Caro Tonino, il venerabile,
anche tu, a distanza di appena due mesi da Federico Fellini, festeggi il tuo Centenario. Quando otto anni fa te ne sei andato, in una età appunto veneranda, parve a tutti noi poco verosimile, come se da un momento all’altro fossero spariti i mandorli dal giardino di Pennabilli che, all’inizio di ogni primavera, sommergevano la tua casa in una nuvola di petali bianchi.
Ci avevi abituato, un po’ per volta, a considerarti eterno, indistruttibile, come l’uomo delle favole che appare quando lo evochi. Tu stesso hai contributo con astuzia e sapienza a costruire questa leggenda, scegliendo per la tua lunga e felice vecchiaia una cornice da presepio, una residenza in cima a un cucuzzolo, in bilico tra Marche e Romagna, dove bisognava arrampicarsi per raggiungere il saggio della montagna. Con un tocco esotico, una pennellata di intenso colore simile alle tue figurine naif, ti sei messo accanto una moglie russa, Lora, che soltanto per un cambio di vocale non è la Lara del dottor Zivago; la vostra storia d’amore non essendo meno romantica, iniziata per un incontro casuale al Festival di Mosca in occasione della presentazione di Professione Reporter di Michelangelo Antonioni.
Qualche tempo dopo ti eri ammalato: un tumore benigno al cervello, che premeva sotto la scatola cranica, ti aveva fatto girovagare senza più memoria per le strade della Capitale. S’erano messi di mezzo Fellini e Giovanni Berlinguer, eri stato trasferito in Russia in tutta fretta a bordo di un Tupolev e consegnato nelle mani di Alexander Konovalov, il più grande neurochirurgo del mondo.
Eri stato operato in tempo, salvato, e restituito alla vita per molti decenni. Un miracolo! Tu che ostentavi di essere una coscienza laica, non dico materialista ma quantomeno poco incline alla credulità delle comari, dopo quel brutto inciampo ti eri attrezzato con la minuscola icona di San Serafim**, un santo minore sul tipo di quel San Gancillo di Dino Buzzati, disoccupato perché i devoti si erano dimenticati di lui a non gli rivolgevano più le suppliche. A San Serafim avevi affidato i tuoi giorni:
(su San Serafim, vedere testo a seguire, Ndr).
L’umile Eletto, contadino sorridente, vegliava dal comodino; era l’amico buono dell’Aldilà, che al momento opportuno sarebbe venuto a raccogliere la tua anima e a guidarla lungo i sentieri celesti.
Dal tuo eremo di Pennabilli, dopo aver lasciato Roma e rinunciato a rientrare stabilmente a Sant’Arcangelo, hai distribuito poesia a profusione, con gesti ampi, da provvido seminatore. Non soltanto quale autore di versi indimenticabili, che non hai mai smesso di costruire, giungendo perfino a riscrivere da capo l’Odissea, una bella sfida!, ma donando sostanza poetica alle invisibili molecole dell’intera valle, all’aria, ai sassi, agli alberi, ai corsi d’acqua.
Avevi provato a convincere la gente che la poesia non è soltanto quella che si legge nei libri, ma è la misura del nostro sguardo, la rivelazione del creato, e il suo rispetto. Anzi, senza la poesia, il mondo non esisterebbe affatto, perché è il Verbo, come affermano le scritture, che “in principio” crea esseri e oggetti donando loro un nome. Così, senza parere, ci avevi insegnato a utilizzare la poesia anche come un lenimento, una profilassi contro la bruttura che ci circonda. Ponendo in cima alle prescrizioni terapeutiche il vaccino della memoria. E avevi recuperato “il giardino dei frutti perduti”, un orto di rari alberi da frutta scomparsi ormai dalle campagne, e quindi dalla vista e dal gusto degli uomini. La tua idea aveva conosciuto un divampante successo; venivano da tutta Italia a visitare il giardino incantato, scoprendo che la cancellazione dei frutti stava ad annunciare una sciagura non dissimile dalle pagine strappate via a un dizionario. Vale a dire un’umanità a rischio di ripiombare allo stadio primordiale, quando era impossibile esprimersi a causa della mancanza di parole, nessuno sapendo in che modo chiamare l’amore, i fiori, i colori, il sole e la luna. Sarebbe ritornato il buio della mente, uno spettro spaventoso, da contrastare a ogni costo, con ogni mezzo, senza mai stancarsi di intrecciare con dita leggerissime visioni, suoni, parole, e voci del passato.
Questo era il messaggio che la tua poesia riversava nella Valmarecchia, a onde circolari che si propagavano rapidamente fino agli ultimi confini del Paese. Era indispensabile imparare da capo a guardare il mondo attorno a noi con diversa attenzione e carità, con altro rispetto, respingendo ogni abuso, ogni stupro insensato. A difesa non soltanto del paesaggio, ma delle acque, dei sassi dei fiumi, del vento, dell’opera dell’uomo quando essa era ancora in armonia con l’ambiente, e non lo deturpava con forme e materiali molesti e stridenti. Grazie a te la convinzione che fosse possibile salvare il creato iniziando con il preservarne la bellezza, in tutte le possibili variazioni, è diventata per molti il contrafforte di una resistenza pacifica e tenace, la trincea da contrapporre all’invasione della nuova barbarie.
Tonino, tu eri il guru di questo movimento non proclamato, spontaneo, e pertanto ideale per espandersi a piacimento, incontrastabile. Le tue proposte volavano nell’etere, sulla bocca di tutti, sempre controcorrente. Al posto dei treni a grande velocità vagheggiavi le corriere del silenzio, tradotte lentissime che risalissero la costa romagnola spiaggia dopo spiaggia, restituendo ai suoi passeggeri quel sentimento di gioia confusa, indecifrabile, che si provava da bambini, d’estate, quando venivamo condotti al mare. Immaginavi scompartimenti allegri, ricolmi di figure, di poesie, di piccole opere d’arte che destassero la curiosità di chi viaggiava, raddoppiando il piacere degli occhi già stupefatti dallo spettacolo naturale che scorreva oltre i finestrini. Da venerabile poeta ogni giorno partorivi un’idea nuova, quasi sempre sottilmente inebriante come un elisir, rivolta al recupero sistematico di una vita migliore di quella a cui ci stavamo malinconicamente rassegnando.
Avevi lanciato per esempio il progetto più estroso e originale per celebrare degnamente il tuo amico Federico: affidare ogni anno la commemorazione a un grande regista di una nazione straniera, la Spagna, la Francia, gli Stati Uniti, il Brasile, l’India, il Giappone; recuperare in quel modo anche tutte le testimonianze che nel tempo si erano sedimentate in ogni contrada della Terra. Una strategia per ricollocare l’Italia, e Rimini, al centro del mondo, sulle ali dell’artista più esaltante della nostra epoca.
Inseguivi l’armonia perduta e contagiavi affettuosamente chi veniva a trovarti, o già ti frequentava. Il film di Fellini Prova d’orchestra a cui avevi collaborato in silenzio, era appunto il sogno premonitore sul disastro in attesa, se ogni orchestrale pretendeva di suonare per proprio conto, senza più accordare gli strumenti al gesto e alla bacchetta di un direttore in piedi sul podio. E la gigantesca sfera di acciaio che nel momento del massimo furore iconoclasta dei professori d’orchestra si abbatte sulla parete dell’oratorio secentesco riducendolo a un ammasso di polvere e macerie, era stata, dicevi, una tua intuizione. Però me lo confidavi abbassando la voce, con il bisbiglio di un’antifona, promettendo di mostrarmi un disegnino, un piccolo appunto, che avevi a suo tempo inviato a Federico.
Come le sorgenti del Nilo anche le fonti della poesia sono spesso ignote, sfuggenti, irraggiungibili, al punto che nessuno ne avverte subito i benefici effetti: eppure negli di piombo più bui quel film miracoloso aveva saputo donare al pubblico un trasalimento di dignità, una presa di coscienza. Così come sei anni prima Amarcord, l’opera dell’identità e della memoria, la più dolce che hai scritto con Federico, aveva fatto conoscere in tutto il mondo la tragicomica sciagura del fascismo. Un film da Premio Oscar.
Ripetevi nelle riunioni pubbliche; proponendo, inascoltato, le tue vellutate, risananti utopie. Per esempio che la domenica mattina nella tua Sant’Arcangelo venisse diffusa musica classica dal balcone del Comune, e una formazione di strumentisti virtuosi eseguissero i temi immortali di un repertorio sublime per deliziare il passeggio delle famiglie, accarezzarne lo spirito, le orecchie e l’esistenza.
Al centro del tuo universo poetico era ormai sbocciata una predicazione laica e francescana insieme, in grado di trasmettere universalmente la religione dell’esistenza. Per questo “La bellezza che salverà il mondo”, in cui credeva il principe Miškin de L’idiota di Dostoevskij, era diventato anche il tuo orizzonte.
Sono andato in questi giorni del Centenario a recuperare un piccolo regalo, un libretto senza nome che mi avevi consegnato non so quanti anni prima: poche pagine di dieci centimetri per dieci, scritte a mano e trattenute con uno spago; contiene brevissimi versi, lampeggianti, su ogni mese dell’anno. Marzo è ricordato così:
Marzo è il tuo mese Tonino, della tua nascita e della tua scomparsa; e per nostra fortuna le api affamate dei tuoi fiori comporranno intorno al tuo nome uno sciame sempre più folto e fatato.
Non so se l’Italia afflitta dal virus sconosciuto, un morbo misterioso che sembra rievocare le piaghe d’Egitto, trovi la forza di scuotersi e di ricordarti quanto meriti. Forse non subito, ma vedrai, l’estate che già si annuncia ospiterà feste in tuo onore in ogni borgo della Valmarecchia, e allora risuoneranno i tuoi versi e l’Italia sarà ancora quella che tu hai amato tanto intensamente.
A PROPOSITO
Quando Lora affidò
a san Serafim
la vita di Tonino
Era l’11 aprile 1984 e Tonino entrava nella sala operatoria dell’ospedale Burdenko a Mosca per essere operato di un tumore cerebrale benigno (la diagnosi per i più pignoli: angioreticuloma). Sotto il cuscino del suo letto la moglie Lora aveva depositato l’icona del monaco santo russo, Serafino di Sarov, in russo Serafim, al secolo Próchor Isídorovič Mošnín (Kursk, 1759 – Sarov, 1833). Glorificato dalla Chiesa ortodossa russa nel 1903, è ricordato il 1º agosto e il 15 gennaio, date della sua nascita e della sua morte. Il suo “figlio spirituale”, Nikolaj Aleksandrovič Motovilov, riportò un dialogo spirituale riguardante il fine della vita cristiana, che è uno dei testi più importanti della spiritualità russa.
La curiosità per la spiritualità e le favole e l’esito positivo dell’intervento suscitarono in Tonino la voglia di saperne di più. E Lora prese a raccontargli questa storia, un racconto che rafforzò (e che ringraziamo per avercelo voluto rievocare in questa occasione), portando Tonino due mesi dopo nei luoghi dove s’era svolta l’esperienza terrena del monaco santo.
Serafino trascorse la sua infanzia nella casa paterna, a Kursk, accudito dai genitori Isidor e Agafia. Nonostante il padre fosse un mercante, Serafino non amava gli affari, ma passava il suo tempo in preghiera. La sua famiglia era molto religiosa tanto che il padre finanziò la costruzione di una cattedrale a Kursk. I russi raccontano che Serafino, caduto a sette anni da un’impalcatura della cattedrale, fu salvato grazie all’aiuto della Madonna. Pochi anni più tardi, ammalatosi gravemente, fu guarito da un’icona raffigurante la Vergine Maria e dotato da allora della capacità di vedere gli Angeli.
Nel 1777, all’età di 19 anni, entrò nel monastero di Sarov come novizio. Nel 1786 prese i voti monastici e cambiò il suo nome in Serafino, che deriva dall’ebraico Seraph, latinizzato in Seraphinus, che significa “essere che arde”, “che fiammeggia”, “che splende”. Poco dopo ricevette anche gli ordini sacri di ierodiacono e ieromonaco (monaco consacrato sacerdote), diventando nel 1793 il referente spirituale del convento femminile di Diveyevo. Più tardi decise di ritirarsi a vita contemplativa in una capanna di legno all’interno del bosco di Sarov, vivendo come eremita per 15 anni. Per l’attenzione che prodigava verso gli animali che vivevano nel bosco, questi non avevano alcun timore di avvicinarsi a lui. Leggenda vuole che un orso si fosse affezionato al santo tanto da prendere il miele dalle sue mani e da obbedire a ogni suo volere.
Nel 1807 morì il suo maestro spirituale, l’abate Isaia. Serafino passò tre anni senza parlare con nessuno, trascorrendo molte notti vegliando, in preghiera, con le braccia alzate verso il cielo. Diventato ormai vecchio e incapace di recarsi in chiesa per la funzione domenicale, nel 1810 decise di interrompere il proprio voto di silenzio e di tornare nel monastero di Sarov, rinchiudendosi in una cella da cui non si allontanava mai neppure per i pasti e per la comunione, che erano a lui portati dagli altri monaci.
Nel 1815 iniziò a permettere ai fedeli di fargli visita e di accostarsi a lui per il sacramento della confessione, ma senza rompere il silenzio, anche con i visitatori più importanti. Nel 1825 iniziò a offrire la sua esperienza ai monaci e ai laici. Ogni giorno, centinaia di pellegrini: il santo monaco li ascoltava tutti, offrendo loro consigli per l’avvenire.
Il giorno di capodanno del 1833 Serafino ricevette la comunione e salutò tutti i fratelli presenti. Nella serata lo si sentì cantare dei cantici di Pasqua. Il mattino seguente fu trovato inginocchiato davanti all’icona della Vergine detta “la gioia di tutte le gioie” con le mani incrociate sul petto e gli occhi chiusi. Un cero caduto fece fumare la stoffa. Era il segno predetto dal santo: la sua morte sarebbe stata annunciata da un incendio. Un eremita scorse una luce folgorante nel cielo e disse:
Da “Tonino Guerra 100: stop agli eventi ma non ai ricordi”:
- Edoardo Turci e l’infanzia del poeta. Uno storico locale di Sant’Angelo di Gatteo (da dove proveniva la madre di Tonino) rievoca i primi anni della grande firma del cinema in coincidenza con il centenario della sua nascita. È il primo dei contributi che leggerete su Giannella Channel. A seguire: un testo ritrovato di Sepulveda, al quale auguriamo una completa guarigione
- La scintilla poetica scoccata nel lager. La prigionia in Germania vede Tonino farsi Omero per i suoi compagni di sventura che con lui condividono il dialetto romagnolo. Per fortuna un medico ravennate, Gioacchino Strocchi, scriverà un diario dettagliato di quei giorni insieme, annotando i testi poetici che Antonio crea e recita ai compagni. Al ritorno in Romagna quei testi diventano un libro e la poesia resta in lui un nutrimento per l’anima
- Il giorno che disse grazie, dopo 66 anni, a un angelo di Verona. Nella Giornata della poesia, dieci anni fa, fui testimone di una storia degna di un film di Tonino e Fellini. Dalle fila di un teatro veronese si concretizzò a sorpresa la figura di una pasticcera che, a suo rischio, aveva portato dolciumi e sapone a Tonino prigioniero dei nazifascisti in quella città veneta, in attesa di essere trasferito via treno nel lager
- Il giorno in cui mi presentò Eliseo, il Socrate della Valmarecchia. Un noto fotoreporter accompagna il cantore della valle all’incontro con il saggio curatore di un orto. E le ore si riempirono di poesia e di ironia in questa quarta puntata del viaggio per il centenario di Tonino Guerra (testo e foto di Vittorio Giannella per Giannella Channel)
- Il giorno in cui accese il fuoco del teatro alle porte di Milano. Il fondatore e direttore di Emisfero Destro Teatro risponde al nostro appello rievocando il festival e l’incontro a Cassina de’ Pecchi che illuminò il futuro artistico suo e di tanti altri giovani di quel borgo lombardo
- Il giorno in cui donò, a me regista, la neve sul fuoco. Marco Tullio Giordana doveva girare, nel film “La domenica specialmente”, l’episodio più poetico, tra fascino della sensualità e tristezza della solitudine. Ma quel titolo era appesantito da un mattone. Un viaggio a Pennabilli e da Tonino nasce un’idea e un incontro con due donne straordinarie: Maddalena Fellini, sorella di Federico il Grande, e per il provino, Monica Bellucci
- Il giorno in cui mi ricordò che un paese ci vuole. Valentina Galli si stava laureando a Bologna e la tentazione di restare in città era forte. Ma l’incontro con Tonino le fece cambiare idea e ora insegna nella sua Valmarecchia
