ALLE SCUDERIE DEL QUIRINALE VA IN SCENA L’ARTE DELL’ITALIA SALVATA DALLA GUERRA DA VALOROSI UOMINI E DONNE CHE AVEVANO UN GRANDE SENSO DELLO STATO

introduzione di Salvatore Giannella
testi di Gian Italo Boschi/Prisma* e di Paolo Conti**

D

omenica 12 marzo una carovana di marchigiani scenderà in autobus dal Montefeltro (Sassocorvaro, Carpegna, Urbino) a Roma, destinazione Scuderie del Quirinale. Vanno ad ammirare l’importante mostra L’arte liberata 1937-1947. Capolavori salvati dalla guerra che racconta le storie del salvataggio del patrimonio artistico italiano minacciato dalla guerra e dall’occupazione tedesca. Accompagnano i nonni anche molti giovani ai quali i più anziani racconteranno la straordinaria pagina della Seconda guerra mondiale che vide come protagonisti di imprese eccezionali personaggi rimasti a lungo nell’ombra: tra loro, Pasquale Rotondi, Emilio Lavagnino, Giulio Carlo Argan, Vincenzo Moschini, Cesare Brandi, Giuseppe Poggi, Palma Bucarelli, Iole Bovio Marconi Fernanda Wittgens.  

Pasquale Rotondi, sovrintendente di Urbino, portò a termine la principale Operazione Salvataggio proprio nelle terre del Montefeltro, dando ricovero e salvazza a ben 7.821 opere d’arte provenienti da tutt’Italia. Una storia portata alla luce mediaticamente dal sottoscritto, prima con il libro  L’Arca dell’Arte (con Pier Damiano Mandelli, Editoriale Delfi, 1999)  e poi con il docu-film per Rai Educational diretto da Giovanni Minoli “La lista di Pasquale Rotondi”, 2005, visibile a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=ESdbLuVBqpU e con il nuovo volume Operazione Salvataggio (Chiarelettere, 2014).

I due libri “pionieristici” di Salvatore Giannella sull’Operazione Salvataggio di Pasquale Rotondi e degli altri eroi sconosciuti che hanno salvato l’arte dalle guerre.

Due libri, un docu-film e un Premio Rotondi ai salvatori dell’arte (riconosciuto per legge dello Stato n. 111 del 2009, giunto quest’anno alla 25ma edizione) che hanno costituito sassi lanciati un quarto di secolo fa nello stagno della lunga indifferenza in cui quella pagina di storia patria era rimasta dimenticata. Sassi editoriali che hanno provocato onde concentriche che hanno raggiunto anno dopo anno luoghi lontani nel mondo fino ad approdare prima a Los Angeles/Hollywood (ispirando il film Monuments men) e oggi alle Scuderie del Quirinale, dove la mostra L’arte liberata, curata da Luigi Gallo e Raffaella Morselli, catalogo Electa, offre fino al 10 aprime 2023 una selezione di oltre cento capolavori salvati, oltre che un ampio panorama documentario, fotografico e sonoro, riuniti grazie alla collaborazione di ben 40 musei.

Immaginandomi idealmente nell’autobus in compagnia dei monteferetrani, ho scelto due testi che riepilogano l’Operazione Salvataggio (Gian Italo Boschi sulla rivista Prisma, edizione di febbraio 2023) e il contributo delle donne, le Monuments Women, tratto dal prezioso librino, La Resistenza dell’arte, di Paolo Conti che viene donato ai visitatori della mostra. (s.g.)

