La Rai, a partire da lunedì 13 febbraio, ore 22,15 su Rai5, si accinge a riconsegnare agli italiani le opere e il ricordo di Dario Fo e Franca Rame con un primo ciclo di cinque puntate (su 25 nell’intero anno 2017). A Milano avanza la proposta di fare della casa Fo-Rame un museo (a Cesenatico non fa strada la proposta di intitolare il teatro alla creativa e generosa coppia di artisti, che da trent’anni avevano scelto di costruire lì il loro buen retiro). Una generosità verso questa terra romagnola da loro sempre dimostrata, tanto da devolvere il ricavato del Nobel per il progetto “Riviera senza barriere” e, nel tempo lasciato libero dai loro impegni di artisti, entrare nelle classi e incontrare la creatività dei bambini. A testimonianza di questo loro sentirsi parte della comunità, ho rintracciato una interessante intervista fatta dagli alunni della scuola elementare di Sala di Cesenatico, quando la mattina del 12 maggio 2014 Dario si presentò nella loro classe con un grande foglio, un mazzo di pennarelli e due personaggi da muovere con fantasia sulla carta: un drago a quattro zampe e un uovo: “Bambini, io comincio con questo drago, ci metto anche un grande uovo e voi continuate a disegnare e a colorare fino a quando non verrà fuori una storia”. Stabilita la confidenza, le parole scorrono facili tra il premio Nobel e i piccoli cronisti e le domande e risposte nascono spontanee. (s.g.).
Quale emozione si prova nel ricevere il Premio Nobel?
“Non si può descrivere. Io nel 1997 l’ho presa con ironia, come se fosse un gioco. Per togliermi dall’angoscia, per esempio, ho immaginato che il re di Svezia fosse finto, fosse uno di noi: fingevo di essere premiato, facevo tuti i gesti un po’ esagerati. A un certo punto mi era venuto un po’ di sonno e stavo per appoggiarmi alla spalla del mio vicino, un altro premiato, come a dire ‘fammi dormire un po’ e in quel momento i fotografi hanno scattato centinaia di immagini, quelle che poi sono finite sui giornali di tutto il mondo. Poi, quando mi hanno chiamato per ricevere il premio, sono stato attento a non inciampare, disavventura che invece è capitata proprio a un altro premiato, un professore universitario che aveva studiato in America ma che era di origine cinese”.
A distanza di tempo, ricordando quella cerimonia, che emozione le dà?
“Nessuna. Ti dirò che la dimenticanza è la mia salvezza, a differenza di alcuni che conosco e che invece non dimenticano mai di aver ricevuto un premio. Eppure il Nobel è un premio importante. Lo danno una volta all’anno. Non soltanto, ma nella mia categoria (scrittori, gente di spettacolo) quell’anno ce n’era uno solo al mondo, ci sarebbe da essere orgogliosi per la vita. Pensate, c’è uno, un solo italiano che riceve il Nobel, poi nel nostro Paese passano anche venti o trent’anni prima che un altro italiano lo riceva. Ogni tanto c’è qualcuno che mi ferma in strada: ‘Mi permette? Non mi capita tutti i giorni di stringere la mano a un Nobel’. Io mi volto attorno e dico: ‘Chi è? Ah, sono io…’. (I bambini ridono, ndr). Guai se io non facessi così. Altrimenti uno si dà delle arie e va via di testa, invece bisogna essere sempre seri: studiate, studiate, studiate e se vi capiterà di vincere un premio, siate felici, siate orgogliosi, ma non fatelo pesare mai sugli altri”.
Qual è stata, tra quelle che lei ha scritto, la sua commedia preferita?
