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Riviera romagnola, luglio 1989. Per rassicurare i turisti sulla innocuità delle mucillagini, Primo Grassi beve, davanti alle telecamere della Rai, di Mediaset e di due emittenti tedesche, ARD e ZDF, un bicchiere di acqua di mare con le mucillagini. Ricorda il figlio Fabio: «Vanni Dolcini, Bonini e io preparammo un dossier da dare agli uffici informazione, un fascicolo di otto pagine in cui si spiegava cos’erano e che non facevano male. Lui ci mandò a quel paese con amichevole furia: “Imbecilli, chiamatemi le telecamere”».

Un anno fa, di questi tempi, ho assistito nel camposanto di Cesenatico alla semplice cerimonia d’addio a Primo Grassi, un gigante dell’umanità operosa della Romagna. Le essenziali, commosse parole del figlio Fabio, che trasportava abbracciando l’urna con le ceneri del padre (“Questa è una cerimonia civile, laica e pragmatica come ha voluto essere mio padre per tutta la vita. Non ho altre parole da aggiungere”) non illuminarono ai cento e più presenti il complesso mosaico delle qualità di Primo. Loro lo conoscevano già e gli avevano voluto bene.

Fedele al suo nome, Primo fu pioniere nella costruzione, a partire dagli anni Cinquanta, della prima fase del turismo moderno nella Riviera romagnola. Le sue intuizioni straordinarie, portate avanti con determinazione e passione grazie anche all’affermarsi di una forte collaborazione tra sistema pubblico e imprenditoria privata, i suoi istintivi colpi mediatici (come l’aver bevuto, sotto gli occhi delle telecamere, acqua intrisa di mucillagini durante la grande crisi dell’89, dimostrandone l’innocuità in maniera più incisiva di tante carte) hanno segnato gran parte dei successi della costa tra Rimini e Ravenna.

Se oggi, nel primo anniversario della sua scomparsa, lo ricordo non è solo per un sentimento di dolorosa nostalgia (avevo chiesto di incontrarlo nella sua casa di Cesenatico ma Fabio mi disse che era meglio che conservassi il ricordo della sua personalità forte, prima che la malattia lo debilitasse) ma perché nelle sue idee era espresso con chiarezza, come nei lanci dei razzi balistici, oltre al primo anche il secondo stadio dello sviluppo turistico della Riviera: un secondo stadio che, facendo leva sul combustibile pregiato dell’ambiente, con tristezza di romagnolo acquisito  vedo purtroppo indebolirsi anno dopo anno.

Affido il ricordo, puntuale e affettuoso, di Primo alle parole di Vittorio Emiliani, giornalista e scrittore colto e di di fama, attuale presidente del Comitato per la Bellezza, che nel suo ultimo libro “Romagnoli & Romagnolacci” (Minerva Edizioni) delinea cento e più ritratti di personaggi della Romagna dell’altro ieri, di ieri e di oggi che lui ha incontrato, conosciuto o anche soltanto incrociato sul suo cammino. Un mosaico vivacissimo, a volte drammatico, di vite vissute tra Ottocento e Novecento fino ai giorni nostri, dagli Appennini alle onde. (S.Gian.)

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Primo Grassi fu sindaco di Cesenatico nel 1956-57. È morto a 85 anni.

Primo Grassi è stato il manager pubblico del turismo romagnolo con la visione più lungimirante. Anche dal punto di vista dell’ambiente. Eppure era stato il sindaco (repubblicano) di Cesenatico che aveva alzato con orgoglio il suo bravo grattacielone in riva all’Adriatico davanti al vecchio e nobile Grand Hotel. Erano ancora gli anni Cinquanta, ormai alla fine, gli anni del primo ‘boom’ economico di cui anche la Romagna, all’epoca molto milanese e lombarda, si prendeva un po’ di grasso e, prima a Rimini, poi a Cesenatico e a Milano Marittima, inseriva nel paesaggio orizzontale degli arenili e delle pinete alcuni isolati grattacieli. Per fortuna rimasti senza fratelli. Anche se il cemento e l’asfalto hanno divorato altre dune, altre terre. A volontà, anche in anni recenti, di continuo.

Da direttore dell’Azienda di Cura e Soggiorno (allora si chiamavano così) Primo capì di dover imboccare e far imboccare invece la strada del rispetto, della tutela dell’ambiente già tanto cementificato, comunque del rispetto di una qualità che si stava perdendo. Primo credeva che la mano pubblica dovesse dare l’esempio, quasi dettare la linea, con i buoni esempi, ai privati. Così l’Azienda di Soggiorno diede vita a un bagno esemplare, il Bagno Marconi verso la bella colonia marittima dell’Agip (firmata dal milanese Vittoriano Viganò), progettato dall’architetto Saul Bravetti. Con ombrelloni molto più distanti tra loro dei bagni in concessione ai privati e con più servizi. Lo stesso fece con il Camping all’ingresso settentrionale di Cesenatico, ordinato, pulito, ampio come piaceva a tedeschi e olandesi (Ndr: lì veniva puntualmente l’ingegnere Johan Peter Killan, coordinatore del MOSE olandese). Lì vicino c’era una vasta area verde degradata a discarica, un bel pioppeto in riva all’Adriatico e Grassi ne patrocinò il recupero a parco difendendolo finché poté. Erano gli anni Settanta e quella politica aveva un sapore avveniristico.