(g.i.b.) Negli anni Trenta si capisce che in caso di conflitto i bombardamenti aerei avrebbero potuto raggiungere il cuore delle nazioni nemiche. Bisogna quindi proteggere le città e preservarne il patrimonio artistico. Durante la guerra civile spagnola le opere conservate al Prado di Madrid vengono inizialmente difese con sacchi di sabbia ma alla fine il direttore del museo opta per il trasferimento in Svizzera di intere collezioni. Allo stesso modo, quando alla fine degli anni ‘30 la prospettiva di una guerra contro Hitler diventa sempre più realistica, il responsabile dei musei nazionali francesi comincia a pianificare l’evacuazione del Louvre. In Italia la situazione si presenta molto più critica perché da tutelare è un patrimonio artistico diffuso su tutto il territorio nazionale. A dirigere le operazioni della sua tutela e messa in sicurezza, quando inizia la Seconda guerra mondiale e si è ragionevolmente certi che prima o poi coinvolgere anche l’Italia, è il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, discussa figura di fascista, colto frequentatore di circoli intellettuali, critico nei confronti di alcuni aspetti del regime ma anche tra i più intransigenti e zelanti sostenitori delle leggi razziali. Bottai ordina il trasferimento in sedi ritenute sicure del “patrimonio artistico mobile” e la copertura delle opere d’arte che per la loro dimensione non potranno essere trasportate, con artefatti e contrafforti in mattoni che le rendessero meno fragili e visibili. Tra i funzionari del ministero coinvolti nell’operazione c’è il giovane Pasquale Rotondi, nato nel 1909 e laureatosi in Lettere a Roma.

Urbino, da città aperta a polveriera. Nel settembre del 1939 Rotondi viene nominato sovrintendente artistico nelle Marche con il preciso compito di radunare in Urbino e di mettere in sicurezza Palazzo Ducale le opere conservate in vari siti della regione. Urbino era considerata dal ministro città sufficientemente sicura, lontana dalle frontiere alpine e dalle coste nord-africane, lontana anche da parti più rilevanti dal punto di vista militare e commerciale. Si può immaginare la sorpresa e lo sconcerto di Rotondi quando si accorge che la situazione non era proprio quella immaginata da Bottai. Scrive nel suo diario, in data 1° ottobre 1939:

“Sono arrivato questa mattina in Urbino dopo aver passato la notte in treno. Nella piccola stazione ferroviaria vedo un folto gruppo di soldati dell’Aeronautica che dando l’assalto all’autocorriera in partenza per la città. A metà strada l’automezzo si ferma e i soldati scendono. Chiedo al fattorino come mai in Urbino si trovino dei militari. La risposta è sconcertante per me che sapevo Urbino lontana da ogni obiettivo di guerra: un grande deposito di munizioni dell’Aeronautica e in via di allestimento nella lunga galleria ferroviaria che si sviluppa nelle viscere del colle su cui sorge la città”.

 

Risultato della denuncia di Rotondi:

“Mi viene dato l’incarico di trovare in un’altra località delle Marche un edificio sicuro dove si possa installare il progettato ricovero”.

Quello che lo attende non è un compito facile perché la nuova sede, oltre alla lontananza da ogni obiettivo militare e alla solidità delle strutture, avrebbe dovuto garantire l’assenza di umidità in modo che le opere d’arte non avessero a subire il benché minimo danno durante la loro permanenza, e una buona disponibilità d’acqua anche nei mesi estivi per il funzionamento degli impianti antincendio. E’ in base a questi criteri che alla fine la scelta di Rotondi cade sulla Rocca di Sassocorvaro (a una trentina di chilometri da Urbino), una delle più belle creazioni artistiche della seconda metà del ‘400 di Francesco di Giorgio Martini, il grande architetto militare di Federico da Montefeltro, nella quale le imponenti e gigantesche opere in muratura accrescono l’idea dell’inespugnabilità del luogo.

La Rocca di Sassocorvaro in una foto d'epoca

A Sassocorvaro si cominciano a portare opere d’arte provenienti da vari centri delle Marche ma si comincia anche a parlare del trasferimento della rocca di alcuni capolavori appartenenti a musei e chiese di altre regioni, in particolare di Venezia. Nel giugno del 1940, dopo aver catalogato tutto il materiale artistico sotto il suo controllo, Rotondi può ritenersi soddisfatto. Ha completato il trasferimento di più di 30 rulli con arazzi, le ceramiche di Pesaro, gli scritti di Rossini, e più di 7.000 opere provenienti dalle Marche e da Venezia.

Per poter permettere il passaggio sotto la bassa porta della Rocca di Sassocorvaro ai capolavori di mole maggiore come la Storia di Santa Lucia del Lotto, fu necessario tracciare negli ultimi tre gradini in pietra un profondo solco, di cui vi è traccia ancora oggi.

A Sassocorvaro nei mesi della guerra trovano rifugio opere di Piero della Francesca (tra cui la Madonna di Senigallia e la tavola con la Flagellazione di Cristo), Tiziano (con la Danae, la tela con l’Ultima cena e quella con la Crocifissione), Giovanni Bellini, Canaletto, Giorgione (la Tempesta), Luciano Laureana (la Città ideale), Lippi, Lotto. Mantegna, Caravaggio (con la Cena in Emmaus), Paolo Uccello, Raffaello, Rubens, Signorelli, Tiepolo, Tintoretto, Guercino.

Urbino 1943: Pasquale Rotondi, a destra, con il fido autista Augusto Pretelli e la Balilla usata per le trasferte durante l’Operazione Salvataggio.

Una foto d’epoca mostra Pasquale Rotondi con l’autista e la sua Balilla.

Costituiscono magna pars degli aiuti e delle attrezzature di cui il sovrintendente dispone per il suo lavoro. Si può immaginare l’epopea dei trasferimenti con mezzi di fortuna e tecniche di imballaggio improvvisati, mentre il Paese è in guerra e i viaggi si svolgono sotto la continua minaccia dei bombardamenti degli Alleati. Ma il peggio per Pasquale Rotondi (e per l’Italia) deve ancora arrivare.

Il 20 gennaio 1943 annota nel suo diario:

Sono stato a Roma e abbiamo parlato della possibilità di creare nelle Marche un secondo ricovero di opere d’arte… Siamo d’accordo nel ritenere inopportuno una condensazione di materiale artistico a Sassocorvaro. Meglio diradare le opere istituendo in un’altra località sicura del Montefeltro un altro ricovero…Oggi ho visitato a Carpegna il palazzo dei Prìncipi che ha locali asciuttissimi e perfettamente rispondenti allo scopo”.

Il 21 aprile aggiunge: “Il ricovero di Carpegna è pronto per ricevere le opere“. Il 21 aprile annota l’arrivo a Carpegna (circa 20 km. da Sassocorvaro) da Milano dellla sovrintendente Fernanda Wittgens. L’incontro porta a Carpegna “un considerevole numero di capolavori della Pinacoteca di Brera, del museo Poldi Pezzoli, del museo del castello Sforzesco, dell’Accademia Carrara di Bergamo e del Duomo di Treviglio. Ci sono, tra queste opere, la Pala di San Bernardino di Piero della Francesca, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello e il Cristo alla colonna di Bramante.

Dopo l’8 settembre e la firma dell’armistizio con le forze anglo-americane comincia la guerra contro gli ex-alleati tedeschi che decidono subito l’occupazione militare di tutta la penisola italiana. Adesso l’integrità del nostro patrimonio artistico non va più difesa dei bombardamenti degli Alleati ma da quelli dei tedeschi e dalle distruzioni e razzie del loro esercito di occupazione. A dire il vero, l’interessata attenzione della Germania verso le opere d’arte italiane risaliva agli anni ancora precedenti lo scoppio del conflitto. Dopo la sua visita in Italia del ’38, il Fuhrer aveva sviluppato ulteriormente il progetto di un museo destinato a diventare, nella sua folle ambizione, il più grande del mondo e che non poteva non ospitare le opere della classicità e del Rinascimento italiano pagate a prezzi irrisori, esportate illegalmente o prelevate a qualsiasi titolo.

Per molti mesi le Marche si troveranno nella parte d’Italia non ancora liberata dall’esercito anglo-americano e quindi controllata dagli irriducibili fascisti della Repubblica sociale italiana (Rsi) e dai tedeschi. Rotondi se li ritrova in casa, e non solo metaforicamente, in cerca di armi ma non si sa mai: per prudenza e per prevenire eventuali tentazioni accaparratrici, sua moglie Zea nasconde sotto il letto la Tempesta di Giorgione e si dichiara malata, chiudendosi appunto nella sua camera. Roma sarà liberata all’inizio del giugno successivo (1944) e la provincia di Pesaro e Urbino verrà a trovarsi proprio sulla Linea gotica. Anche se il comandante tedesco assicura che sotto la sua custodia le opere d’arte non hanno niente da temere, Sassocorvaro e Carpegna non sono più siti sicuri. Rotondi comincia a organizzare il loro smantellamento riportando alcune opere dei sotterranei del Palazzo Ducale a  Urbino e pensa ad altre destinazioni. Nel diario annota il 24 novembre:

“Si discute tra noi sull’opportunità di trasferire ogni cosa in Vaticano o in Svizzera”.

E poi, l’11 dicembre: “E’ in fase di avanzata preparazione il progetto di trasportare in Vaticano tutti i maggiori capolavori dei nostri musei e chiese”.

Non tutti, però, sono d’accordo. Non lo è in particolare Carlo Alberto Biggini, il ministro dell’Educazione nazionale della Rsi che aveva preso il posto di Bottai dopo che questi si era schierato contro Mussolini il 25 luglio: per il momento Roma è ancora controllata dagli alleati tedeschi ma è pur sempre un altro Stato e lui le opere d’arte italiane vuole tenerle sotto il controllo della Rsi.

 

Il progetto del trasferimento in Vaticano va ugualmente avanti anche perché ha ricevuto, con l’intermediazione del cardinale Montini, futuro papa Paolo VI, il consenso di Pio XII. Chi se ne occupa materialmente è Emilio Lavagnino, un altro funzionario del ministero dell’Educazione, più anziano di una decina d’anni rispetto a Pasquale Rotondi, caduto in disgrazia per il suo antifascismo e declassato in ruoli inferiori, sostanzialmente      pre-pensionato. Il senso del dovere lo accomuna a Rotondi e lo porterà con la sua Topolino, l’utilitaria dell’Italia di quegli anni, in giro anche per tutto il Lazio per mettere in sicurezza il patrimonio artistico. E’ Lavagnino che il 20 dicembre ‘43 si presenta con tre autotreni a Urbino per un primo carico. Il viaggio era stato e sarà, al ritorno, rocambolesco ma anche la sua preparazione non era stata da meno: si era trattato di trovare i mezzi di trasporto – quasi tutti erano stati requisiti dai tedeschi – e la benzina al mercato nero fornendo alla ditta che eventualmente si sarebbe resa disponibile tutte le garanzie richieste in acquisizione delle autovetture e di scorta armata.

Il 22 dicembre Rotondi annota nel suo diario:

“Oggi buona parte dei capolavori di Venezia di Roma e di Milano che fino a questa notte si trovavano in mia consegna, sono in viaggio verso la Città del Vaticano…L’incontro con Lavagnino è stato commovente. Egli mi ha spiegato che per attuare il programma di affidare i nostri capolavori al Vaticano è stato giocoforza ricorrere alla collaborazione dei tedeschi senza dei quali sarebbe stato impossibile disporre di camion per effettuare viaggi… il viaggio sarà rischiosissimo, ma non c’è dubbio che, una volta giunte le opere in Vaticano, esse saranno molto più sicure che altrove”.

Biggini viene a sapere del trasferimento e convoca per l’inizio del nuovo anno una riunione a Padova. Tutti i sovrintendenti devono con ordine irrevocabile partecipare per sottoscrivere un documento perentorio sulla sicurezza delle opere d’arte che non devono essere più spostate. È il momento delle scelte e Rotondi sceglie. Il senso dello Stato e del dovere e l’amore per l’arte gli suggeriscono la scelta di un antifascismo meno politico di quello di Lavagnino ma che con questo ugualmente si incontra e si intende.

Approfitta di un errore materiale della sua convocazione – nel telegramma che gli era pervenuto era indicata la data dell’8 febbraio anziché dell’8 gennaio – per non andare a Padova e quando Biggini gli ricorderà che i convenuti a quella riunione si erano impegnati a non spostare le opere d’arte in loro consegna, osserverà pacatamente che lui non era un “convenuto”. Così anche un secondo e ultimo incarico parte da Urbino il 13 gennaio del ‘44. Pasquale Rotondi può tirare un sospiro di sollievo: le opere d’arte a lui affidate, una parte consistente del patrimonio artistico italiano, sono al sicuro Oltretevere e lì rimarranno, nei palazzi vaticani, fino al termine del conflitto quando lo Stato pontificio le riconsegnerà all’Italia. L’operazione Salvataggio poteva considerarsi conclusa. Dall’ultima pagina del suo diario, in data 21 settembre 1946, leggiamo:

“Le opere d’arte, liberate dagli imballaggi, sono state trovate tutto in perfette condizioni di conservazione. In questo modo si è chiusa oggi questa lunga pagina della mia vita di funzionario delle Belle Arti”.

Nel dopoguerra l’anti-eroe Pasquale Rotondi continuerà a essere tale e a comportarsi di conseguenza. Non “scenderà” in politica, non accetterà particolari incarichi professionali continuando a fare il sovrintendente, ora a Genova, e diventando poi, all’inizio degli anni ’60, direttore dell’Istituto Centrale del Restauro. Il suo contributo all’Operazione Salvataggio rimarrà a lungo sottotraccia nello stesso territorio marchigiano. Lo ritroviamo però a Firenze nel 1966 alle prese con la tragedia dell’alluvione. E’ a lui che lo Stato ricorre per coordinare le operazioni di salvataggio di opere sublimi quali la Porta del Paradiso del Battistero di Lorenzo Ghiberti, il Crocefisso di Cimabue e centinaia di volumi preziosi conservati presso la Biblioteca mazionale.

  • *Prisma è una rivista mensile di matematica, giochi, idee sul mondo che ha iniziato le pubblicazioni dal 2018. Direttore responsabile: Vincenzo Mulè. Web: prismamagazine.it

DUE, TRE COSE CHE SO DI LORO,

LE MONUMENTS WOMEN: OVVERO

LE PARTIGIANE DELL’ARTE

di Paolo Conti**

Tra i principali nomi nella lista delle Monuments Women c’è lei, Palma Bucarelli [Roma 1910-1998, foto in alto, portata nei teatri italiani da una bravissima Cinzia Spanò, Ndr], già ispettrice della romana Galleria Borghese a soli 23 anni, anima della Galleria Nazionale d’Arte Moderna che nel dopoguerra vivrà anche una appassionata e segreta storia d’amore con Giulio Carlo Argan dopo anni di normale amicizia e di lavoro comune (il loro raffinato e coinvolgente carteggio è stato pubblicato nel 2015 nel volume Scrivere d’amore / Lettere di uomini e donne tra Cinque e Novecento, a cura di Manola Ida Venzo, edito da Viella). È la prima di una serie di donne che, in quei giorni, diventano protagoniste quanto i colleghi uomini in anni in cui il fascismo invece le colloca in ruoli subalterni, negli spazi pubblici come nell’ambito familiare. C’è l’aneddoto di Emilio Lavagnino che chiede a Bucarelli le gomme di ricambio per la sua Fiat Topolino, stesso modello usato dallastudiosa. E poi lei, Bucarelli, che approfitta della partenza da Roma dei convogli di Lavagnino ma va da sola con un camioncino a Caprarola per riprendere le opere della sua Galleria d’Arte Moderna ricoverate a Palazzo Farnese: in parte le aveva portate lì, sempre da sola e di notte, con la sua Fiat Topolino. Palma ha un carattere di ferro: per i tempi una donna da sola in un camioncino è un’immagine impensabile. Ma è pronta a tutto pur di salvare, lo spiega la mostra alla Scuderie del Quirinale, la Bambina che ride o il Ritratto di Henri Rouart di Medardo Rosso. Avrebbe poi scritto di lei Indro Montanelli, ritraendola magistralmente nel suo libro Tali e quali nel 1951:

«Quello che non sarebbe riuscito a un uomo riuscì a Palmina. Questa ragazza dal volto pallidissimo e dagli occhi verdi imperativi, difese il patrimonio che le era stato affidato con la tenacia di un mastino».

Palma Bucarelli sa benissimo come stanno le cose. Giovanna Ginex, che giustamente la definisce una Partigiana dell’arte, nel saggio in catalogo de “L’arte liberata”, ci riporta un suo pensiero:

«Già come “amici” prima e poi come “alleati”, i tedeschi non erano riusciti a nascondere la loro cupidigia, e sotto la protezione dell’immunità diplomatica, all’insaputa dei nostri uffici di Esportazione o per mezzo di dispotici interventi che annullavano i divieti, già molte opere d’arte erano andate, durante gli ultimi anni, a costituire il Museo di Linz, patria di Hitler, e ad arricchire la galleria privata del gerarca nazista Göring».

Jole Bovio Marconi

Jole, vulcanica siciliana. Il coraggio di Palma Bucarelli ricorda da vicino la personalità di Jole Bovio Marconi [Roma, 1897 – Palermo 1986] descritta in catalogo da Carolina Italiano. Archeologa, direttore del Museo nazionale di Palermo e poi Soprintendente di Palermo e Trapani, è una accesa femminista convinta che il suo essere donna sia stato da subito un freno alla sua carriera. Ma il suo fortissimo temperamento, la resistenza alla fatica, l’assoluta noncuranza del pericolo le permettono di realizzare un’impresa sensazionale che rappresenta solo un capitolo dei suoi meriti nei giorni della guerra: riesce a far trasportare dal Museo nazionale all’Abbazia di San Martino delle Scale le Metope di Selinunte (una per ogni viaggio perché troppo grandi e pesanti), i mosaici romani di Palermo, le magnifiche grondaie leonine del Tempio della Vittoria di Himera. Tutto questo entro il 3 aprile 1943: il 5 aprile uno dei bombardamenti alleati danneggia una parte del Museo. L’inflessibile Jole Bovio Marconi però rimane lì nei suoi uffici, affronta i bombardamenti, evita che la confusione e i danni provochino il saccheggio del museo, fa riparare i danni per quanto possibile, rincuora il personale. Riesce, dalle circolari di Bottai per gli sgomberi dei musei nel 1939 fino al 1943, a organizzare il trasporto da Palermo di 220 casse di beni e di 135 gabbie. Ed è sempre lei a collaborare da subito con i Monuments men (il raffinato e colto gruppo di 48 militari americani e britannici scelti tra curatori di musei, storici dell’arte, archeologi) alleati sbarcati in Sicilia: trova un ottimo interlocutore in Mason Hammond, filologo classico docente di Harward. Jole Bovio Marconi, come Palma Bucarelli, in pieno fascismo capovolge il luogo comune amato dal regime delle donne sottomesse agli uomini persino negli uffici: è lei a dirigere tutte le operazioni, a stabilire tempi, a sollecitare anche ruvidamente l’amministrazione centrale per avere le risorse economiche destinate agli imballaggi e ai trasporti.

 

Fernanda Wittgens

Fernanda, eroina di Brera. Dal Sud al Nord le cose non cambiano, in quanto a temperamento delle protagoniste. A Milano Fernanda Wittgens [Milano, 1903 – 1957],  coordina con un piglio davvero soldatesco, come lo definisce Antonio Greppi, sindaco di Milano liberata e fondatore del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, il trasferimento dei capolavori di Brera nell’Italia centrale. Nel 1944 viene anche arrestata come antifascista e per i suoi rapporti col mondo culturale ebraico. Come racconta sempre Greppi “il suo implacabile dinamismo terrorizzava la burocrazia del ministero”. Sarà lei, dopo aver salvato i capolavori di Brera, a battersi per l’immediata riparazione dei danni, per la ripresa del museo.

Come riporta Antonella Biondi nel suo saggio in catalogo, Fernanda Wittgens svela il suo carattere in un brano di una lettera inviata alla madre nel momento più duro della guerra: «Quando crolla una civiltà e l’uomo diventa belva, chi ha il compito di difendere gli ideali della civiltà, di continuare ad affermare che gli uomini sono fratelli, anche se per questo dovrà pagare? (…) Sarebbe troppo bello essere intellettuale in tempi pacifici, e diventare codardi, o anche semplicemente neutri, quando c’è un pericolo». A lei si deve la salvezza, e anche qui sono solo pochi esempi a caso, del Cristo morto, la Madonna dei Cherubini e il Polittico di san Luca di Mantegna, della Pala di S. Bernardino di Piero della Francesca, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, Gesù alla colonna di Bramante, Cena in Emmaus di Caravaggio, Rebecca al pozzo di Piazzetta, le vedute di Guardi, di Bellotto, di Canaletto. Lei li chiama, con il suo amore intellettuale denso di ammirazione che svela un legame indissolubile, i capolavorissimi…()

 

** Estratto da “LA RESISTENZA DELL’ARTE”, di Paolo Conti (nella foto: Roma, 1954),editorialista del Corriere della Sera dove si occupa soprattutto di Patrimonio culturale, della sua tutela, delle politiche italiane e internazionali del settore.

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