Compie trent’anni un’istituzione culturale e turistica di Cesenatico, il presepe della Marineria. Fu a Natale del 1986 che venne varato questo presepe galleggiante sulle barche del porto canale leonardesco della città romagnola, con le statue a grandezza naturale che rievocano la vita della gente comune di un borgo di pescatori. Insieme alla Sacra Famiglia e al patrono della città, San Giacomo, possiamo incontrare chi salpa o rammenda le reti, chi conduce le imbarcazioni, chi vende il pesce o le piadine. L’edizione di quest’anno, arricchita dalla statua di un bambino con un cesto di frutta, è stata varata sabato 3 dicembre con l’intervento del sindaco Matteo Gozzoli e del vescovo della diocesi di Cesena-Sarsina, monsignor Douglas Rigattieri.
L’idea originaria, fiorita nella mente dell’albergatore Guerrino Gardini, è stata perfezionata e concretizzata da un gruppo di artisti, con la regia di Tinin Mantegazza, trapiantato da Milano a Cesenatico e conosciuto con la moglie Velia per il lavoro teatrale e l’impegno televisivo (è stato anche collaboratore delle trasmissioni di successo di Enzo Biagi). A Tinin Giannella Channel ha chiesto di ricordare come nacque questa singolare attrazione turistica della costa romagnola, fuori dalla ressa estiva e dalla calura ferragostana. (s.g.)
In origine doveva essere un presepe vivente sulla barca più grande fra quelle antiche esposte a galleggiare sul porto canale di Cesenatico. Almeno questa era l’idea maturata tra le associazioni dei Bagnini e degli Albergatori (quest’ultima presieduta da Guerrino Gardini) quando me la vennero a proporre chiedendomi la regia.
La mia controproposta fu di costruire delle statue che potessero durare molto di più di una sola sera e in più di continuare a produrre statue anno dopo anno fino a quando tutte le barche antiche ne fossero piene. Determinante fu l’assenso dell’allora sindaco, l’architetto Giovanni Bissoni. Così iniziò la lunga storia trentennale del presepe sulle Barche antiche.
Il contributo economico delle Associazioni non fu entusiasmante, il grosso della somma lo mise il Comune. Somma comunque insufficiente a fare le statue totalmente in legno come avremmo voluto, occorreva inventare qualcosa di molto più economico.
Eravamo un piccolo gruppo: quattro teatranti e uno scultore, scartammo subito la cartapesta che richiedeva una conoscenza tecnica che non avevamo e pensammo invece a una commistione tra legno e tela incerata. Era un metodo assolutamente inedito, tutto da inventare. Ci venne in aiuto la nostra conoscenza dei materiali per scenografia.
Allo scultore Maurizio Bertoni l’incarico di scolpire in legno di cirmolo tutte le parti esposte (teste e mani) mentre per il resto del corpo, la parte vestita era costituita da uno scheletro di asticelle di legno rivestite di rete da pollaio e successivamente di tela modellata a caldo con pennellate di paraffina.
Vennero fatti molti tentativi, ma la cera calda come arrivava a contatto con la tela fredda si rapprendeva subito, idem l’immersione della tela nella cera calda: non si arrivava a poterla modellare. Fu Mino Savadori ad avere l’dea vincente con un metodo che chiamammo “scottadita”. Posata e fissata la tela sulla rete da pollaio Mino pennellava cera calda sulla tela scaldando e modellando il tutto con un “fon”. Era davvero “scottadita”!
Il primo anno eravamo più numerosi, poi il gruppo si ridusse, rimanemmo in tre: Savadori, Bertoni e io. Dato che noi lavoravamo praticamente gratis il risultato fu davvero economico, anche se le statue erano e sono piuttosto delicate soprattutto nel trasporto e quindi bisognose di periodiche manutenzioni.