“Mistero buffo, e spiego perché. A scuola, anche ai miei tempi, nelle superiori i professori tendono a raccontare ai ragazzi e alle ragazze che esistono due culture. Anche Dante fa questo svarione, dice che esiste una lingua superiore e una inferiore, quella del volgo vero e proprio, cioè del popolo. E questo è un gravissimo errore. Perché? Perché esiste una cultura popolare che è importantissima senza la quale non ci sarebbe stata la cultura superiore, quella diciamo degli intellettuali. Perché ogni idea viene sempre dalla più bassa cultura, quella ritenuta di poco conto. Pensate, gli inni della religione che noi sentiamo nelle grandi chiese, nelle cattedrali e che noi riconduciamo a un’origine importante, come se risalissero a Dio in persona, nascono dai canti popolari. Io ho avuto la fortuna di essere scelto nel mio paese natale, nel Varesotto, nel coro dei cantori che venivano da Milano: in primavera e in estate arrivavano e i ragazzi migliori della zona si ritrovavano inclusi nel coro, io venivo scelto perché avevo una voce particolare, cioè un contralto, vi faccio sentire più o meno che cosa significa. (intona antichissimi canti religiosi del IV secolo, ndr). Questi canti, destinati a confluire in canti raffinati, si basavano su centinaia di espressioni e di forme musicali popolari. Era musica popolare, l’intelligenza, la cultura, l’espressione, la fantasia del popolo ha fatto nascere il bel canto, e questo anche nel mondo della cultura e persino nella scienza… ma questo è un discorso troppo approfondito e spero che voi troviate dei maestri capaci di rispondere alle vostre varie curiosità su questi argomenti. Questo Mistero buffo, in forma di monologo, è nato soprattutto per dimostrare che la cultura popolare è grande, è la base di tutto, e sono riuscito a dimostrarlo in Italia ma anche all’estero, recitando nel Nord Europa, in Spagna, Inghilterra, Francia, America del nord e del sud, dovunque ho raccontato questa storia”.
Qual è stato il momento più bello della tua carriera?
“Ce ne sono stati tanti. Io e Franca abbiamo recitato più di settant’anni insieme, tante commedie, tanti spettacoli, tanta musica… abbiamo avuto questa grande soddisfazione perché nel teatro denunciamo lazzi e intrallazzi, furberie dei potenti, denunciavamo queste cose, e anche denuncio ancora oggi, io continuo a scrivere storie, commedie, romanzi, testi vari… Comunque uno dei momenti più alti è stato quando il presidente Sandro Pertini, uomo che si era battuto per la libertà, per la giustizia, per leggi giuste e per questo era stato arrestato dal fascismo, ci ha chiamati, me e Franca, perché voleva mangiare con noi. Eravamo i primi attori che andavano in giacca al Quirinale, il palazzo del presidente della Repubblica, e lui era attirato soprattutto da Franca, che era piena di fascino, spiritosa. Lui faceva domande a tutti e due e faceva anche molti complimenti a Franca tanto che a un certo punto ho detto: ‘Presidente, si ricordi che è mia moglie?’ (ridono tutti, ndr).
Eri geloso?
“No, non ero geloso. Quella volta era un gioco di affetto e di simpatia”.
Stai scrivendo una nuova commedia?
“Sì, adesso sto lavorando con la mia collaboratrice Chiara e tre ragazze che stanno cucendo vestiti perché c’è una mostra in preparazione che si chiama La figlia del papa e una commedia nuova ambientata in Danimarca che parla di due re… È una storia tragica, grottesca”.
Come mai da piccolo sognavi una carriera tanto diversa di drammaturgo, scrittore, pittore?
“Come mai tutta quella roba? C’è una ragione. Che è questa: io ho cominciato a innamorarmi della pittura quando avevo la vostra età, anzi ero più piccolo di voi, e mi piaceva tanto dipingere, disegnare, fare immagini, colorare. Li mangiavo i colori, mi sono anche avvelenato…Ho studiato fino a 14 anni nelle scuole dopo di che ho dato l’esame per la presentazione e l’accettazione al liceo artistico dell’Accademia di Belle Arti dove ci sono stato la bellezza di otto anni a studiare, però ho studiato tutto, tutto quello che esisteva nell’arte del dipingere. Ho fatto l’affresco con un grande maestro che si chiamava Funi, poi sono stato anche vicino a De Chirico, altro personaggio importante, e a tanti altri pittori maestri non soltanto a Milano, e ho imparato anatomia, geometria, letteratura, poesia ma ero più preso dalla pittura e dalla storia dell’arte. Sopra la nostra scuola c’era un museo che è uno dei più importanti d’Italia e io ero sempre lì a studiare, a copiare, poi a un certo punto ho avuto una crisi: mi son detto, io sono un pittore, so tutto sulla pittura, ma non sulle altre storie, mi capitava di leggere un libro di matematica, di geometria, le altre storie non le capivo, non arrivavo a intenderle fino in fondo, mi son detto bisogna che vada all’università così mi sono iscritto ad architettura di Milano, che era la scuola più importante d’Europa in quel ramo, e ho preso subito la materia più difficile: analisi matematica, geometria analitica e proiettiva, un esame che la metà di quelli che si presentavano non riuscivano a superarlo, io l’ho studiato un mese, non riuscivo neanche a dormire, di notte me la sognavo, quando sono andato all’università e sono riuscito ad avere 28…ero un po’ fissato, poi ho fatto altri esami, poi ho avuto una crisi terribile, ho scoperto che il mestiere che io stavo creando aveva molte chiavi di interessi e di truffalderie che non si possono neanche raccontare. Allora che cosa ho fatto? Ho smesso da quella parte, ho detto provo da un’altra parte, devo studiare la letteratura, devo studiare il teatro, devo studiare le scienze, tutto per dirvi che ho scelto di fare l’attore, ma facendo l’attore ho capito che è importante conoscere bene la storia e la dinamica dei testi e il perché sono stati scritti, che cosa c’è dietro, che cosa raccontavano, i personaggi, gli scontri, la coscienza civile, le filosofie straordinarie, ho studiato il medioevo, il rinascimento, ho continuato a studiare, studiare, un maniaco, fin quando sono arrivato a scrivere abbastanza bene e soprattutto mi sono arricchito di sapere, di conoscenza, ormai potevo parlare per ore di problemi che fino ad anni fa non mi erano conosciuti. Così da allora ripeto sempre ai miei amici, a voi che mi state ascoltando: state attenti, non basta farsi un mestiere, anche se quel mestiere è poi importante ed è quello che scegliete direttamente e che vi permette di vivere e che vi darà successo. Andate più in profondità del vostro, non vi limitate a conoscere alcuni fatti… Anche contro quello che è il vostro gusto, andate a verificare, non fermatevi mai a un’idea che vi sottopongono, cercate anche il contrario, un grande scienziato dell’Ottocento dice che conoscere qualcosa non è sufficiente, bisogna anche avere il dubbio che sia vera quella cosa che tu hai imparato, verificala, verificala sempre, studia su altri testi se quella è la verità o la bugia., questo dovete fare anche voi”.
Come mai hai scelto di venire a vivere a Sala di Cesenatico, fuori dalla grande città di Milano?
“Sono venuto a Cesenatico con tutta la mia famiglia perché a Milano facevano troppo fracasso, mi son detto che avevo bisogno di tranquillità, di meno fracasso per lavorare, e sono venuto qui trent’anni fa. Allora Cesenatico era un paese tranquillo, senza rumori, senza fracassi, purtroppo negli ultimi anni i rumori sono aumentati, ma nessuno ormai ci fa caso… A ogni modo sto bene, lavoro con serenità, è un posto dove mi ritrovo con ragazzi e ragazze che lavorano con me e questa collaborazione mi fa crescere sempre”.
A PROPOSITO/ IL RICORDO DEL SUO AMICO PITTORE DI CESENATICO, BERICO
Vedendo le mie rose dipinte,
Dario mi iniettò il virus dell’arte
Caro Salvatore,
lo scorso mese di ottobre ho perso nel giro di pochi giorni due figure per me molto importanti, mio padre e Dario. Per il primo, ho provato il dolore forte di chi perde la figura maschile più rappresentativa, quello che si è sacrificato col lavoro di una vita per assicurare un futuro ai figli, colui che mi ha trasmesso il senso del dovere e, a modo suo, ha cercato di darmi un orientamento per il futuro che io “naturalmente” ho modellato per le mie esigenze. Il secondo, invece, è entrato nella mia vita molto tardi, nel 2008, in occasione della mia mostra Le tende al mare, una rassegna da lui inventata qualche anno prima a Cesenatico, anche se io lo avevo già conosciuto molti anni addietro perché frequentava la trattoria dei miei genitori sul porto canale di Cesenatico dove aiutavo come tanti minorenni che a quei tempi contribuivano a rendere possibile il boom economico delle famiglie italiane. Durante le pause dal lavoro mi ero dedicato a dipingere su tavole di compensato con dei colori a olio che qualcuno mi aveva regalato e fu proprio in uno di quei pomeriggi che Dario Fo venne per prenotare per la sera e, vedendo le rose che avevo dipinto, mi chiese se gliele vendevo perché voleva regalarle a Franca. Così nacque la mia passione per l’arte, tanto che molti anni dopo decisi di mettere a frutto il mio talento, con discreto successo, il che mi ha permesso di vivere discretamente per lungo tempo di pittura.
Dal 2008 in poi, tutte le volte che Dario veniva per passare l’estate nella sua casa di Sala, sempre mi telefonava e prima saltuariamente e poi sempre più spesso andavo a trovarlo mentre lavorava, qualche volta mi destreggiavo in cucina per preparare la cena a base di pesce che poi consumavamo parlando di Cesenatico e della sua gente. Naturalmente è ovvio che io mi sentissi onorato di questa amicizia, i primi tempi provavo una naturale soggezione nel trovarmi a tu per tu con un uomo così importante, un premio Nobel, poi col tempo lui ha fatto sì che io mi sentissi sempre più a mio agio tanto da permettermi di ascoltare anche alcune sue gustose confidenze.
L’ultimo anno, l’estate 2016, è stata fantastico, abbiamo lavorato insieme tutti i giorni per la sua mostra su Darwin (“Ma siamo scimmie da parte di padre o di madre?”). Era instancabile, credo che, essendo novantenne, sapesse di avere poco tempo e voleva lasciare il lavoro perfetto come si addice a un grande artista. Poi, quando tornò a Milano, mi telefonò per chiedermi di andare a vedere la sede di Biella dove si sarebbe trasferita la mostra una volta finita a Cesenatico. Ho dormito a casa sua e la notte ho capito che era alla fine, stava male, non lo avevo mai visto così debilitato. Qualche giorno dopo è morto, al suo funerale sotto una pioggia forte che ti bagnava anche sotto l’ombrello c’era moltissima gente a salutarlo tranne le alte cariche dello Stato, segno che non gli hanno ancora perdonato i suoi lazzi e sberleffi.
Per concludere, ho realizzato in suo ricordo un tridimensionale a colori che racconta un momento dello Johan Padan*, la doma dei cavalli da parte dei nativi americani, ti ho allegato le foto, l’ho fatto mosso, ancora, dall’entusiasmo che Dario mi ha lasciato in eredità. Ciao
Enrico Bartolini, in arte Berico
* Con Johan Padan, l’ultima estate in Veneto
L’estate scorsa, 2016, giovani artisti hanno operato nella splendida cornice di Villa Marignana Benetton in un corso di pittura sotto la direzione di Enrico “Berico” Bartolini e con la partecipazione di Dario Fo. I giovani, di età compresa fra i 14 e i 30 anni, provenivano in gran parte dal liceo “Marco Polo” di Venezia, ma anche dall’Accademia di Venezia e tutti avevano risposto all’appello del Premio Nobel realizzando trenta tele sul tema “Johan Padan a la descoverta de le Americhe” cioè alla storia di un marinaio di ciurma che racconta la sua avventura nel Nuovo Mondo, non nelle vesti di conquistatore, ma di conquistato, cioè prigioniero degli indios. Dario Fo le ha rifinite e sono state poi esposte al Museo Archeologico Nazionale di Quarto d’Altino. Il ricavato della mostra e della vendita dei gadget è stato devoluto alla Fondazione Il Nobel per i disabili Onlus. Questi i nomi degli artisti selezionati per l’iniziativa Johan:
- Ronchin Francesca,
- Salvatori Tobia,
- Gardin Sibilla,
- Perissinotto Alessia,
- Pavan Jessica,
- Biancotto Camilla,
- Turri Giorgia,
- Ozochinze Andrea,
- Codato Caterina,
- Rigutto Giulia,
- Cescon Carlotta,
- Setti Valentina,
- Nappi Fabio,
- Benvegnù Nicola,
- Campello Marco,
- Zamberlan Nicola,
- Michetti Davide,
- Koch Alexander,
- Cristofoli Elena,
- Gasparini Cristina.
BERICO E LA DOMA DEI CAVALLI
DI JOHAN PADAN