel”.
Sto per inforcare il primo cappelletto quando mi appare proprio Lui, Fellini. Si è servito da solo, raccogliendo pochi cappelletti in un piatto dal tavolo centrale. “Posso accomodarmi?”, chiede con gentilezza.
GIANNELLA Questo tavolo fu e resta ancora Suo. Prego, sono onorato della Sua compagnia, Maestro. O preferisce che la chiami dottor Fellini?
FELLINI Dottor Fellini è tecnicamente sbagliato. Non sono laureato e quelle volte che mi furono offerte le lauree honoris causa le rifiutai.
GIANNELLA Oh, questa è bella. Da chi le vennero offerte? Quando? E perché le rifiutò?
FELLINI Fu un’idea dell’allora Rettore Magnifico dell’Università di Bologna, Fabio Roversi Monaco. Eravamo nel 1992 e io, pur capendo il sentimento di generosità che muoveva i professori dell’ateneo più antico del mondo, mandai due righe di rinuncia. “Mi sento come Pinocchio decorato dal Preside e dai Carabinieri per essermi divertito nel Paese dei Balocchi… mi creda, Rettore, sono già premiato dall’aver fatto i miei film perché mi sono divertito a farli”. Roversi Monaco capì e mi concesse la sua silenziosa approvazione. Un’altra volta scontentai il professor Carlo Bo, Rettore in Urbino, che ebbe a rimbrottarmene con affettuosa e intelligente bonomia.
GIANNELLA La sua presa di posizione, Maestro, ha anticipato di anni quella di un ministro dell’Università, Fabio Mussi. Che nel 2007 si è opposto alla proliferazione delle lauree honoris causa attraverso un comunicato rivolto ai Rettori delle Università italiane: il ministro non avrebbe più esaminato ulteriori proposte di candidature avanzate dalle Università. A differenza del suo originale prestigio, negli ultimi anni la laurea honoris causa (“titolo accademico conferito come riconoscimento di meriti eccezionali” secondo la definizione del dizionario Devoto-Oli), sarebbe stata, al contrario, troppo spesso assegnata a diverse personalità, anche leggere, dello star-system nostrano, della politica, dello sport, del cinema, del mondo delle imprese, della letteratura.
FELLINI La cosa mi è sfuggita. Sa, non leggo più i giornali come un tempo, quando facevo una scorpacciata di lettura ogni mattina.
GIANNELLA Allora le è sfuggita la notizia di qualche ora fa. È morta, in una casa di cura vicino a Chicago la donna che recitò nel ruolo di “gigantessa” nel “Casanova”. Sandy Allen era la donna più alta del mondo, se la ricorda? Due metri e 32 centimetri. Malata e da diverso tempo costretta su una sedia a rotelle, Sandy, 53 anni, si era rivolta al Guinness dei primati, che ne aveva riconosciuto il record, per chiedere di trovarle un compagno «alla sua altezza».
FELLINI Mi dispiace per Sandy, ne conservo un bel ricordo. Guardi, a tutti noi dell’Emilia Romagna, la morte non fa paura. Pensi che a Goro la domenica, ai miei tempi e ritengo che la consuetudine sia ancora oggi rispettata, prendono una seggiola e vanno al cimitero, davanti a una tomba: riferiscono al defunto i fatti della settimana. C’è sempre un legame con quaggiù. A me non fa paura, l’inesorabile falciatrice, a differenza del mio amico Tonino Guerra, che ha scritto anche una poesia sull’argomento:
GIANNELLA Lasciamo questi argomenti tristi, Maestro. Intanto, le verso un po’ di vino buono? È Sangiovese, il vino da Oscar della Romagna. Lo ricordano perfino nelle canzoni: “Evviva la Romagna, evviva il Sangiovese” si canta ancora oggi nelle balere della Riviera, al ritmo della celebre canzone scritta negli anni ’70 da Raul Casadei, a testimonianza di quanto questo vino faccia parte del quotidiano di ogni romagnolo doc.
FELLINI L’assaggio volentieri un dito di Sangiovese. Un buon vino è come un buon film: dura un istante e ti lascia in bocca un sapore di gloria; è nuovo a ogni sorso e, come avviene con i film, nasce e rinasce in ogni assaggiatore.
GIANNELLA Pur non essendo un gran bevitore, sarà contento dei passi avanti fatti dai vini romagnoli…
FELLINI Effettivamente questo tentativo serio di fare vini romagnoli buoni mi pare che si possa dire riuscito. Noi non siamo stati terra di grandi vini, però siamo dignitosi, perché noi il vino siamo capaci di berlo. Si ricordi che c’è un modo di dire: quando uno ha sete tu romagnolo non gli offri un bicchiere d’acqua ma uno di vino. L’Albana di Romagna, che si è aggiudicata l’Oscar 2008 nella categoria vini dolci, all’interno di «Squisito» a San Patrignano, il Pagadebit, il Trebbiano, e soprattutto il Sangiovese. A proposito, lo sa perché si chiama così?
