C’era una volta in paese… Sfileranno in questa sezione di Giannella Channel indimenticabili personaggi d’altri tempi per raccontare, ricostruiti da penne brillantemente ironiche, aneddoti e curiosità di piccoli mondi antichi. Esordisce Michele Di Biase, che sta migrando dalle sue consuete consulenze amministrative, fiscali e tributarie alle più amate rive del cantastorie del borgo del Tavoliere pugliese dove opera (e dove io sono nato): Trinitapoli.

burocrateSpalancò la finestra del balcone, s’aggrappò al corrimano della ringhiera e vi si sporse con il busto. No, non aveva alcuna intenzione di buttarsi giù: desiderava solo sgranchirsi e immettere nei polmoni quanto più ossigeno possibile.

Ancorato all’appoggio, prese a flettere le gambe armonizzando i movimenti con la respirazione: inspirava profondamente all’esterno del balcone e vi espirava all’interno. Di tanto in tanto interrompeva l’esercizio e, come raccogliendola nel palmo delle mani, portava l’aria alla bocca.

Ma doveva farlo, alle tre del pomeriggio, proprio lì, sul balcone al primo piano del Palazzo municipale di Trinitapoli, la storica residenza dei Commendatori dei Cavalieri di Malta? Sì. Assolutamente sì. Perché da quella posizione poteva godere appieno dell’antistante Piazza Umberto I (ribattezzata Piazza Municipio), perché quel balcone era a portata di mano (lui lavorava nel retrostante stanzone), perché la “controra” regnava sovrana e, come si sa, a violarne le rigide prescrizioni – l’obbligo del silenzio innanzitutto – da noi si sarebbe commesso un atto sacrilego.

Non grandissima, la piazza in compenso è ben squadrata, proporzionata, aggraziata. Elegantemente fasciata (all’epoca) da “chianche” basaltiche e come protetta da due chiese l’una di fronte all’altra. Le stradine d’accesso sembrano volerne punteggiare l’orlo e incanalare all’interno i venti, lo scirocco in particolare, e gli aromi gradevolmente salmastri del mare e delle vasche salifere tenuemente colorate di rosa, lì a un passo dal paese.

Venti che però – sosteneva Nicolino – evitavano perfino di lambire, per non contaminarsi, quel fabbricato ridotto a muto custode di cose e fatti maleodoranti d’imbrogli politico-amministrativi. Stratificatisi nel corso di decenni e decenni, erano questi che, alla stregua di elementi di sostegno abilmente architettati e occultamente incorporati, finivano paradossalmente per irrobustirlo. Come spiegare altrimenti che ancora si reggesse, il Palazzo, nonostante l’incuria e l’umidità che invece avevano da tempo mandato in rovina molti dei fabbricati che delimitavano la piazza?

Per attingere aria pulita occorreva dunque superare i balconi: metà corpo sporgente, mani a indirizzarne il flusso, naso a perpendicolo sulla piazza. Dopo lunghe “bevute d’aria” si sentiva liberato anche della leggera ma persistente nausea indotta dalle scartoffie e dai grandi registri incartapecoriti sparsi dappertutto nello stanzone. Dei quali lui, l’impiegato più esperto e rigoroso dell’ufficio anagrafe e stato civile, doveva nondimeno servirsi per redigere stati di famiglia, ad esempio, oppure ricostruire alberi genealogici: in questo era imbattibile quanto ad accuratezza e precisione. I “suoi” registri (nascite, matrimoni, morti, eccetera) partivano dal periodo dell’occupazione napoleonica del Regno Borbonico. Questi non bastando, ricorreva, scrupoloso com’era, ai secolari registri dei battezzati conservati in Cattedrale, dov’era sempre il benvenuto. Era, a dirla tutta, un cattolico osservante, più che osservante. Aveva studiato in seminario per una quindicina d’anni. Mancava poco all’ordinazione presbiterale quando restò fulminato, e non certo sulla via di Damasco, da un diavoletto di ragazza divenuta sua moglie. Insuperabile e insuperato il magnifico presepe che puntualmente esponeva in casa sua e rendeva “fruibile per l’adorazione e per il bacio del piede al bambin Gesù” ai tanti amici e familiari. Di processioni simili a quelle organizzate da lui non se ne sono più viste. Un capolavoro assoluto la processione del Venerdì Santo, la più sentita e partecipata.

Mezz’età, minuto, piccoletto, guance scavate, voce nasale, leggermente ricurvo, d’acchito lo si sarebbe detto fragile e arrendevole se non fosse per lo sguardo nel quale a ben vedere si coglievano fermezza e determinazione e tratti perfino imperiosi che finivano per stornare la prima (erronea) impressione. Di Nicolino era nota a tutti l’onestà. E la disponibilità anche per l’elaborazione di complicate genealogie.

