Giugno 1914, porto canale di Cesenatico: nella casa di Marino Moretti, poeta e scrittore romagnolo allora 29enne, che ha appena pubblicato a puntate sul Giornale d’Italia il suo primo romanzo Il sole del sabato, si compone una mosaico geo-culturale d’eccezione (Alfredo Panzini, Renato Serra e Grazia Deledda) così ricostruito da Medardo Vincenzi in un fascicolo edito per il centenario della nascita di Moretti

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Lo scrittore e poeta Marino Moretti (Cesenatico, 1885 – 1979) ripreso sul porto canale della nativa città romagnola.

Sul finire di giugno dell’anno che precedette la Grande Guerra, una delle rare automobili in circolazione spegneva il suo borbottìo autorevole sul porto-canale di Cesenatico davanti a una delle palazzine che si specchiavano in fitta schiera nel nastro d’acqua verde. L’abitazione a due piani, costruita “in grigio et in silenzio” (Corrado Govoni era stato tra gli ospiti di quella casa) allineava sul canale persiani di legno verdi discretamente accostate, attraverso le quali si esercitava, di tanto in tanto, inutilmente, la curiosità di qualche pescatore.

Dalla vettura era sceso un uomo in carne sulla cinquantina, con la prosopopea ben riuscita del romagnolo che oltre ad avere qualche lira sotto il gilet di seta avesse sciacquato i panni in Arno o in acque altrettanto illustri. Quel signore accaldato, leggermente polveroso, era Alfredo Panzini. In sosta dinanzi alla stessa casa, scalpitando ogni tanto con dolcezza regolare, un cavallo di piazza immergeva il muso nel sacco della biada sotto l’occhio poco ingrassante del suo padrone, appisolato com’era a cassetta. Dalla vettura era scesa un’ora prima (potevano essere le cinque pomeridiane) una signora di quarant’anni poco alta, non avvenente, vestita di un sobrio nero integrale nonostante che si fosse già in estate. Di lei colpivano gli occhi e le ciglia folte, corvini come il vestito, e una fine severa compostezza. Sarda, con residenza a Roma, si trovava a villeggiare come ogni estate nella sua villa di Cervia a breve distanza da Cesenatico: la signora era Grazia Deledda, la sola donna che avrebbe insignito l’Italia di un Nobel letterario.

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La casa museo di Marino Moretti a Cesenatico.

Cesenatico, nonostante la notata presenza dei primi, rari bagnanti, ancora borgo peschereccio sul limitare della campagna, ebbe in sorte a quel tempo di trovarsi all’incrocio di una singolare geografia letteraria. A otto chilometri sulla via Adriatica in direzione di Ravenna vi era Cervia, e Cervia come si è detto ospitava la villa della Deledda. Sullo stesso percorso, benché in direzione opposta, in area pascoliana cioè, s’incontrava dopo alcuni chilometri Bellaria, paese di Panzini: erano quelli “i giorni del sole e del grano”, eterno innamorato della campagna e prossimo proprietario di terre aveva fatto un rapido ritorno da Milano per godersi lo spettacolo della mietitura.

A quindici chilometri nell’entroterra, a Cesena, viveva in un operoso ritiro, non ignoto però agli addetti ai lavori, il critico Renato Serra: a Cesenatico, infine, dentro la palazzina dalle persiane verdi che riparavano il padrone di casa dai riverberi troppo accesi del canale, trascorreva l’estate il naturalizzato fiorentino Marino Moretti ormai cesenaticense saltuario. Dietro la sua casa esisteva un giardinetto rustico dove, al riparo del muro di cinta, gli alberi da frutto fraternizzavano con qualche fiore ma soprattutto con arbusti di glicine, cedrina e gelsomino.

C’era anche un vecchio fico sotto la cui ombra la fragranza pungente che saliva dalle bordure di garofanina si mescolava all’effluvio carnale delle rose. Qui sedendo, non accorti del silenzioso annaspare delle due tartarughe di casa, Moretti e la sua ospite stavano bevendo una limonata nella quiete del pomeriggio, percorsa da un filo di brezza del litorale.

La conversazione era appena caduta su Renato Serra che aveva, al suo solito, mostrato alquanta sufficienza verso gli scritti della Deledda. Questa, al suo solito, aveva ignorato gli scritti dei critici e l’amico Moretti, per non fomentare la polemica, rimuginava per sé solo i giudizi che Serra aveva vergato con durezza sulla scrittrice nuorese: “D’una mediocrità esasperante le novelle” e a commento dei romanzi… “una certa ingenuità che la rende noiosa e la fa rispettare”.