GIANNELLA Non ho le idee molto chiare. Una volta mi hanno accennato che c’entrino i vigneti piantati su un monticello vicino a Rimini…
FELLINI Esatto. Le prime notizie storiche sul vitigno, autoctono, risalgono al 1600 e la tradizione vuole che la sua denominazione derivi da Monte Giove (l’allora Collis Jovis), la collina su cui sorge Santarcangelo di Romagna: qui i frati cappuccini, che coltivavano la vite, un giorno ospitarono un illustre personaggio che gradì moltissimo la bevanda. Interrogati sul nome, i cappuccini, che fino ad allora non gliene avevano mai dato uno, coniarono prontamente quello di Sanguis Jovis, trasformatosi poi negli anni in Sangue di Giove e in Sangiovese. Quello Doc è un vino rosso da tavola: nasce dai vitigni presenti in diversi comuni delle province romagnole, che concorrono a formare nella nostra terra una squadra di cinque Sangiovese diversi per carattere e personalità: il Cesenate, il Forlivese, il Riminese, il Faentino e l’Imolese. E poi, lo sa che il Sangiovese, sparso da questo colle, dà linfa a molti vini italiani? Anche i più nobili vini toscani sono in gran parte fatti di Sangiovese. La storia dei vini, come vede, riserva tante sorprese.
GIANNELLA D’ora in poi quando mi capiterà di andare all’osteria Sangiovesa, guarderò in modo diverso la strada che porta in cima al colle di Santarcangelo. La sento molto preparato sui temi enogastronomici.
FELLINI Le confesso che, se avessi potuto cambiare mestiere, avrei fatto il produttore. Non di film, ma di olio e di vini… L’ho messo nero su bianco in una lettera di tanti anni fa all’amico Bernardino Zapponi, il giorno dopo una visita alla proprietaria dell’azienda che produce il Brunello di Montalcino. Volevo mandare una cassa a Bernardino, ma costava troppo, 50mila lire a bottiglia, quello d’annata, e così gliene portai soltanto una bottiglia per festeggiare il nostro incontro. Tutta la sera, quella sera in Toscana, ho ascoltato dei racconti meravigliosi sul vino. Non sapevo che quando bevi un sorso di vino pregiato bevi il frutto di una serie di operazioni basate su conoscenze che abbracciano quasi tutto il sapere umano: geologia, meteorologia, astrologia e poi un’infinità di altre nozioni ed esperienze e riti e metodi tramandati da secoli… Era bellissimo ascoltare questa bella donnona che da sempre sbevazza i suoi tre o quattro litri al giorno per assaggiare, consigliare, controllare, correggere, degustare. Era proprio la moglie di Bacco. Avrei voluto registrare tutto quello che ha raccontato, forse i vari Veronelli, Soldati lo hanno già fatto un libretto con tutte queste storie sul vino, certo che sarebbe stato proprio piacevole proporle a un lettore. Comunque, torniamo a noi e alla mia mitica Casa riminese, gioiello liberty che dal 1994 è stato vincolato dalle Belle Arti e che quest’anno ha compiuto cento anni. Lo vedo come il simbolo di noi romagnoli, intraprendenti, curiosi, ospitali: pensi che risale al XIII secolo la Colonna delle Anella di Bertinoro, simbolo dell’accoglienza del passato, quando i signori del posto facevano a gara per ospitare i forestieri di passaggio. A proposito del Grand Hotel, ha visto come il nuovo proprietario, Antonio Batani, lo sta riportando al suo antico splendore? E spero che, lui che è bravo nel recupero di antichi ambienti (nel 2013 ha inaugurato il Grand Hotel da Vinci, 5 stelle sul lungomare di Cesenatico, sulle macerie dell’ex colonia Veronese, Ndr) presto riesca a coronare il sogno preannunciato ai giornalisti: ricostruire le due cupole in stile orientale che l’edificio aveva sul terrazzo prima dell’incendio del 1920 e che ospitavano due magnifiche suite.
GIANNELLA Fu proprio lei a segnalare a uno dei precedenti proprietari, il mitico commendator Pietro Arpesella, le tracce di quelle misteriose cupole. Lei pensa che ce la faranno a ricostruirle?
FELLINI Sono molto ottimista sulle capacità dei miei concittadini riminesi. E glielo spiego con un solo dato. Rimini, dopo Cassino, era la città più distrutta alla fine dell’ultima guerra mondiale. Aveva avuto il 99 per cento delle case abbattute. È una prova delle nostre capacità positive: mettersi insieme e fare. Per vincere le nuove sfide, bisogna tornare tutti insieme a sognare, tutti insieme a innamorarsi di questa inimitabile Riviera e della sua umanità, quella che Marino Moretti elogiava per il cuore generoso e la luminosa saggezza. Bisogna tornare a guardare la saggezza. Bisogna tornare a guardare la luna seduti su un pedalò in spiaggia senza sentire una voce poco amica che, puntandoti una pila negli occhi, ti dice: è vietato.
L’intervista è finita. Il Maestro si alza, saluta e se ne va. Resto solo io a vedere il secondo piatto sul tavolo e nel gesto rituale del cameriere che sparecchia togliendo solo il mio piatto mi accorgo di aver avuto l’esclusivo onore di condividere con il Maestro due cappelletti e un bicchiere di buon vino.
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Fantastica questa pagina! Belle interviste di Salvatore Giannella, di valore; con ricordi, di Federico Fellini e riferimenti importanti. Inoltre lo spirito guida di Massimo Giletti, Thathanka Iyothanka, il quale ci invita a ben riflettere prima di agire. Sullo sfondo il mitico Grand Hotel di Rimini!
Grazie per queste perle, Salvatore, che di sicuro ritroveremo nel tuo libro appena uscito, con tante altre belle interviste guida!