Alla vigilia della grande mostra “Liberty. Uno stile per l’Italia moderna”, in programma a Forlì nei Musei San Domenico (1° febbraio – 15 giugno) illuminiamo Villa Pompili che seduce ancora chi passa per viale Anita Garibaldi a Cesenatico con il suo cancello e le sue decorazioni. Scopriamo la storia del colonnello Gay e dei proprietari che ancora la conservano in forma

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Cesenatico (Forlì Cesena): la facciata di Villa Pompili, splendido esempio di stile Liberty in Romagna. A poca distanza altre due mete turistiche dal grande valore storico: il Grand Hotel da Vinci (oggi ennesimo fiore all’occhiello del principale imprenditore alberghiero della Romagna, Tonino Batani), ricavato dalla colonia Veronese e il Grand Hotel Cesenatico.

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Daniela Gay, giornalista nutrizionista, attuale proprietaria (con il fratello Pieralfredo) della Villa Pompili.

A Cesenatico, lungo viale Anita Garibaldi, al numero civico 22, incontro la giornalista nutrizionista Daniela Gay, proprietaria (con il fratello Pieralfredo) di Villa Pompili, la regina Liberty del litorale. Villa Pompili prende il nome dal primo proprietario che svolgeva l’attività di veterinario nella vicina Cesena. Successivamente, nei primi decenni del Novecento, fu acquistata dal colonnello Pietro Gay, alla cui famiglia ancora oggi appartiene: si tratta insomma di una cosiddetta villa storica di famiglia. Il colonnello Pietro Gay, coraggioso comandante della terza artiglieria alpina Julia (protagonista di alcune pagine di Centomila gavette di ghiaccio: vedi lettura seguente, Ndr), fu anche un raffinato esteta, amante del bello e del ricercato. Se doveva trasferirsi in una nuova città, la dimora più bella e importante doveva essere necessariamente la sua.
La moglie di Pietro Gay, la contessa Afra Valeria Belli, diede alla luce Luigi Gay, figlio unico, il quale diede successivamente i natali a Daniela e Piero Alfredo, che abitano oggi la villa. Bisogna avere l’onore di poter visitare gli interni del villino per capire quanto sia grande l’emozione.

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26 settembre 1946: il colonnello Pietro Gay con la moglie, contessa Afra Valeria Belli, nell’anniversario del loro matrimonio.

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Dall’album di famiglia Gay: Luigi, figlio unico del colonnello Pietro Gay, con la moglie Aida e i due figli Daniela e Pieralfredo, posano sul viale Anita Garibaldi di Cesenatico.

Grandi feste e momenti in compagnia. Il colonnello prediligeva per il suo soggiorno un ambiente oltre che elegante anche confortevole e la villa di Cesenatico ne è la prova. Già nel progetto originario l’abitazione risulta ricca di un fascino particolare: molto ariosa e “vacanziera”, studiata per ospitare grandi feste e bei momenti in compagnia, è valorizzata da un vasto giardino e una grande hall, che comunicava attraverso belle vetrate con il giardino. All’interno la casa era un gioco di vetri colorati. Il giardino dietro la villa era ben curato e gestito dalla moglie stessa del generale, donna anche lei di buon gusto e amante del bello. Valeria amava la natura, specie le rose. Il giardiniere che progettò inizialmente il giardino fu Dell’Amore, e successivamente fece ulteriori lavori il giardiniere Palazzi, entrambi di Cesenatico. L’ornato del giardino, dal gusto ottocentesco, era ricco di fiori.

Dal racconto di Daniela emerge che, nel progetto originario della villa, l’area destinata al giardino aveva due aiuole circolari con al centro due pini ancora esistenti, canne indiane rosse e verso l’esterno le rose, un viale costeggiato da otto tigli e profumatissime aiuole di pitosforo: una composizione eclettica per l’epoca che rimanda a uno scenario entro cui si svolgevano feste con i bambini, incontri letterari, giochi. Se si considera la metratura dell’immobile, risulta sicuramente che la Pompili era la più grande tra le ville di Cesenatico e che, rispetto a villa Faedi-Moretti, posta all’inizio del viale Anita Garibaldi e allora ancora presente, per una questione di importanza artistica sarebbe stata seconda.

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Alle spalle della villa, in un giardino ricco di fiori, un delizioso studiolo della Romagna arricchisce l’offerta di Villa Pompili.

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Un ritratto della contessa Afra Valeria Belli, moglie del colonnello Pietro Gay, donna di buon gusto e amante del bello. Amava la natura, specialmente le rose.

Villa Moretti, sorta nei primi anni del Novecento, era ricca di decorazioni, un unicum nella Romagna del Novecento per gli intagli dei pinnacoli del tetto, per affreschi e ricche decorazioni nate dalla linea a “colpi di frusta” della Secessione viennese. La dimora Gay, però, rispetto allo sfortunato villino Faedi-Moretti, di cui restano solo immagini, mostra ancora le sue belle decorazioni.

La prima cosa che si nota a villa Pompili è il cancello in ferro battuto Liberty, una vera opera d’arte, che riprende una stilizzazione di 12 gatti come quelli della padrona, amante degli animali. I cementi si rifanno quasi alla linea gotica rivista in chiave Liberty, quasi Art Nouveau. Le decorazioni su piastrelle poste sotto il tetto riportano elementi naturali come il limone; un pino in bassorilievo sopra il portone principale riprende la funzione decorativa dei due pini collocati nel giardino posteriore. Villa Pompili è quel genere di architettura che si può definire un prezioso frammento di Liberty italiano, che mantiene elevati i livelli di buon gusto e di maestria artigianale.

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La giornalista nutrizionista Daniela Gay, che attualmente vive in Villa Pompili con il fratello Pieralfredo.

Fonte: La Voce di Romagna, quotidiano fondato nel 1998 dall’editore Gianni Celli e diretto da Stefano Andrini. La sede principale è a Rimini. Il quotidiano copre tutto il territorio della Romagna e la Repubblica di San Marino. Nel 2009 il numero del lunedì diventa un settimanale con varie rubriche: cronaca, sport, economia, gossip, storia, cultura, tradizione e gastronomia. Nello stesso anno sul sito romagnanoi.it è consultabile sul web. La voce di Romagna porta su iPad l’omonimo quotidiano che diventa interattivo ed è scaricabile gratuitamente da App store.

A PROPOSITO

Quel colonnello passato dalla Romagna al Don, tra centomila gavette di ghiaccio

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Il colonnello Pietro Gay, coraggioso comandante della terza artiglieria alpina Julia, raffinato esteta che acquistò la Villa Pompili da un veterinario di Cesena.

Il colonnello Pietro Gay è uno dei protagonisti del best seller Centomila gavette di ghiaccio, romanzo autobiografico di Giulio Bedeschi composto tra il 1945 e il 1946 e pubblicato originalmente nel febbraio 1963 per lo “storico per eccellenza” editore Mursia. Fu vincitore del Premio Bancarella nel 1964. (Curiosità editoriale: il libro fu rifiutato da 16 editori italiani prima che Mursia decidesse di pubblicarlo: da allora è diventato una delle opere culto della letteratura di guerra con oltre 4,5 milioni di copie vendute in 130 ristampe e nuove edizioni e traduzioni in francese, spagnolo, portoghese e olandese. Tratta dell’esperienza bellica del sottotenente medico Italo Serri (pseudonimo dietro il quale si cela Bedeschi stesso) durante la Seconda guerra mondiale.

Bedeschi scelse di utilizzare nomi fittizi per quasi tutti personaggi del libro e tutelare così la loro privacy, come scrive l’autore stesso nella prefazione del libro:

«L’autore affida al lettore la storia di un esiguo reparto; omettendo gli autentici nomi ha voluto deliberatamente trascendere le singole persone, perché questa è stata davvero la storia di tutti gli alpini, e perché in essa tutte le madri possano intravedere i volti dei loro figli e riviverne la storia di dolore e di morte […]»

Il vero nome del colonnello Garri è appunto Pietro Gay, proprietario della villa Liberty sul viale Anita Garibaldi di Cesenatico. Ecco alcuni brani, tratti a partire dal primo incontro con Giulio Bedeschi (Italo Serri nel libro).