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Grazia Deledda (Nuoro, 1871 – Roma, 1936) è stata una scrittrice italiana, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1926. Passava le vacanze a Cervia.

La Deledda che, contraddicendo qui come in altri tratti gli aspetti più esteriori della femminilità, sdegnava il timbro acuto e il pungiglione, si era limitata a un mezzo sorriso, lo sguardo in avanti a un punto immaginario: “Le mie cose possono non piacere, non è un cruccio. Ma se qualcosa si salverà è perché, io credo, si tratta di lavoro onesto, sorgivo. Non esito ad ammettere che scrivo di getto, quasi senza correggere, e spesso i quaderni manoscritti che mando a Treves sono quelli della prima stesura. Sì”, sorrideva all’incredulo anfitrione, “quando mi viene l’idea per un periodo, la rimugino tutt’intera finché tutt’intera non la vedo uscire dal pennino con la continuità dell’espirazione”.

“… o dell’ispirazione”?, interveniva Moretti, celebre e non ancora trentenne, con generoso calembour. “Eh, lo so, Serra non fu tenero neppure con me, ma i critici….che farci? Qualche anno fa il grande Borgese trovò nelle cose mie e in quelle di Guido, come disse, e di Sergio – mi riferisco a Gozzano, a Corazzini – un che di ‘crepuscolare’ che gli fece storcere il naso. Da allora quasi tutti, per inerzia, non fanno che rimbalzarsi la parola del collega illustre anche se ora qualcuno, devo dire, con intento diverso, elogiativo”.

“Sono felice di essere stata tra i primi, ricorda, ad apprezzare il suoi romanzo Il sole del sabato come cosa originale, e… ”

“Oh, sì, signora, come dimenticare le parole che allora mi scrisse e che conservo con orgoglio nel mio studio tra le lettere dei miei amici: ‘Sulla nostra landa letteraria è nato un nuovo sole, Il sole del sabato‘”.

Ancora prima di accostarsi al campanello di casa il visitatore aveva fatto sentire in strada, perentorio, la sua affettuosa impazienza: “Marino!! O Marino… ”.

Dopo un momento il “professor Panzini” era annunciato in giardino. “Vieni, Alfredo, siediti: berresti una limonata con noi?”.

“No, grazie: preferisco il tuo ottimo tamarindo. Buona sera, signora”.

“Tu conosci la signora Deledda, non è vero?”.

“Certo, certo”, intervennero a una voce, senza enfasi, entrambi gli ospiti.

“Se ben ricordo ci presentò Beltramelli a Roma”, disse la bruna scrittrice, “al Giornale d’Italia. Già, Beltramelli, un altro romagnolo come voi, stessa passionalità: un altro Alfredo Oriani”.

(Dovrò essere più grato a mia madre, marchigiana, o alla nonna di Chioggia per la mia debole consanguineità con quei signori?, accennò Moretti in disparte all’amico, con svagata malizia).

“Anche Oriani, se non erro, era di Forlì come Beltramelli”, continuò la scrittrice sarda.

“No”, intervenne affabile Panzini. “Oriani era nato a Faenza, la città delle ceramiche. E adesso è nel cimitero di Casola Valsenio. Eh sì. Meglio parlare di cose belle. Dei suoi libri, signora. Convieni, Marino, che la nostra Grazia è la più brava di tutti”, al tono dell’amicizia si mescolava una sincera ammirazione: “Chissà se se ne accorgeranno quelli di Stoccolma… ”.

La Deledda a palpebre chiuse accennava a un sorriso intelligente, mino e schivo. Poco dopo manifestò il desiderio di congedarsi. I due gentiluomini scortarono la piccola signora fino al predellino del suo fiacre e riguadagnarono la pace del giardino.

“E allora, Alfredo?”.

“Allora: quella donna è straordinaria. Lo hai letto Canne al vento?”.

“Sì”.

In alto la trama sanguigna del tramonto era sforbiciata dai voli delle rondini. I due amici indugiarono lungamente a godersi il fresco della giornata calante. Dentro il giardino arrivava, attutito, il grido dei marinai che si parlavano dall’una all’altra banchina accatastando cassette, sbrogliando reti.

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IL MIO EROE / di Salvatore Giannella

Renato Serra, inquieto e trasparente

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Sergio Zavoli (Ravenna, 1923) è il più noto giornalista televisivo italiano. È stato presidente della Rai dal 1980 al 1986. Attualmente è il senatore eletto più anziano in carica. (© GIACOMO GIANNELLA / STREAMCOLORS)

Era non solo il più elegante”, dice Sergio Zavoli, “ma uno dei più laici e spirituali tra gli ultimi grande intellettuali”

“Caro Giannella, non sorprenderti se il tuo invito a scegliere uno spirito guida mi riporta a Renato Serra, il più inquieto dei giovani letterati italiani, ma fuori servizio il più allegro e fantasioso animatore dello stare insieme. Addirittura Benedetto Croce salì fino a Cesena per conoscere quella ‘creatura inquieta e trasparente’”.

