tinin-mantegazza-illustrazioneLa Riviera romagnola, nel suo anno più difficile, perde due¹ simboli del suo ammaliante e generoso mosaicoPROSSIMAMENTE: «E a Rimini si spegne Publiphono, la “voce” della spiaggia che lanciò Sergio Zavoli. In 70 anni ha fatto ritrovare 130 mila bambini che si erano smarriti nella selva degli ombrelloni». Si è spenta, in questi giorni di cauta ripartenza, la voce di Tinin Mantegazza, artista, illustratore e scenografo, giornalista della squadra di Enzo Biagi, animatore dei primi anni del cabaret milanese e inventore dell’uccello Dodò, pupazzo protagonista della storica trasmissione per bambini della Rai L’albero azzurro, che quest’anno festeggia il trentennale. Tinin, di origini liguri ma trapiantato prima a Milano s’era trasferito, dagli anni ’90, a Cesenatico, in una casa-studio con vista sul porto dove ti accoglieva con l’altrettanto vulcanica sposa Velia Tumiati.

È stato un addio festoso, quello che abbiamo dato a Tinin sotto la “Vela di luce”, la sua creazione artistica sulla riva di Ponente del porto canale, nell’area del mercato ittico. Un funerale laico, tra pescherecci e pescatori, in un pomeriggio d’estate: sole, azzurro del cielo, bianco di nuvole e gabbiani, sembrava uno dei dipinti che Tinin realizzò per le sue “Tende al mare”. Con Velia, compagna di una vita, a dare il giusto svolgimento all’ultimo volo del suo Tinin.

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Agostino “Tinin” Mantegazza (Varazze, 1931 – Cesenatico 2020) con sua moglie Velia Tumiati, in una festa nella loro casa sul porto canale di Cesenatico. Prima disegnatore del Giorno, poi animatore del cabaret a Milano, Tinin ha lavorato soprattutto nel teatro per ragazzi. Ha fondato nel 1977 l’ASTRA, Associazione Teatro Ragazzi, e nel 1978 il Teatro del Buratto; ha diretto il Teatro Verdi e collaborato per 18 anni con Enzo Biagi in Tv. Velia è stata tra i fondatori nel ’74 del Teatro del Buratto, poi organizzatrice di spettacoli di Ornella Vanoni e Gino Paoli e capoanimatrice in Rai ove ha curato la regia, tra l’altro, di 500 puntate dell’Albero azzurro.

Con la colonna sonora dell’Internazionale, composta dal sax di Stefano Fariselli, si sono alternati amici e colleghi, rappresentanti istituzionali come 7 sindaci dell’Unione del Rubicone (“Lo ricordiamo come avrebbe voluto lui, con ironia e con un sorriso”, ha detto il primo cittadino di Cesenatico Matteo Gozzoli, alla sua amministrazione si deve il manifesto con un autoritratto ironico in cui Tinin vola su un aereo, quello riprodotto in apertura del testo), cittadini che hanno partecipato alla crescita turistica della città, personaggi noti come Cochi e Renato, Roberto Vecchioni, Massimo Carlotto. E poi Luca Crovi di Bonelli editore e Luisa Morandini, figlia di Morando Morandini che fu collega di Tinin a “La Notte”; Loris Mazzetti che era nella redazione de “Il fatto” di Enzo Biagi con Tinin. A salutarlo c’erano anche la poetessa Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi del Teatro Valdoca di Cesena, Lelia Serra, Massimo Pulini, Sabrina Foschini, Elena Baredi che diventò burattinaia con Tinin, don Pasquale di Sorrivoli. Presenti anche Sandro Pascucci e Riccardo Pascucci dell’antica stamperia di Gambettola, Flaminio Balestra della Fondazione di Longiano. Fabio Grassi, figlio di Primo che con Tinin portò molte novità per la promozione della riviera. Ruggero Sintoni direttore di Accademia Perduta. Commossi ricordi di Mino Savadori, cofondatore del Presepe della marineria, Davide Gnola e Manuela Ricci, Marta Zani, Renato Pozzetto, l’ex sindaco Luciano Natali, Raoul Casadei.

Ho preso la parola anche io, che avevo avvicinato più volte quel generoso vulcano di idee formidabili: ho portato, oltre al mio ricordo, anche le parole dei miei piccoli nipoti Leo e Agata Pillot, arrivate da Hong Kong:

Caro Tinin, grazie per aver fatto vivere il nostro Draghin con i tuoi disegni. Ogni volta che sfoglieremo il libro sul dragone fifone che porta le nostre firme, ci ricorderemo della tua casa tra le nuvole e il mare di Cesenatico e dei tuoi gatti che spuntavano da tutte le parti.
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“Il dragone fifone” di Leo e Agata Pillot, illustrazioni di Tinin Mantegazza.

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Tinin Mantegazza, Restituiamo Roma al Vaticano (con tante scuse) (Corsiero Editore).