S’incupiva – e allora era preferibile starne alla larga – soltanto nel caso in cui i risultati delle sue ricerche venivano messi in discussione da “soggetti in mala fede o sordi all’intenzion dell’arte”. Con costoro, di regola andava così. Illustrava pazientemente il proprio operato fornendo spiegazioni particolareggiate. L’interessato insistendo, andava in profondità. Occorrendo, ribadiva. In assenza di segni di ravvedimento, e lui aborrendo l’adozione di terminologia non consona alla funzione, ignorando l’impermeabile interlocutore prendeva a fare dell’altro, definitivamente e irrimediabilmente tacendosi, fosse stato pure Domineddio, a posizioni invertite, a pregarlo di rispondere.

L’intervento dell’assessore.

Si registra una sola eccezione alla regola: un episodio da raccontare con qualche dettaglio. Gaetano Filangiero, un proprietario terriero messo bene in carne e in soldi, non perdeva occasione per vantarsi delle proprie ascendenze nobiliari. A detta sua lo dimostrava senza tema di smentita un rogito notarile del 1788 mediante cui il conte Attilio Filangieri di Candida donava una masseria, 40 versure di terra in agro di Casaltrinità / Trinitapoli e 22.000 ducati d’oro a Giulio Filangiero (Filangiero, si badi, e non Filangieri).

Per fugare le perplessità che pur serpeggiavano, gli venne la brillante idea di munirsi di un certificato rilasciato dal Comune, che, appunto, desse per certo che egli fosse il rampollo vivente di antica famiglia aristocratica. Fece quindi richiesta di uno “stato genealogico risalente con indicazione dei titoli nobiliari”. Richiesta che a Nicolino era apparsa, più che bizzarra, irricevibile. Anche perché il Filangiero, nato nel capoluogo, a Foggia, era ufficialmente residente a Trinitapoli da una trentina d’anni, e quindi il locale archivio non conservava altra memoria se non quella del trasferimento di residenza (da Foggia) e dell’attuale stato di famiglia.

Intervenne a gamba tesa un importante assessore di cui il Filangiero era grande amico e sostenitore.

Nicolino – forse per curiosità o forse (o senza forse in questo caso) premeditando di contraccambiare l’indigesta intromissione assessorile – si mise all’opera, non potendo peraltro escludersi a priori che, prima del trasferimento, antenati del Filangiero avessero risieduto nella piccola cittadina.

Nessuna traccia, né di essi né di sangue blu, nei registri. Nulla emerse dal polveroso archivio borbonico, meno di niente da quello parrocchiale.

Dell’esito negativo della ricerca informò con il consueto garbo il massiccio e borioso interessato che, tacciandolo di pregiudizio e d’ignoranza, prese a sbraitare: Filangiero in luogo di Filangieri denuncia una svista, un banale errore materiale del notaio. Provengo da una famiglia di conti. Sono conte anch’io. Incontrovertibilmente, inoppugnabilmente. I titoli nobiliari non servono più a niente? Va bene, anzi va male, ma mi pare giusto venga conosciuto il mio rango, che tutti sappiano “chi sono e da dove vengo”.

Nicolino il piccoletto tentò di chiarire, precisare, illustrare. Con dovizia e ripetutamente. Ma inutilmente. Dunque, ligio alla sua regola, si tacque.

Strappo alla regola?

Manco a dirlo, si ripresentò l’assessore (detto l’avvocato, che in realtà tale non era, avendo interrotto anzitempo gli studi universitari).

“Com’è questa storia?”

“E’ quella che già conosce, assessore, e che ho spiegato all’interessato qui presente.”

“Ho capito. Ma non si può fare un piccolo, piccolissimo strappo alla regola?”

“Strappo alla regola?”

“Ho capito. Stop. Ma non si può almeno scavare più a fondo, magari chiedendo al Comune di Foggia e spulciando negli archivi notarili o di Stato?”

“Certo, ma non credo competa né a me né al comune occuparsi di ricerche araldiche. Ci sono associazioni o istituti specializzati per questo. Comunque, se proprio insiste, lo farò, ma mi occorre l’autorizzazione del sindaco.”

“Del sindaco? Non basta la mia?”

“No: del sindaco e, naturalmente, scritta.”

“Che venga preparata. La faccio firmare immediatamente.”

Quel pomeriggio, intorno alle tre, Nicolino venne visto attardarsi sul balcone al primo piano del Palazzo Municipale, quello sulla porta d’ingresso della “mitica” Stamperia di don Vincenzo Centonze.

“Uaglio’ – disse questi a suo figlio Angelo – oggi Nicolino beve aria più del solito. Che sarà?”

Cazzi amari.

Una madre tenutaria.

“Veda, assessore, può anche accadere che i notai sbaglino, ma non è questo il caso: Gaetano Filangiero è Gaetano Filangiero. Ho esaminato le carte del Comune di Foggia, del Catasto, dell’Archivio notarile, della Sezione Archivio di Stato di Lucera, della Biblioteca Provinciale di Foggia, eccetera. Non c’è alcun dubbio: i Filangieri non sono suoi antenati.

“Mi spiace ma devo contraddirti. Dalla documentazione in mio possesso risulta che gran parte dei beni immobili di Gaetano Filangiero provengono dalla di lui madre Iolanda, che a sua volta l’ha ricevuta dal padre e questi da suo padre, e così a salire fino all’atto del 1788 di donazione, vale a dire una successione anticipata, in favore di Giulio Filangiero, o Filangieri che dir si voglia – il capostipite, chiamiamolo così – che non può che essere il figlio del donante, il conte Ruggiero Filangieri di Candida. E che? si possono fare donazioni in favore di terzi estranei, così ledendo il diritto dei figli e degli altri eredi legittimi?”.

“Nel 1788, nel Regno delle Due Sicilie, sì, si poteva fare more Longobardorum, e cioè secondo il costume dei Longobardi o meglio secondo il diritto consuetudinario di quell’antico popolo. Guardi, nell’atto del 1788 si legge testualmente: secondo la consuetudine di questo Casale, in cui si vive more Longobardorum”.

“Dov’è, dove sta scritto?”

“Qui, ecco, terzultimo rigo.”

“Ah, sì, sì, è vero, m’era sfuggito. Ma, scusa, ora che ci penso, il diritto longobardo non venne abrogato nel ‘200 da, come si chiama?, sì l’imperatore, quello di Castel del Monte, voglio dire …”

“Federico II di Svevia?”

“Sì, Federico II. Accidenti, non mi veniva in mente.”

“Federico ci provò, ma di fatto non riuscì a estirpare del tutto le consuetudini longobarde. Ci provò con le Assise di Capua del 1220, con le Assise di Melfi del 1231 (il Liber Augustalis o Liber Constitutionum Regni Siciliae), con le leggi pubblicate a Barletta nel 1246. La pratica consuetudinaria longobarda resistette per secoli alla legislazione federiciana e alle legislazioni successive. Lo testimonia, caro assessore, l’atto che abbiamo appena letto: da noi si viveva more Longobardorum. Le cose cominciarono a cambiare nel cosiddetto periodo francese, con il codice civile napoleonico del 1804 partorito dalla Rivoluzione del 1789.”

“Nicolino caro, tu mi sorprendi…”

“Come ho detto, mi sono documentato. Ah, quasi dimenticavo… Ha avuto modo di leggere il certificato del Comune di Foggia?”

“No, perché?”

“Legga. Gaetano Filangiero porta lo stesso cognome della madre.”

“E allora? Può accadere che entrambe i genitori abbiano lo stesso cognome. Che vuoi dire? Non capisco.”

“Non ho finito, mi perdoni. Nel certificato, quanto alla paternità, è scritto: figlio di n.n., cioè figlio di padre ignoto.”

“Figlio di padre ignoto? Gaetano è figlio di padre ignoto?”

“Purtroppo sì. Inoltre è emerso…”

“Cos’altro è emerso?”

“E’ emerso che la signora Iolanda è stata per anni titolare di una licenza di gestione di una di quelle case, capisce?”

“Quali case? Nicolino, sii più chiaro per favore.”

“Le case che la senatrice Merlin fece chiudere.”

“E cioè?”

“Le case chiuse.”

“E ridagli, Nicoli’. Dillo chiaro e tondo: le case d’appuntamento, i casini.”

“Esattamente. Iolanda, a Foggia, era la ‘madame proprietaria’ della casa d’appuntamento Elisir.”

“Donna Iolanda tenutaria del famoso Elisir? Non ci credo, non ci posso credere. Donna Iolanda, quella cara signora…”

“Cara, sì. Sissignore.”

“Ma allora Giacinto Filangiero chi è, che cos’è?”

“Un figlio di buona mamma.”

“Un figlio di buona mamma?”

“Lo dico chiaro e tondo?… Un figlio di puttana.”

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Michele Di Biase