Cesena era tra le città di una regione che ancora oggi è prima per il maggior numero di biblioteche, in proporzione, d’Italia; con la monumentale Malatestiana…

“La storia di quella biblioteca assegna al nome di Serra la fama di una memorabile direzione, forse la più amata tra gli uomini di lettere di un’Italia culturalmente e idealmente senza bussola. Con quei ‘dolci occhi chiari, così limpidi, trasparenti e profondi’, Renato era non solo il più elegante e sportivo, ma anche tra i più laici e spirituali tra i nostri ultimi grandi intellettuali. La sua giovinezza non gli impedì di partecipare alla temperie del Paese, spaccato dall’entrata in guerra del ’15, che rientra in un esame di coscienza destinato a divenire un testo dilemmatico per l’intellettualità nazionale, divisa tra il proprio e il sentire comune, l’interesse dell’élite e del popolo, la natura dei bisogni e dei privilegi, delle istituzioni e delle regole. Teme, cioè, l’idea di un’Italia sconnessa, che non percepisce il pericolo verso il quale precipita, auspica un vasto riscatto civile. Scrive a De Robertis: ’In questi mesi sono venuto meditando su qualcosa che trascende la letteratura, la storia stessa…Occorre dedicarsi a una purificazione di cui non possiamo, non sappiamo fare a meno….’. Il 18 luglio 1915 scrive dal Podgora a un amico e medico di famiglia, gli racconta dei suoi acciacchi, poi esclama: ‘Speriamo di guarire col fuoco’”.

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Renato Serra (Cesena, 1884 – Monte Podgora, 1915) è stato un critico letterario e scrittore. Suo nonno, Giuseppe Favini, fu patriota delle Cinque giornate di Milano. Nel 1915, in piena guerra, scrisse uno dei capolavori della letteratura italiana, l’Esame di coscienza di un letterato. (© GIACOMO GIANNELLA / STREAMCOLORS)

Muore il 20, colpito alla fronte.

“Un giorno andai a Cervia per incontrare Aldo Spallicci, il poeta de “La piè”, cui Tonino Guerra avrebbe dedicato la sua tesi di laurea; io volevo conoscerlo, farmi raccontare, capire. La testimonianza diretta di Spallicci sulla morte di Serra fu emozionante. Si assicurò che non prendessi per qualche forma di enfasi quel giovanile, ardente bisogno di vivere, non solo di esistere, in una dimensione degna del suo Paese; non c’erano in lui lusinghe eroiche, tentazioni virtuose, liricheggianti. Era morto ‘l’ultimo umanista italiano di quel tempo martoriato’, dirà Carlo Bo. ‘Ora – aggiunse Panzini – io prego per quanto so e posso che di Lui non si ragioni nel consueto modo, cioè non si dica quanto valesse come critico o scrittore… Diremo che la memoria di Lui vive e trema nei nostri cuori’”.

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Fonte: da Sette, lo storico magazine del Corriere della Sera, n. 8/2014, dove dal 26 aprile 2013 curo la rubrica Il mio eroe.

 

A proposito

Enzo Biagi, Marino Moretti e l’umanità della Romagna

Un foglio sospeso con le parole di un giovane maestro di giornalismo, a cura di Salvatore Giannella, per la seconda edizione del Premio internazionale “Cinque stelle per il giornalismo”, Milano Marittima, 25 aprile 2007

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Enzo Marco Biagi (Pianaccio di Lizzano in Belvedere, 1920 – Milano, 2007) è stato un grande giornalista, scrittore e conduttore televisivo.

Bologna, 11 gennaio 1939 (nota, 1)Quel giorno chiude Artecrazia, la rivista del Futurismo, sequestrata dalla censura fascista. Enzo Biagi ha 18 anni, essendo nato a Pianaccio, sull’Appennino bolognese, il 9 agosto 1920. L’idea di diventare giornalista gli nacque dopo aver letto Martin Eden di Jack London. A Bologna, dove si era trasferito a nove anni per seguire il padre Dario vicecapo magazziniere in uno zuccherificio, frequentò l’istituto tecnico Pier Crescenzi, dove con altri compagni diede vita a una rivista studentesca, Il Picchio, che si occupava soprattutto di vita scolastica. Il Picchio fu soppresso dopo qualche mese dal regime fascista. Nel ’39 Biagi esordisce su L’Avvenire d’Italia con questo articolo. Un anno dopo viene assunto in pianta stabile dal Carlino Sera, edizione serale de Il Resto del Carlino, come estensore di notizie, ovvero colui che si occupava di sistemare gli articoli portati in redazione dai reporter.

