CASSINA DE’ PECCHI (MILANO)

Mette in moto l’energia creativa dei giovani artisti la visita al MAIO (Museo dell’arte in ostaggio e delle grafiche visionarie), il piccolo ma suggestivo museo sorto nel maggio del 2015 in un torrione seicentesco alle porte di Milano, in via Trieste 3. Nel giro dell’ultimo mese la “sala della memoria” da dove pendono i titoli delle 1.653 opere italiane trafugate durante la seconda guerra mondiale quasi interamente dai nazisti, ha ospitato mostre nate dall’incontro di artisti con la realtà dell’arte ancora “prigioniera di guerra”. Quella ancora in corso (chiude venerdì 24 maggio) ha per titolo Transcription. Copia in movimento, mostra collettiva a cura di Milena Zanetti che vede coinvolti gli artisti dell’Accademia di Brera Haidong Bai, Marta Di Donna, Carlotta Mazzi, Francesca Mussi, Vincenzo Luca Picone, Melisa Pirez, Gianluca Tramonti, Vincenzo Zancana) diamo qui di seguito l’interessante presentazione. Segue il testo dell’artista Mauro de Carli che ha donato un’opera al MAIO e che ci spiega la “genesi” del suo dipinto nato dalla visita al Museo. (s.g.)

Cassina de' Pecchi (Milano). Gli artisti della mostra "Transcription. Copia in movimento" all'ingresso del MAiO. In alto al centro, l'ideatore del museo, Salvatore Giannella.

Cassina de’ Pecchi (Milano). Gli artisti della mostra “Transcription. Copia in movimento” all’ingresso del MAiO. In alto al centro, l’ideatore del museo, Salvatore Giannella.

Tra arte e giochi. Il progetto espositivo Transcription. Copia in movimento nasce come riflessione attorno al museo stesso in cui è ospitato e alle strategie da esso adottate da esso. Il MAiO ha come scopo quello di recuperare le numerosissime opere d’arte trafugate quasi interamente dai nazisti durante la seconda guerra mondiale e di farle circolare sotto forma digitale. Il pubblico ha la possibilità di riscoprire le opere in maniera totalmente innovativa attraverso due giochi in realtà aumentata situati all’ultimo piano dello stabile.

Gli artisti in mostra indagano attorno al significato del termine ostaggio nella sua complessità. Una complessità dovuta dal significato eterogeneo del termine stesso. Esso deriva infatti dal tardo latino hospitaticum, che vuol dire “ospite”, significato diametralmente opposto al senso che ne attribuiamo oggi. Partendo dalla volontà del MAiO di creare un sistema digitale e virtuale di fruizione e riflettendo sulla dicotomia del termine “ostaggio”, gli artisti indagano l’effettiva liberazione delle immagini nel digitale. Quanto gli archivi digitali danno nuova visibilità alle immagini? La digitalizzazione dell’arte amplifica le possibilità di fruizione oppure quest’ultima ricade ostaggio di un sistema meno trasparente di quello che si pensi?

La nascita di Internet ha permesso alle immagini di essere riprodotte infinite volte, modificate, classificate e raccolte in diversi contesti e diverse piattaforme; non sempre però con risultati esclusivamente positivi. Con l’aumento delle microtecnologie della riproduzione e della comunicazione è dunque aumentata la loro fruibilità, di qualsiasi genere essa sia. L’archiviazione digitale ha sì amplificato l’accessibilità del materiale storico-culturale, ma l’astrazione di questo è soggetta a rischi di diverso genere. La trasformazione da materiale palpabile a materiale digitale non permette talvolta al suo pubblico una ricostruzione storica esaustiva e corretta, in quanto non sempre vi è dietro un progetto artistico-culturale all’altezza del materiale stesso. La copia digitale rimane dunque materiale vulnerabile, il suo utilizzo e la sua visibilità sono dipendenti dalla rete e dall’impiego di quest’ultima.

L’immagine digitale creata per la tecnologia dell’informazione è libera di circolare all’interno della rete, ma lungo il percorso pezzi di senso e contenuto spesso vengono smarriti. L’immagine digitale è una copia in movimento, ma è una copia che ha perso il suo originale, il suo riferimento al reale. In altri termini, l’immagine digitale ci riduce a non vivere la realtà, ma un suo momento spostato.

La qualità viene sostituita dall’accessibilità e il valore culturale dal valore espositivo. Nell’era della condivisione di file i contenuti sono marginalizzati e l’immagine sprofonda nell’incertezza del digitale a scapito della propria sostanza.