Primo venne chiamato da Guido Fanti a Bologna, alla Regione appena nata. Ma era impaziente, continuava a dire che la Regione gli sembrava un grosso camion che, avviatosi troppo lentamente, in curva non riusciva proprio a superare la colonna di auto dei mille localismi. Tornò a casa deluso, andò a Rimini a dirigere l’Azienda di promozione turistica che doveva lanciare tutta la Riviera romagnola, con migliaia di alberghi e pensioni, da Casal Borsetti a Cattolica, e per alcuni anni riuscì nell’impresa titanica di presentarla unita sul mercato internazionale.

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Cesenatico (Forlì Cesena). Una delle ultime immagini di Primo Grassi, qui in compagnia di Franca Rame e Dario Fo. Sulla sinistra, il figlio di Primo, Fabio, dirigente dell’Apt Regione Emilia Romagna.

“Quando andiamo alla Fiera di Monaco di Baviera”, ripeteva scuotendo polemicamente la testa e spianando la grinta, “ci parlano di una macro-regione che loro chiamano Adria e noi invece gli parliamo di tante regioni, a spezzatino. Ma dove vogliamo andare? Dove?”. E gli occhi azzurri esprimevano rabbia e sarcasmo.

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Cesenatico. Due illustri milanesi trapiantati in riva al porto canale della città romagnola ai tempi di Primo Grassi: Tinin Mantegazza (prima disegnatore del Giorno, poi animatore del cabaret a Milano e collaboratore di Enzo Biagi in Tv) con sua moglie Velia Tumiati, tra i fondatori nel ’74 del Teatro del Buratto, poi organizzatrice di spettacoli di Ornella Vanoni e Gino Paoli e capoanimatrice in Rai ove curava la regia, tra l’altro, di 500 puntate dell’Albero azzurro, la trasmissione di punta della Rai per i ragazzi.

Aveva fatto di Cesenatico la seconda casa di tanti giornalisti amici creando una sorta di cenacolo. Lì si erano fermati il Tinìn Mantegazza, prima disegnatore del Giorno, poi animatore del cabaret a Milano e collaboratore di Enzo Biagi in Tv, e sua moglie Velia con i suoi ammirati pupazzi del Teatro del Buratto. La cittadina balneare era la seconda casa dell’erratica gente di teatro come Lina Volonghi, Carlo Cattaneo, ma soprattutto Franca e Pia Rame e Dario Fo che lì disegnava, dipingeva, inventava gag, instancabile. Stando in una campagna verso Sala, dove a me pareva che si sentisse un insopportabile olezzo di porcilaia. Cesenatico (che d’inverno contava appena 17.000 residenti) era diventata un punto di riferimento, pesino mondano con il suo Peccato Veniale sotto l’Hotel Internazionale di Giorgio Ghezzi.

Ma Primo (che si alzava all’alba e anche prima) non partecipava mai a serate e a notti fra sodali. Alle dieci o poco più scattava in piedi scandendo con voce stentorea: “Burdell, me am vegh a let”, ragazzi io vado a letto. E a letto andava, risolutamente, lasciando agli altri la notte. All’alba gli venivano delle idee o le catalizzava. Ogni anno trovavi cose nuove a Cesenatico: per esempio le antiche “conserve” nel borgo marinaro lungo il porto-canale, questi invasi di mattone di biondo cotto, dove si conservava un tempo il pesce (e in campagna la frutta) fra strati di paglia e di stecche di ghiaccio ricavato dai canali gelati d’inverno.

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L’opera dedicata da Dario Fo a Primo, amico scomparso. Titolo: “Uscire dalla normalità”.

Negli anni Settanta si era iscritto al Pci, l’ex repubblicano Primo, credendoci veramente. Invano gli dicevo: “Prendila più bassa, dai”. Aveva una visione passionale, anche se lucida, della politica. Da vivere carnalmente quasi. Un anno lo elessero in Provincia. A una delle prime riunioni vennero in discussione le nomine delle SAUB, le antenate delle USL che poi dovevano diventare le attuali ASL. Di fronte ai grigi nominativi presentati, senza discussione politica di sorta, dai burocrati di partito, Primo (che rimaneva un laico vero) ebbe in pubblico, nell’aula consiliare della Provincia, a Forlì, uno scatto dei suoi, da impulsivo senza rimedio: “Ma possibile che noi, che nei partiti, a cominciare dal nostro, abbiamo tanta gente valida, competente, al momento delle nomine pubbliche dobbiamo metterci i più ignoranti, i meno competenti solo perché sono i più fedeli?”. Un discorso accolto dal gelo dell’apparato, dei politici di professione o aspiranti tali, e che troncò una carriera politica, del resto non voluta. Poco dopo diede le dimissioni. Invece di continuare a combattere. Primo lasciò tutto, a 65 anni andò in pensione, ritirandosi da qualunque attività, anche dal turismo che pure conosceva come pochissimi in Italia, estraniandosi, andando a letto sempre più presto e alzandosi in piena notte per lunghe passeggiate solitarie, finché ha potuto.