 

Conoscemmo Marino Moretti (nota, 2)Il grande poeta e scrittore romagnolo nasce a Cesenatico il 18 luglio 1885 da Filomena, insegnante elementare, e da Ettore, impiegato comunale e imprenditore nel settore dei trasporti marittimi. Nella città romagnola muore il 6 luglio 1979. La sua intensa vita, le sue carte e i suoi libri sono racchiuse nella casa-museo sul porto canale leonardesco di Cesenatico, oggi rinomato Centro di studi e di ricerca sulla letteratura del Novecento. Info: www.casamoretti.it un giorno lontano, sui banchi della scuola. Il pesco e la viola, Le prime tristezze furono il nostro primo incontro con lo scrittore romagnolo.

“È un crepuscolare”, spiegò il professore. Uno stile, una scuola, un modo particolare di poetare e di sentire: mezze tinte, un tono minore, una dolce malinconia.

Qualche anno dopo (e c’eravamo già accostati alle opere e allo spirito di Moretti), riandando al giudizio del nostro professore pensammo, con dovuto rispetto ma con tutta sincerità, che il nostro vecchio maestro era caduto in errore. Si era fermato (come tanta gente, come certa critica) alle Poesie scritte col lapis. Aveva giudicato un autore da un’opera, da una delle prime opere. Non si era accorto, forse perché non li aveva letti, che i successivi libri di Moretti rivelavamo un nuovo stile, una nuova personalità, avevano un loro carattere, una loro fisionomia. Non era affatto Moretti uno scrittore per signorine dai vaghi sentimentalismi. Era uno scrittore forte, un poeta che “fu creduto di pel liscio”, ma al quale bisogna riconoscere “l’aggressività, almeno latente, dei suoi unghioli così ben celati nel velluto”. Vi sono in Moretti dei caratteri che, oltre a distaccarlo completamente dai crepuscolari, gli danno una personalità sua propria che si rivela nei suoi libri migliori, che s’impone nell’animo del lettore.

Un’umanità soffusa da un senso cristiano di bontà (una umanità che sa di dolore e di speranza), un umorismo suo particolare, fresco, ingenuo, terraiolo, che nasce spontaneo e lieve come un sorriso, un pensiero forte che si nasconde in una scrittura semplice, facile, chiara, uno spirito di osservazione arguto e finissimo. È un mondo paesano fatto di sole e di mare, di paranze dalle vele lanciate verso il cielo, ove le creature che animano i suoi romanzi si aggirano umili e semplici, gente di tutti i giorni, che vive una vita come la tua: un mondo di stradette ove le reti si asciugano al sole, le donne allattano i bambini, i vecchi pensano fumano e sputano guardano i gabbiani che fuggono come le brevi ore della vita.

La religiosità di Moretti non nasce dalle parole ma dagli atteggiamenti di questi suoi personaggi, dal loro modo di concepire la vita come un duro cammino (a cui si assoggettano con grande rassegnazione) dopo il quale, stanchi ma con l’animo in pace, raggiungere una riposante méta. Così nei Puri di cuore (ed. Mondadori), così Nel segno della croce (ed. Treves – nota, 3Proprio nel 1939 l’editrice Treves viene rilevata da Aldo Garzanti, industriale romagnolo. È una conseguenza delle leggi razziali che colpivano l’ebreo Treves.), ove la figura di Clarice (Clarice piena di bontà e di sottomissione, anche di fronte alle avversità e ai dolori) vibra di una purissima luce, di una grande umanità.

Moretti è innegabilmente un poeta. Poeta della semplicità, poeta delle cose di tutti e della vita comune, il cui tormento è quello delle creature che vivono nell’ombra, ai margini della vita.

È stato chiamato l’artista “dolorosamente umano”. E ci sembra che, pur nella brevità del giudizio, vi sia tutta la grandezza dello scrittore. Creature di purezza, quelle di Moretti, creature della bontà e del dolore. Chi le vede nascere dalle pagine, e vivere la loro vita, trova nella vicenda qualcosa che è anche di suo, un entusiasmo che un giorno l’animò, un sospiro che fu una tristezza, un sorriso che nacque da una gioia.

Anche quando la vita è bassezza e volgarità, l’occhio di Moretti contempla le miserie umane con l’animo teso alla pietà, col cuore che vuole il perdono e sembra invocare dal Dio misericordioso un raggio di luce che guidi quelle anime doloranti e smarrite. Anche i personaggi più infelici (quelli caduti nel vizio e nella malvagità) hanno sempre un pentimento per le loro colpe e meritano, per la loro contrita invocazione di perdono, una caritatevole assoluzione.

Per la sua semplicità e la sua umanità Moretti può essere capito da tutti e anche noi giovani gli ci sentiamo vicini. Vicini a uno scrittore che, oltre a come si scrive ha insegnato anche come un artista deve vivere, vicini a un poeta la cui opera e il cui spirito hanno qualcosa di francescano. Siamo anche noi “ragazzacci di vent’anni” ma la stroncatura (ci creda Moretti) non gliela faremo. Perché gioventù non vuol dire superficialità, perché Moretti e la sua opera non sono sorpassati e, anche se scrivere non è necessario, u n buon libro vale sempre un tesoro. Moretti non è un crepuscolare, non è un sentimentale morboso e la sua arte va coi tempi e li accompagna. (Riproduzione dal quotidiano L’Avvenire d’Italia nota, 4Era un quotidiano nazionale fondato a Bologna il 1° novembre 1896, progenitore dell’attuale testata cattolica Avvenire. Sulla facciata della sua redazione, in via Mentana 2, i giornalisti cattolici italiani hanno collocato nel 1993 una lapide di marmo con queste parole: 'Qui era la sede del quotidiano L’Avvenire d’Italia, libera voce del cattolicesimo italiano mai succube della prepotenza dal 1896 al 1968, distrutta dalla furia delle guerra il 29 gennaio 1944, essendone direttore Raimondo Manzini'.).

Enzo Marco Biagi (nota, 5)In questo primo articolo la firma di Enzo Biagi è arricchita dal secondo nome. Marco si chiamava il suo amato nonno che gli raccontava le storie di quando andava a fare il carbone in Sardegna o di quando a Pianaccio capitavano i briganti.

 

Note

  1. Quel giorno chiude Artecrazia, la rivista del Futurismo, sequestrata dalla censura fascista. Enzo Biagi ha 18 anni, essendo nato a Pianaccio, sull’Appennino bolognese, il 9 agosto 1920. L’idea di diventare giornalista gli nacque dopo aver letto Martin Eden di Jack London. A Bologna, dove si era trasferito a nove anni per seguire il padre Dario vicecapo magazziniere in uno zuccherificio, frequentò l’istituto tecnico Pier Crescenzi, dove con altri compagni diede vita a una rivista studentesca, Il Picchio, che si occupava soprattutto di vita scolastica. Il Picchio fu soppresso dopo qualche mese dal regime fascista. Nel ’39 Biagi esordisce su L’Avvenire d’Italia con questo articolo. Un anno dopo viene assunto in pianta stabile dal Carlino Sera, edizione serale de Il Resto del Carlino, come estensore di notizie, ovvero colui che si occupava di sistemare gli articoli portati in redazione dai reporter.
  2. Il grande poeta e scrittore romagnolo nasce a Cesenatico il 18 luglio 1885 da Filomena, insegnante elementare, e da Ettore, impiegato comunale e imprenditore nel settore dei trasporti marittimi. Nella città romagnola muore il 6 luglio 1979. La sua intensa vita, le sue carte e i suoi libri sono racchiuse nella casa-museo sul porto canale leonardesco di Cesenatico, oggi rinomato Centro di studi e di ricerca sulla letteratura del Novecento. Info: www.casamoretti.it.
  3. Proprio nel 1939 l’editrice Treves viene rilevata da Aldo Garzanti, industriale romagnolo. È una conseguenza delle leggi razziali che colpivano l’ebreo Treves.
  4. Era un quotidiano nazionale fondato a Bologna il 1° novembre 1896, progenitore dell’attuale testata cattolica Avvenire. Sulla facciata della sua redazione, in via Mentana 2, i giornalisti cattolici italiani hanno collocato nel 1993 una lapide di marmo con queste parole: “Qui era la sede del quotidiano L’Avvenire d’Italia, libera voce del cattolicesimo italiano mai succube della prepotenza dal 1896 al 1968, distrutta dalla furia delle guerra il 29 gennaio 1944, essendone direttore Raimondo Manzini”.
  5. In questo primo articolo la firma di Enzo Biagi è arricchita dal secondo nome. Marco si chiamava il suo amato nonno che gli raccontava le storie di quando andava a fare il carbone in Sardegna o di quando a Pianaccio capitavano i briganti.