  Dalla porta semiaperta che dall’ufficio Comando introduceva a quella del comandante di reggimento uscì una voce robusta: – Voglio vedere in faccia il nuovo acquisto! – Chiede di te, va’ avanti – fece l’aiutante maggiore. Come Serri oltrepassò la soglia, il colonnello si levò in piedi. – Vieni, vieni -, disse giovialmente al medico squadrandolo con sveltezza da capo a piedi e fermando lo sguardo diritto nelle pupille. – Ti ho fatto attendere un poco, a volte bisogna dare la precedenza alle scartoffie sugli uomini, anche se ciò non è lusinghiero per noi. Come ti chiami? – Sottotenente medico Serri. – Colonnello Garri -. E stese la mano. Era ampia, solida, forte come il viso e tutta la struttura dell’uomo. Alto, massiccio, a guardarlo dava subito la sensazione di poter disporre di una volontà ben difficilmente flessibile. Alla carnosa plasticità delle labbra s’opponeva negli occhi, in una luce di bonaria cordialità, un sottinteso di possenti energie e di svelti pensieri. Poteva avere 45 anni, nonostante dominasse sovra le sopracciglia nere la specchiante lucentezza del cranio. – Non startene impalato sull’attenti -, proseguì sedendo. – Qui da noi si usa poco, serve tutt’al più per tenere ben fermo qualcuno quando gli si vuole levare la pelle con un cicchetto, ma succede di rado. Per il resto, meglio lasciare agli uomini la loro naturalezza, ci si intende meglio. Quanti anni hai? – Ventisei -.

Un’operosità senza fine impegnava gli artiglieri, gli ufficiali, il comandante che tutto ordinava. Dal colonnello Garri il flusso d’una energia inflessibile scendeva a rivoli tra le schiere dei suoi uomini, tremila artiglieri alpini, blocco di roccia dell’Alpe…

Ordine del colonnello, dicevano i soldati, e pareva ogni volta che un undicesimo versetto fosse aggiunto per l’occasione ai Dieci Comandamenti, e il Signore dall’alto dicesse di sì… Troppi legami, infatti, esistevano tra il comandante di reggimento e i suoi soldati, e troppe situazioni tragiche in cui il reparto era parso senza scampo travolto egli aveva personalmente risolto perché gli artiglieri non lo riconoscessero come loro inarrivabile capo…

L’ira incupiva lo sguardo del colonnello, mentre la sua stanzetta era piena del suo sdegnoso ansito. Guardava il lume, il filo fumigante che usciva dal lanternino. Dovevano morire così i suoi soldati, senza che nessuno li difendesse da una disposizione idiota? O non li aveva forse difesi sempre, lottando perché non una goccia del loro sangue fosse versata invano? Che cos’erano i suoi soldati? Polvere da lasciare che il vento disperda a suo capriccio? Oh no, per Dio, finché egli era il loro capo: a nessun costo l’avrebbe permesso! E meno che mai inchinandosi a quelle facce di pasciuti pezzi grossi che in quel momento nella penombra dell’isba, oltre l’ultimo orlo di luce egli vedeva confabulare: ridacchiavano e chiacchieravano tranquillamente nei loro uffici, poggiando le grosse cosce sui braccioli imbottiti delle poltrone, dopo aver deciso che gli alpini potevano anche schierarsi sul Don, per loro andava bene ugualmente…

“… Impugnò la penna, unica arma che aveva in difesa dei suoi alpini, e gravò con furia sul foglio di carta… Parlo con il cuore di vecchio alpino e per l’amore che porto ai miei soldati; so che non può venirmene che danno, ma tuttavia sento il dovere di far sentire la mia voce… Vi autorizzo a rendere nota questa lettera a chi vorrete, e a farne l’uso che riterrete più opportuno, a vantaggio dei soldati. Finché è ancora possibile prendere adeguati provvedimenti io affermo e denuncio che, non so se per ambizioni o incompetenze comandanti o per altre ragioni, si sta addivenendo a una determinazione d’impiego delle truppe alpine che non esito a definire bestiale e delittuosa.

Firmò, sigillò la busta intestata, indirizzò a un altissimo personaggio di Roma, indossò cappello e cinturone, afferrò il suo puntale d’acciaio, spense il lume e respirando con più liberi polmoni uscì nella notte a scuotere dal sonno il maresciallo della Posta Militare 

(Lettera col. Garri ad altissimo personaggio in Roma)