La dubbia collocazione delle 1.653 opere trafugate dal totalitarismo nazista e la loro disponibilità esclusivamente come copia digitale in rete, ha portato gli artisti ad analizzare i sistemi di archiviazione nell’ambiente informatico e gli effetti che questi hanno sulla divulgazione e la comprensione delle informazioni. Le opere inedite realizzate per la mostra interrogano il loro pubblico sull’effettiva liberazione delle immagini e sulle possibilità di fruizione all’epoca della riproduzione e della comunicazione.

bussola-punto-fine-articolo


Fotogallery

Otto opere moderne nate da un luogo della memoria

Gli esemplari esposti al MAiO, i titoli, gli artisti e i loro siti web

"Alterazione / Dissoluzione" di Carlotta Mazzi

Alterazione / Dissoluzione, di Carlotta Mazzi. Web: mazzicarlotta.wordpress.com

"An Errant Idea" di Francesca Mussi

An Errant Idea, di Francesca Mussi. Web: francescamussi.com

"Già fluttui nell’oblio collettivo", di Gianluca Tramonti

Già fluttui nell’oblio collettivo, di Gianluca Tramonti. Web: tramontigianluca.wordpress.com

"Time – sharing", di Vincenzo Zancana

Time – sharing, di Vincenzo Zancana. Web: vinzancana.wixsite.com/viza

"/trans_formare", di Marta Di Donna

/trans_formare, di Marta Di Donna. Web: neroinchiostro.com

"Do I exist?", di Haidong Bai

Do I exist?, di Haidong Bai. Web: facebook.com/hydon.bai

"Argonia", di Vincenzo Luca Picone

Argonia, di Vincenzo Luca Picone. Web: lapermanente.it/socio/picone-luca

"Tapiceria", di Melisa Pirez

Tapiceria, di Melisa Pirez. Web: melisapirez.com

ANCORA UN MOMENTO, PREGO/ Come nasce il dittico donato al MAiO

Per il Fauno fu amore a prima vista

testo dell’artista Mauro de Carli* per Giannella Channel

Mauro De Carli davanti all'opera donata

La prima intenzione riguardo la creazione di un’opera mirata all’interno della sala ospitante la permanente del MAiO fu di creare delle tele dal formato oblungo, non costrette da telaio, che si relazionassero con i banner elencanti le opere trafugate in Italia dai nazisti. Avevo dunque pensato a un intervento scegliendo quattro opere trafugate tra quelle con cui, da subito, avessi stabilito quella relazione privilegiata “d’amorosi intenti” che spesso avviene al primo contatto tra spettatore e opera, realizzando una tela in connessione a ciascuna di esse, tentando di capire ed estendere i motivi di questa “attrazione”, per poi allestirle sulle pareti laterali della sala.

La prima opera da cui decisi di prendere l’avvio fu il Fauno di Michelangelo, “colpo di fulmine” immediato, opera che si può, tra l’altro, individuare come simbolo del Museo, interpretandolo nella sua valenza di opera che vive doppiamente nella memoria.

Il primo “velo di Mnemosine” che consegna l’opera al territorio dell’immaginifico è generato in quanto la prima opera marmorea di Michelangelo è opus leggendario che sfuma nel territorio dove i fatti si mescolano alle narrazioni arrivando ai confini della costruzione mitica che individua nel Maestro di Caprese le stimmate della predestinazione e del genio già in età fanciullesca e colloca il Fauno come scultura simile “all’oggetto magico” della Fiaba, che apre le porte al giovane Michelangelo alla relazione esclusiva con il Magnifico e l’ambiente intellettuale di Firenze…

Se leggenda vuole che il volto grottesco del Fauno colpisse il De’ Medici durante la leggendaria promenade attraverso il Giardino di San Marco, così il riso sguaiato del vecchio satiro mi colpisce attraverso l’oblìo dei secoli da dove il suo sorriso di scherno sembra risuonare ininterrotto, attraversando tempo e spazio.

Cassina de' Pecchi (Milano). L'opera donata dall'artista Mauro de Carli al MAiO che l'ha ispirata.

Cassina de’ Pecchi (Milano). L’opera donata dall’artista Mauro de Carli al MAiO che l’ha ispirata.

Se si può leggere il Fauno collegandolo biograficamente alla giovane età del Buonarroti come opera d’esuberanza tecnico-stilistica tipica di un giovane artista pieno di energie e impaziente di mostrare il proprio estro, in realtà in me il Fauno fa risuonare attraverso il riso, così ben connotato, “l’eterno grottesco” che accompagna la nostra natura umana così fragile e in balia delle forze della Natura…

Entrare in un’opera di Michelangelo significa entrare in un territorio talmente esteso da consegnarsi a un’esperienza di attraversamento e stasi in spazi nuovi e inesplorati che declinano l’abituale scorrere vitale in un’esperienza sublimata che ha a che fare con la crescita dell’anima.