Sul porto canale Velia ha consegnato le ultime parole scritte da Tinin in un libro che già nel titolo, Restituiamo Roma al Vaticano (con tante scuse) porta il segno della sua graffiante gentilezza. Sono 26 racconti sghembi e originali, ballate e disegni un po’ storti, buffi ed esagerati, introdotti da Luca Crovi.
Qui di seguito riportiamo il primo racconto che dà il titolo a tutto il libro:

Manlio il pensatore

di Tinin Mantegazza

«Restituiamo Roma al Vaticano! Con tante scuse», disse Manlio Maci, il vecchio corpulento pensatore marittimo che in gioventù aveva navigato su varie navi mercantili, aveva visto il mondo e s’era fatto delle opinioni del tutto personali che esternava volentieri in compagnia di una buona bottiglia di dolcetto.

Da tempo immemorabile il vecchio aveva la sua sedia personale all’esterno dell’osteria del Cereda, estate e inverno indifferente al clima: era una sorta di istituzione.
Affabile conversatore, se trovava l’uditorio giusto, Manlio diceva la sua su tutto, in mancanza di pubblico taceva e sorseggiava il vino.
Arrivava verso le dieci, prendeva possesso della sua sedia e fino al tardo pomeriggio non si muoveva bevendo, mangiando salame e aspettando ascoltatori.

Bastava un nulla per stimolarlo: «Roma è un problema? Basterebbe, con mille scuse, restituirla al Vaticano. Tutta colpa di Garibaldi», sentenziava l’ex navigante, poi: «Stalking, violenze, stupri, femminicidi? È una questione di cattiva educazione dei maschi, la scuola è carente, la famiglia pure, l’educazione del giovane maschio italiano è affidata all’Università della Strada; migliaia di docenti da marciapiede insegnano inconsapevolmente, con adeguato compenso, che la donna è un oggetto pronto a esaudire ogni desiderio, anche il meno rispettoso. L’italica formazione educativa del maschio è puttanesca!». Poi aggiungeva: «Anche la pubblicità offre molte immagini di donne oggetto, è diseducativa».

Il pensiero di Manlio sui politici era del tutto irriverente: «Una massa di pirla, lazzaroni sfaccendati», esclamava. «Un politico dovrebbe pensare al futuro, ai prossimi cent’anni, invece loro pensano alle prossime elezioni, coglioni!».

Poi aggiungeva: «La crisi non è la grandine, non è un fenomeno naturale, è un’invenzione umana, come l’inflazione: tasse sui poveri».

Al tramonto si alzava e andava verso casa, tutti sapevano dove abitava, ma nessuno era mai entrato in quell’antico fabbricato contadino sopravvissuto all’invasione dei condomini, si sapeva solo che con Manlio coabitavano alcuni gatti e che lui brontolava le sue esternazioni anche con loro.

In paese il vecchio conversatore era considerato un po’ matto, ma degno del massimo rispetto, nessuno rideva delle sue opinioni, ma nemmeno le prendeva sul serio.

Un mattino Maci non si presentò all’osteria, la sedia rimase vuota, qualcuno si preoccupò, fu Olga, la moglie di Cereda che prese l’iniziativa e andò a casa del vecchio; entrò, fu accolta da quattro gatti miagolanti, andò nella stanza da letto e trovò Manlio seduto per terra: «Sono caduto e non riesco ad alzarmi», sussurrò con voce impastata.

Olga era una donna forte, lo prese per le ascelle e con sforzo riuscì ad alzarlo fino a farlo sedere sul letto: «Ma da quanto tempo era per terra?».
«Da ieri sera, non so come ho fatto ma sono caduto, bisogna dare da mangiare ai gatti. Ho sonno». Svenne.
Olga chiamò il dottore e anche la Maria, infermiera in pensione.
«Non dorme, è in coma», disse il medico.
Fu così che Manlio Maci cominciò a congedarsi da questo mondo.
«Occorre restituire Roma al Vaticano», ripeteva ostinatamente il vecchio in coma.
«Delira», diceva la Maria.
Cominciò il pellegrinaggio, tutti i suoi ascoltatori d’osteria, un po’ per rispetto, un po’ per curiosità, andarono al suo capezzale.
«Bisogna liberarsi di Roma, la capitale si può fare dovunque».
«Delira, poveretto», diceva la Maria.
«Delira», dicevano gli astanti.
«L’inflazione è una tassa sui poveri!».
«Delira, delira».
«Le carceri non rieducano, sono inutili, vanno abolite».
«Delira».
«I militari vengono educati a sparare, quindi sono diplomati assassini».
«Delira».
«I politici sono dei pirla».
«Delira».
«Bisogna tappare la breccia di Porta Pia, va resa restaurata al Vaticano!».
«Delira, delira».
«Forse non delira», sussurrò Pietro il benzinaio.
Lo guardarono tutti con commiserazione.
Manlio ebbe un sussulto, scoreggiò lungamente ed esalò l’ultimo respiro.
Lentamente la stanza si vuotò. Maria si sedette, estrasse il rosario e si mise a pregare.

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¹ PROSSIMAMENTE: E a Rimini si spegne Publiphono, la “voce” della spiaggia che lanciò Sergio Zavoli. In 70 anni ha fatto ritrovare 130 mila bambini che si erano smarriti nella selva degli ombrelloni

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