Alle undici di venerdì 21 luglio una barca lascia il porto canale leonardesco di Cesenatico e, come ogni anno dal 1997 (sindaco Damiano Zoffoli) sopravvissuti e autorità lanciano due corone di fiori al largo della riviera: una corona bianca (per ricordare neonati e bambini) e una verde (per gli adulti) periti nel ribaltamento della barca Consolata, avvenuto il 21 luglio 1946. A quella tragedia, ribattezzata “il piccolo Titanic romagnolo”, avevo dedicato questa ricostruzione che ripropongo qui di seguito. (s.g.)
Domenica 21 luglio 2013 a Cesenatico una barca ha lasciato il porto canale leonardesco e, come ogni anno, si è portata al largo della riviera romagnola per lanciare in mare una corona di fiori e versare qualche lacrima. Il luogo della mesta cerimonia è quello dove, il 21 luglio del 1946, affondò la Consolata, battezzata “il piccolo Titanic romagnolo”.
Eroica e al tempo stesso drammatica la scelta che quel giorno fu costretto a compiere Vittorio Bergamini, all’epoca meccanico alle officine Mandelli di Forlì. Con altre 24 persone, tutte del quartiere Bussecchio di Forlì, partecipava alla prima gita turistica del dopoguerra del barcone a vela Consolata partito dalla costa di fronte al Grand Hotel, quando un piccolo tsunami devastò la costa adriatica da Chioggia ad Ancona (ma all’epoca quella parola non era di moda e le cronache lo definirono “una tromba marina di inaudita violenza”) e l’imbarcazione naufragò a soli 350 metri da Cesenatico, di fronte alla spiaggia di ponente. Terribile il bilancio finale: 17 vittime, in gran parte donne e bambini (14).
Quel giorno uno dei sopravvissuti, appunto il forlivese Bergamini, in acqua si trovò a dover scegliere se salvare sua moglie Emilia Mazzi o il figlio adottato, che gli era stato affidato dalla cognata. Scelse il bambino, Livio, di nove anni. “Quel bambino ero io…”, mi ha detto con la voce rotta dall’emozione Livio Farneti, 75 anni, tappezziere ormai in pensione, rocambolescamente rintracciato per conto di Oggi in Romagna. Con Livio si salvò anche un altro bambino, Franco Paglierini, figlio del proprietario della Consolata, che oggi ha 76 anni e vive a Cesenatico dopo aver girato il mondo.
È merito loro se su quella tragedia di un mare da sempre pacifico, e per un giorno crudele, non si deposita la polvere degli archivi.
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(via mail)
Sì, mi ricordo quella tragedia nell’Adriatico
…Prima della partenza, la Consolata era ancorata sul bagno-asciuga, della spiaggia Levante di Cesenatico, all’altezza del Grand Hotel;
Lat. Nord, 44° 12′ 07”.
Lon. Est, 12° 24′ 28”.
La Consolata levò l’ancora domenica 21 luglio 1946 salpando alle ore 15 circa, verso Nord, con 25 persone; uomini, donne e bambini, tra cui qualche neonato di alcuni mesi, compreso due persone dell’equipaggio.
I passeggeri erano un gruppo di famiglie del Quartiere di Bussecchio di Forlì, arrivate con un camioncino furgonato a Cesenatico per trascorrere la domenica in spiaggia.
Dopo circa mezzora di navigazione con sorrisi e canti delle famiglie, la Consolata aveva appena superato la punta sinistra del molo quando all’improvviso una invisibile tromba d’aria trasformata poi in tromba marina, riuscì a rovesciare l’imbarcazione. (Si seppe molti anni dopo che fu un maremoto su tutta la riviera Adriatica).
Fortunatamente la vela fece in modo che lo scafo non si capovolse e la fece rimanere galla a 90° circa.
Il motopeschereccio che cercava di venirci a salvare era lentissimo a causa del tratto minato, nel punto di mare in cui nell’anno 1945, quattro ragazzi pescatori morirono saltando in aria, con i rottami del motopeschereccio, a causa di una mina che le scoppiò sotto la chiglia.
Perciò bisognava sondare il fondo del mare per non incappare in un’altra mina non ancora bonificata.
Metro per metro, arrivarono dopo… Ma nello stesso tempo, per ogni minuto prezioso il “destino” sceglieva i suoi Angeli. Vani furono i tentativi di salvare più persone.
Due erano i marinai: L’Arturo “Patron”; vecchio lupo di mare ma 66enne e, il figlio Giuseppe (detto Pino), 37enne. Io, lo scrivente: figlio di Giuseppe, passeggero come gli altri all’età di 8 anni.
Mio padre, l’unico giovane marinaio dell’equipaggio, era in grado di accorrere in aiuto a 24 persone; uomini, donne, bambini, vecchi e anziani.
L’unico soccorritore, nuotando continuamente, riportava le persone una alla volta, al relitto galleggiante, dove tutti ci eravamo stretti l’un con l’altro aggrappati al relitto, per evitare che ci staccasse la forza delle altissime onde furiose,velocissime, provenienti violentissime dalla riva.
… L’unico moto-peschereccio della marineria, in grado di soccorrere e salvare più persone, si era già presentato all’altezza del molo, a circa 100 metri da noi.
La bonifica dai residui di guerra non era stata ancora fatta, e le mine della seconda guerra mondiale erano rimaste, proprio vicino al naufragio della Consolata, perciò per arrivare sino a noi l’equipaggio del motopeschereccio fu costretto a scandagliare ogni metro su metro del fondomarino.
Quando arrivarono a salvarci, la maggior parte delle persone erano purtroppo in fin di vita. Solo 8 furono salvati.
PS: nel 2009, i superstiti viventi erano 3, due di anni 72 e uno di 102. Oggi, anno 2013, siamo rimasti due, Franco e Livio, classe 1937.
PS 2: Il Monumento ai Caduti del mare lo si nota nella parte sinistra del porto canale Leonardo da Vinci (uscita dal bacino delle imbarcazioni turistiche), dove ogni anniversario del 21 luglio, dopo che si è svolta la cerimonia solenne nel punto della tragedia, e lanciata la corona, viene poi deposta vicino alla targa dei 17 Angeli: la stessa corona recuperata dalla Guardia Costiera di Cesenatico.
(via mail)
Quella domenica, 21 luglio 1946
Ho sempre avuto paura dell’acqua. Non so nuotare. Da anni non vado al mare, non m’interessa! Le mie nipotine mi chiedono : ‘Nonno, perché non vieni con noi a Pinarella di Cervia? Sto zitto, passo per un vecchio ‘scontroso’, se proprio insistono, dico che ho un impegno, un mal di pancia, me ne sto a casa.
Credo che tutto questo mio comportamento, questa paura, questa fobia per l’acqua, direbbe lo psicologo, venga da lontano. Da quella mattina, da quella domenica di luglio del 1946.
Avevo cinque anni e mezzo e i miei ricordi di quella giornata sono abbastanza precisi. Si sono fissati nella memoria e spesso riemergono, specialmente in quelle notti che non prendi sonno, ti giri nel letto, cerchi di pensare a un’altra cosa, ma ritorni sempre lì.
Mio babbo e mia mamma in quella settimana non facevano che parlare della gita a Cesenatico per vedere il mare, che io non avevo mai visto. Finalmente, in quella domenica mattina , di buon ora ci trovammo nella via dei Gatti, vicino al fiume Borello, dove ‘Limon’ teneva il suo motore, mi pare che fosse una Gilera, con tre ruote e un cassone dove erano sistemate delle panche per stare seduti.
Eravamo diverse famiglie, forse una quindicina di persone tra grandi e bambini.
Era una giornata bella, il caldo già di prima mattina si faceva sentire, eravamo stretti stretti in quelle scomode panche, ma contenti. Le mamme avevano delle piccole tovaglie con il mangiare, addirittura uno aveva portato anche un cocomero. Limon mise in moto il motore e piano piano attraversammo il paese di Borello, frazione di Cesena, salutavamo tutti quelli che incontravamo, era una festa. L’aria di mano in mano che il motore aumentava la velocità sembrava farci il solletico, gli occhi quasi quasi si chiudevano, ero in braccio alla mia mamma. Mi sembra di ricordare che i grandi, attraversando i paesi, cantassero, alcuni cominciarono a mangiare dei biscotti, altri ad addentare la piada dolce, finalmente arrivammo nella spiaggia.