Da qui la consapevolezza quasi istantanea che affrontare un lavoro sull’opera di Michelangelo significasse andare a trovare la vena più ricca per raccontare la vita nascosta nei secoli delle opere d’arte, che baluginano disponibili nello spazio immaginifico, come stelle atte a guidarci nel navigare scostante, nell’immenso liquido in cui oggi siamo naufraghi e naviganti.

L’idea dunque diventò la realizzazione di un dittico da porsi in posizione centrale che rappresentasse l’esplosione e l’indagine di questa attrazione verso il Fauno, raccogliendo la sua Natura di seme che lo stato di latenza nello spazio dell’immaginario dell’opera d’arte ha reso attraverso i secoli così fecondo.

La domanda molto semplice da cui partii fu, quindi, come fosse possibile che anche in Michelangelo, il “Maestro Magnifico”, seppur giovane, colui che solo un decennio dopo scolpì la Pietà Vaticana vicino a un’estasi di umana perfezione, albergasse così forte il senso del grottesco.

Il Fauno è un’opera già di una consapevolezza espressiva assolutamente chiara, in questo volto che sembra aprirsi alle metamorfosi del deformante ho scorso la consapevolezza del Male.

A volte mi interrogo sul destino delle opere d’arte e poi più in fondo sulla loro natura, sulle leggende che le costituiscono e che ne scavalcano la filologia: e mi trovo disposto a concedergli tutto, persino delle intelligenze nascoste e la capacità di creare solchi avanti e indietro nel tessuto del tempo e dello spazio, trovando ogni volta una giustificazione diversa e adeguata. Rivivono in chi le guarda, partecipano a fatti storici lontani di secoli come se fossero state create e ricreate continuamente per questo. Vivono da sempre, come lo stesso Michelangelo riconosceva nella figura già costituita e celata dentro al blocco di marmo, a cui bisognava solamente spezzare le catene, togliendo la “vil materia” che la costringeva. Hanno a che fare con l’anima, certo, le opere d’arte, ma forse anche con lo spirito e con la materia di cui è costituito l’universo: materia oscura, “corpo sottile” o etere, ma qui mi fermo perché non è affar mio e non ho risposte e non voglio averne, preferisco avere un buon motivo per dipingere.

Da qui la partenza del mio lavoro, attraverso il bozzetto Io fui il male, in cui chiamo in causa con un primo “crossover storico” la figura del soldato nazista e più in generale l’idea di colui che attenta alla vita e all’esistenza, iniziando così l’opera d’intreccio con la collocazione site specific del dittico nel Museo.

"Instant Arte" di Mauro De Carli

Instant Arte, di Mauro De Carli (Gribaudo, 2018). Sottotitolo: “Il libro che rende facile capire l’arte, la sua storia e i suoi capolavori”.

Il grosso cerchio/cellula/iride a cui attentano i soldati sul foglio nel dittico diventa un sole metafisico che risplende alla sinistra del Fauno, dipinto per accendere nello spazio oscuro della memoria e dall’immaginario l’alone di luce che balugina dietro al Cristo della straordinaria Resurrezione del Matthias Grùnewald. Anche il Maestro tedesco, mio precedente riferimento espressivo, è dunque invitato a partecipare al banchetto, anche solo per un cammeo, diciamo “almeno per il caffè”. Difficilmente chi ama l’arte non ha un buon amico da invitare per trascorrere un felice momento di convivio.

Secondariamente realizzai un altro bozzetto Ché chi vive di morte mai non muore, per trovare una chiave di accesso per insinuarmi direttamente nella “materia viva” del Fauno, e interrogarmi su quale materia realmente agisse Michelangelo: se marmo inerte o un “marmo sensibile” della preziosità del rubino, usato come superficie di “risonanza interiore”. Un po’ come l’osso mandibolare nelle balene, che è sì strumento di masticazione, ma che poi è superficie di percezione e risonanza delle onde sonore, che permettono l’udito tanto prezioso per l’orientamento di questi grandi cetacei. Materia plastica dalla capacità sensibile di organo di senso “superiore”: una specie di miniera interiore sottoposta a lenta ma affannosa escavazione, in cui il grande Maestro operava per sottrazione, restituendo a noi, spettatori nei secoli, i frammenti d’anima estratti e sottoposti all’esercizio della comprensione e della forma in veste di inspiegabili bellezze scultoree.