- Il giorno in cui il poeta si mise a dare i numeri. Il direttore del Museo del calcolo Renzo Baldoni rievoca l’inaugurazione delle stanze dedicate al far di conto. Con un rammarico: non aver potuto dirgli che le zone del cervello stimolate da un poeta o da un matematico, sono le stesse
- Il giorno in cui insegnò a noi tedeschi come rendere poetico il paesaggio. Roland Guenter, storico dell’arte da Eisenheim, racconta i festeggiamenti virtuali per il centenario nel parco creato sul Reno nel nome di Tonino e rievoca le lezioni di architettura poetica ricevute da lui e da altri studenti a Pennabilli, decisive per dare alla Ruhr un volto seducente per i turisti culturali
- Il giorno in cui mi parlò di Serafim, il santo che dava miele agli orsi. A Gianfranco Angelucci, scrittore e sceneggiatore amico di Fellini, il centenario del poeta del cinema che stiamo festeggiando sul blog, ispira un emozionante video e una lettera aperta a Tonino, con una inedita rivelazione spirituale
- Il giorno in cui mi regalò la sua gigantesca anima. Enrica, moglie di Michelangelo Antonioni, rievoca il primo e l’ultimo giorno in cui, tra rumori sapori e ricordi, incontrò il poeta del cinema
- Il giorno in cui giocò con la mia Gatta Danzante. Il pittore bolognese dei giardini Antonio Saliola, con rifugio creativo nella Valmarecchia, rievoca la favola di un pomeriggio in cui, sotto i suoi occhi stupiti, il suo felino fece le fusa al poeta del cinema, volteggiando come non mai. A seguire, un singolare documento: i pizzini di Tonino a Lora, sua signora, sulla legione di gatti in casa
- Il giorno in cui capii come nacque l’urlo in Amarcord “Voglio una donna!”. Uno storico romagnolo, Davide Bagnaresi, rievoca un incontro con Tonino Guerra in piazza a Bologna sui retroscena del film da Oscar e svela il ritaglio di cronaca che diede vita alla scena con Ciccio Ingrassia. A seguire, i consigli di Tonino per i bravi sceneggiatori
- Il giorno in cui assistetti all’incontro tra due grandi italiani: Tonino Guerra ed Enzo Biagi. Rita Giannini, biografa del poeta del cinema, rievoca l’inedito faccia a faccia nello studio in Galleria, a Milano, del popolare giornalista: due emiliani romagnoli, nati entrambi nel 1920, emozionati e liberi di raccontarsi a ruota libera
- Il giorno in cui fece cadere la pioggia sulla riviera bollente. Un grande giornalista romagnolo, Giancarlo Mazzuca, rievoca l’incontro a Cervia con il poeta solare fino al midollo che sapeva anche essere l’uomo della pioggia. A seguire: il regalo iridato di Tonino al fotoreporter Daniele Pellegrini
- Il giorno in cui conquistò il cuore di medici e infermieri. Il noto pediatra Italo Farnetani rievoca le parole con cui Tonino Guerra commosse 1.200 congressisti a Rimini, richiamando da poeta del cinema l’insegnamento di Ippocrate
- Il giorno in cui Sergio Zavoli lo salutò con parole eterne. Del grande giornalista appena scomparso ricordiamo lo speciale addio che diede a Tonino una primavera del 2012 a Santarcangelo
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(via mail)
Buongiorno Salvatore,
ho guardato con gioia il servizio che hai composto con quella tua naturale disposizione al giornalismo narrativo che ti ha fatto raggiungere la posizione che detieni con tanta autorità nella comunicazione. Sono io che ti ringrazio per poter tributare questo messaggio affettuoso a Tonino con cui avevo un rapporto affettuoso e semplice, tra cinematografari, nella quale la differenza di età quasi non contava. Il cinema non conta gli anni. Forse, anzi sicuramente, perché eravamo vissuti dentro la nuvola di Federico, ma anche per una forma di affinità che non saprei descriverti ma di cui lui mi diede una volta un segno indimenticabile.
Complimenti per il tuo lavoro da artista della pagina, stampata o virtuale non fa differenza. Un forte abbraccio.