Nel vedere quel’enorme quantità d’acqua, mi prese un po’ di paura, poi però i giochi con la sabbia, le buche che riempivamo d’acqua e infine il buon mangiare che aveva fatto la mamma, mi fecero dimenticare quella paura. Quanta gente attorno a noi sulla spiaggia, quanti bambini correvano felici, si sentivano degli urli per chiamare Giorgio, Osvaldo o altri nomi affinché non si allontanassero nel mare, io stavo sempre vicino a mia mamma. La giornata era bella, l’acqua di quel colore azzurro che non ho più visto.
Dopo pranzo arrivarono, nella spiaggia dove eravamo noi, delle barche usate per la pesca, che avevano la vela color ruggine – mi sembra di ricordare – scesero dei marinai che parlarono con gli adulti, subito dopo i nostri vicini di spiaggia (mia mamma mi raccontò dopo che abitavano a Forlì) e che avevano tanti bambini, salirono sulla barca che prese il largo. Nella seconda barca cominciarono a salire quelli di Borello, scappai via correndo come un matto e con un pianto inconsolabile, mio babbo mi corse dietro e forse mi arrivò una sculacciata per cui piangevo ancora di più, non volevo andare in mare. Arrivò a mettermi di peso nella barca e partimmo, ma io piangevo sempre e non c’era verso di calmarmi, alcuni tentarono con una caramella, altri con uno zuccherino, ma io continuavo a piangere.
Intanto la nostra barca stava andando avanti, si vedeva – questo me lo ha raccontato sempre mia madre – in lontananza, una nuvoletta, nulla di preoccupante, io continuavo a piangere come un disperato. Il marinaio, non potendo sentirmi piangere in quel modo, disse che ritornava indietro, girò la barca e piano piano ci avvicinammo alla riva.
Tutto a un tratto si alzò un vento da far paura, le onde sembravano degli enormi cavalloni, spruzzi d’acqua ci bagnarono tutti, una roba dell’altro mondo, non piangevo più solo io ma anche le donne che si stringevano i loro bambini. Una tempesta inimmaginabile, il marinaio fu veramente bravo e fece scendere tutti i borellesi. Un buio che sembrava notte fonda. Le cabine, che erano di legno, volavano via con le tende, sembrava la fine del mondo. Eravamo salvi!
L’altra barca, che era partita prima di noi, venne dal vento e dalla tempesta travolta e molti degli occupanti s’affogarono. Non potrò mai più dimenticare quei bambini, quegli adulti morti e stesi sulla spiaggia, quel colore bianco l’ho sempre davanti agli occhi.
Credo che la mia paura dell’acqua sia partita da quel momento, la sento come un peso, una pietra che mi tira giù, non mi fa galleggiare.
Ho cercato di darmi una risposta di quegli urli da matto di quella domenica di luglio. Credo che un bimbo, intendiamoci bene un bimbo di cinque anni nel 1946, quando non c’era la televisione, la radio o tutti quei marchingegni che oggi i nostri bambini hanno, avesse ancora quell’istinto primitivo proprio degli animali che presagiscono – questo non lo so spiegare – che stava succedendo qualche cosa di veramente eccezionale, come il cagnolino, si dice, che sente il terremoto un po’ prima che avvenga, allora ho incominciato a piangere e forse per quelle urla siamo salvi.
Il 21 luglio del 2002 nel giornale – cronaca di Forlì, ho letto l’articolo ‘L’onda assassina di 66 anni fa’ venivano commemorati i 17 morti della barca ‘La Consolata’, ho visto la lapide messa nella frazione di Bussecchio con i nomi e l’età. Nove bambini da un anno ai tredici anni, erano come me, avevano la vita davanti a loro, quella giornata era cominciata con un sole e un cielo azzurro, senza una nuvola… spero solo che siano volati via con quella visione.
Signor Pier Paolo
Io sono Davide Benini il nipote di Evelina che coi figli Livia e Walter.
Avrei dovuto esserci anche io di appena 11 mesi, con mamma sorella di Evelina.
La loro perdita segnò la vita mia e dei miei familiari, soprattutto di mamma.
Tuttora vivo nel ricordo di loro.
Leggere il suo ricordo qui mi ha emozionato, e confesso mi ha inumidito gli occhi.
E non sono più un ragazzino, ho 71 anni.
Le auguro ogni bene.
Davide Benini