Per ragioni d’età e di salute anch’io qualche anno dopo lasciai e oggi sono solo Mino Savadori e Maurizio Bertoni a provvedere a costruzione e manutenzione delle statue del Presepe giunte ormai quasi al completamento delle figure necessarie all’esposizione su tutte le barche. Rimane un interrogativo: quando anche loro due dovessero ritirarsi chi provvederà alla manutenzione di quel patrimonio? Forse il Comune se ne dovrebbe preoccupare. •
L’AMMALIANTE PRESEPE CHE VESTE A FESTA
IL SALOTTO DELLA RIVIERA ADRIATICA
A PROPOSITO / LA LIBRAIA DI PIAZZALE LORETO
Ricordi e racconti di Tinin
disegnano le molte anime
di Milano nel dopoguerra
In un libro-amarcord, con ironia e semplicità affiorano una città
e i tanti protagonisti, a partire da Gino, innamorato del PARTITO
Si presenta così, al lettore, Tinin Mantegazza nel libro appena edito da Corsiero La libraia di Piazzale Loreto (100 pagine, 18 euro) nelle cui pagine c’è l’Italia sotto la dittatura fascista, c’è la guerra con le sue tragedie e c’è l’immediato dopoguerra con l’energia della riconquistata libertà. Ci sono poi tre storie che esulano dal periodo 1943-1946 e formano quasi un epilogo: una riguarda la strage di Piazza Fontana (1969) e le ultime ritraggono nel profondo il carattere milanese. Ne abbiamo scelta proprio l’ultima, Piazza Esquilino 1995.

Tinin Mantegazza, “La libraia di Piazzale Loreto” (100 pagine, 18 euro).
A San Siro, in fondo a via dei Rospigliosi, abitava in una modesta ma dignitosa casa l’operaio Gino Fantoni, da ragazzo era emigrato da Caverzere (Venezia) dopo l’alluvione del Polesine del 1951. Uomo di solidi sentimenti, nella vita aveva avuto un grande amore, un vero amore, assoluto, devoto, incondizionato, totale. La storia cominciò a scuola, non fu un colpo di fulmine, ma una lenta e progressiva passione, maturata nel tempo. Nell’età del lavoro l’amore crebbe: solido, forte, felice. Una storia esemplare di assoluta fedeltà. Sì. In realtà ci fu anche la Gisella, buona moglie, che gli diede anche un paio di figli, belli, sani e buoni.
Certo, amava molto anche loro, ma l’amore vero, grande, esemplare, la storia della sua vita era un’altra: mai un dubbio, un’esitazione, un cedimento. Non era un amore possessivo, anzi, semmai ne era uno posseduto: il suo amore era, scriviamolo tutto in maiuscolo: era IL PARTITO! Ogni sera, dopo il lavoro e la cena in famiglia, andava in sezione: puliva, riordinava, preparava gli elenchi del tesseramento, stampava circolari al ciclostile. La domenica, porta a porta, distribuiva il Giornale del Partito: conosceva tutti i compagni, due parole di fede e di speranza: “Vedrai, giorno verrà che governeremo noi, avremo un mondo nuovo, una nuova società”.
La festa del Partito era il suo grande momento: montare gli stand, preparare il focone, arrostire salsicce. Bruciava le ferie per la Festa dell’Unità: era la sua vera gioia. Aveva ricevuto anche il premio di miglior diffusore: il suo era davvero un grande amore. La Gisella e i ragazzi per il suo cinquantesimo compleanno gli avevano regalato la catenina da portare al collo e la medaglietta con incisa la falce e il martello. Non poteva desiderare miglior regalo.
Arrivò l’ora della pensione, i figli erano volati via, sposati. Ormai poteva stare molto tempo in sezione, peccato che la sezione fosse stata chiusa, fu un brutto momento, una vera delusione, un amore tradito: andò in depressione, la Gisella lo guardava smarrita.
Tutto il giorno senza parlare, chiuso in casa a rimuginare, anche la domenica non usciva, la domenica senza la diffusione del giornale non era più la stessa. Pensava solo al momento della rivalsa: “Quando morirò ci saranno le bandiere, la banda suonerà Bandiera rossa, l’Internazionale, la Marsigliese, magari anche Bella ciao e la Marsigliese”. •
22 Febbraio 2018
l’avevo letto quando venne pubblicato l’articolo ma ho voluto rileggerlo ancora perché l’ironia di Tinin ha una sempre una amara verità che ti aiuta a comprendere…