Peccato. Perché, se la riforma regionale della sanità l’ha progettata e portata avanti un suo concittadino, abile e silenzioso, Giovanni Bissoni, in origine architetto, anche lui sindaco per un certo periodo di Cesenatico, il turismo ecologico intravisto e disegnato da Primo Grassi è stato sopraffatto dai luna-park, dagli acquafan, dai parchi tematici, dal consumo di suolo e del paesaggio, dai condomini che sloggiano gli alberghi e fanno scadere il livello professionale dell’ospitalità. Anche se ogni tanto quel sogno rispunta, a fatica, tra una crisi e l’altra.

Una volta le indicazioni stradali a Rimini erano in tedesco. Ora sono in cirillico. Forse si muteranno, chissà, in cinese. In quella che già negli anni Sessanta-Settanta un fine e colto inviato del Giorno, il parmigiano Pier Maria Paoletti, aveva chiamato “una Las Vegas per famiglie”. Primo è mancato nel 2013, a 85 anni, con gli ultimi anni funestati da un diabete micidiale. “Gli stravizi di gioventù”, ironizzava. Mi torna in mente quel suo squillante “Am veg a let, am veg a let” fatto risuonare verso le dieci e mezza anche in piena calura estiva, anche al colmo della stagione balneare. “Vado a letto, vado a letto!”, uno slogan per distinguersi dalla fauna dei nottambuli perdigiorno, o perdinotte forse.

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Vittorio Emiliani (Predappio, 1935), giornalista e scrittore, presiede il Comitato per la Bellezza. La sua ultima pubblicazione, Romagnoli & Romagnolacci, cento e più ritratti di personaggi della Romagna dell’altro ieri, di ieri e di oggi (Minerva Edizioni) segue quelle di Cronache di piombo e di passione. L’altro «Messaggero». Un giornale laico sulle rive del Tevere (1974-1987) (Donzelli, 2013) e di Belpaese Malpaese. Dai taccuini di un cronista 1959-2012 (Bononia University Press).

LO SGABELLO DEL CITTADINO

Dal Senato una picconata all’edificio della tutela dell’antico Belpaese

Vittorio Emiliani per il Comitato per la Bellezza

L‘approvazione, con la consueta blindatura del voto di fiducia, del decreto Cultura (art.12) da parte del Senato, rappresenta il primo strutturale colpo di piccone, o di ruspa, all’edificio della tutela del paesaggio. Istituire infatti commissioni regionali alle quali i Comuni potranno ricorrere contro i pareri espressi dalle Soprintendenze sui loro progetti infirma il potere giustamente monocratico delle Soprintendenze e manomette una delle pietre angolari di una tutela tecnico-scientifica ormai più che secolare dello Stato su beni collettivi come quelli paesaggistici e ambientali.

Ma il peggio deve ancora venire se Matteo Renzi continua ad attaccare le Soprintendenze: col decreto Sblocca-Italia infatti si cercherà di evitare (non so come dal punto di vista costituzionale, articolo 9) il parere vincolante degli organismi di tutela sulle Grandi Opere per lo più devastanti nel nostro Paese. Lo sapremo fra pochi giorni ormai.

In realtà le Soprintendenze ai Beni architettonici e paesaggistici denunciano carenze di personale tali da rendere già oggi lenti e difficili le loro delicate e complesse istruttorie, i loro pareri. Infatti il carico ordinario di lavoro delle Soprintendenze ai Beni architettonici è per lo più insostenibile, fin da ora: gli architetti in organico nell’intero Ministero sono infatti 480, per un territorio nazionale vincolato al 47%. Per Napoli e provincia ogni architetto dovrebbe in teoria sbrigare 888 pratiche all’anno, 4-5 per giorno lavorativo, con sopralluoghi, missioni, verifiche, ecc. Per le province di Lecce, Brindisi e Taranto ci sono 7 architetti in tutto. Ma il caso di Milano (secondo l’ex segretario generale Roberto Cecchi) è il più grottesco: oltre 79 pratiche al giorno per ogni architetto della Soprintendenza.

Un rimedio? Aumentare rapidamente gli architetti delle Soprintendenze. Troppo bello. L’appena citato decreto “Sblocca-Italia” in arrivo velocizzerà invece, con l’autocertificazione, le licenze edilizie, niente più controlli preventivi: si può immaginare a quale massacro sarà sottoposto un paesaggio già devastato in quasi tutte le regioni. E per cosa poi? Per rianimare un mercato edilizio che presenta di già centinaia di migliaia di alloggi e di uffici finiti vuoti e invenduti? Per attrarre altri milioni di turisti con un paesaggio italico di cemento e asfalto? E infine, a chi attribuiremo la colpa di nuove alluvioni, frane, colate di fango? Ai ritardi e ai vincoli delle Soprintendenze? O alla antica latitanza di adeguati piani e investimenti pubblici?

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