Vicino a questo organo/miniera di un marmo della natura del rubino e del baluginio vivificante del fuoco (posto sulla parte laterale della tela di sinistra, con una figura umana appena abbozzata nell’atto di percuoterla con una specie di piccone) ascende appena percepibile quella che è invece l’ultima opera di Michelangelo, la Pietà Rondanini. La prima e l’ultima opera. La prima e l’ultima opera di colui che compì uno dei percorsi più emblematici di ciò che definisce la parola “artista” ma anche e soprattutto le locuzioni “esistenza” e “ricerca”: Itaca alla partenza e Itaca venti anni dopo, a fine viaggio.

Mauro De Carli

Fortunatamente posso frequentare la Rondanini molto spesso nella sua prossimità al mio muovermi frequentemente nel capoluogo lombardo: è lì che mi aspetta e ci aspetta, nella sala dell’ospedale spagnolo al Castello Sforzesco, per portarci a ogni incontro “un pochino più in là” di dove la volta prima ci ha condotti. E infine in uno di questi incontri la vidi bucare l’ultimo strato di atmosfera e galleggiare finalmente priva di gravità e tensioni, in uno spazio eterno, vuoto, vuotissimo, immersa nella perfezione del silenzio cosmico in una sorta di proiezione mentale che dava spazio alla chiara percezione di una vita “ultra”, oltre la vita inerte dell’opera fisicamente ancorata al piedistallo nella sala milanese. Per un attimo, e finalmente per sempre, ho raggiunto la più vera concretezza di questa scultura galleggiante nel vuoto cosmico come messaggio più alto mai coniato da un essere umano verso un’idea di Dio e dell’esistenza talmente alta da aver bucato la densa atmosfera di tutto ciò che è stato detto per definirla. E di tutto ciò che è possibile dire. Da qui compilai un testo di riflessione personale sulla Rondanini, intitolato Houston NON abbiamo un problema, che a sua volta fa da titolo al lavoro. Il titolo cita la famosa frase degli astronauti dell’Apollo 13 che per un guasto si ritrovarono a gravitare attorno alla Luna in un’orbita inconsueta: un’orbita che li consegnava alla storia come gli esseri umani che più si fossero allontanati dalla Terra. Ma non sapevano di Michelangelo, del suo “allontanamento” graduale iniziato con il Fauno. L’esperienza di un uomo che più si è allontanato dall’orbita terrestre, per Michelangelo, non fu né accidente né problema, ma condizione ricercata a suon di colpi di scalpello e mazzuola, pennello e penna: quindi quel “NON” che capeggia nel titolo. “Sono arrivato qui e lasciatemi qui”, insomma.

A descrivere questo percorso esistenziale di “allontanamento” del Michelangelo sulla tela di destra appaiono, dopo la fase giovanile del Fauno, l’altrettanto famoso Adolescente, che nella sua forte espressività racconta benissimo la “nigredo” che coglie l’anima sensibile alle prime consapevolezze sulla natura del suo percorso. Lo sguardo grave e consapevole del Nicodemo della Pietà Bandini, poi, prosegue il racconto esistenziale nella fase di maturità/vecchiaia, dove Michelangelo scolpisce il proprio autoritratto.

La sagoma appena abbozzata dell’Apollo 13 si libra sopra queste due sculture per decollare definitivamente nella parte destra “non finita”, che suggerisce questa impossibilità di vedere oltre, tema dell’infinito, che molto spesso Buonarroti affrontò.

Attraverso la spirale sul lato estremo di destra, gravitano, infine, frammenti del testo Houston NON abbiamo un problema che si conclude con l’affermazione del titolo:

E mi trovo a galleggiare nel punto più lontano mai raggiunto da un uomo sulla terra.

Ma non mi sentirete chiamare aiuto per tornare.

“Houston non abbiamo un problema”.

bussola-punto-fine-articolo

* Mauro de Carli è insegnante e artista visivo che si divide tra l’insegnamento delle discipline pittoriche e della storia dell’arte e la pratica. Ha al suo attivo diverse collaborazioni con l’Accademia di Brera di Milano e, prima di ottenere una cattedra al Liceo Artistico, ha insegnato la storia dell’arte anche in altre scuole medie e superiori. Dal 2000 presenta il suo lavoro in diverse mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Ha scritto Instant Arte (Gribaudo, 2018), sottotitolo eloquente: “Il libro che rende facile capire l’arte, la sua storia e i suoi capolavori”.

Da “I salvatori dell’arte”: