Continua la biografia a gocce di Gianni Giannini (link alle precedenti tre puntate), a lungo braccio destro operativo di Tonino Guerra. Da giovane Gianni lavora come parrucchiere per donna a Pennabilli, nel negozio dei genitori, dopo una felice esperienza con l’Oreal a Torino prima e Genova poi e dopo aver accarezzato per un attimo l’idea di andare a lavorare sui transatlantici Michelangelo e Raffaello, sulla rotta Genova-New York: “Pagavano bene, 300 mila lire al mese, era tutto spesato più mance, ma alla fine hanno vinto Pennabilli e Silvana”, la ragazza portata da Gianni all’altare il 22 febbraio 1960.
Certo, un premio per il felice, lungo matrimonio, ma un’altra medaglia sul petto Gianni Giannini la conquista dando vita alla Mostra d’Antiquariato, diventata nazionale nel 1976 e la prima a essere pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del Ministero dell’Industria. La mostra è una delle rassegne storiche d’Italia che da quasi mezzo secolo a luglio è il punto di riferimento per migliaia di appassionati dell’arte antica che desiderano passare un “momento” di qualità totale. Qualità che si riscontra a partire dai luoghi che ospitano la Mostra, lontani dai dispersivi e, talvolta, anonimi poli fieristici. La mostra di Pennabilli è immersa nella storia e nel verde del Montefeltro. È un “viaggio” reale e figurato tra antichi borghi fortificati traboccanti di arte e poesia, paesaggi incontaminati e ospitalità genuina, nelle vicinanza dal mare. La visita alla mostra rappresenta un’esperienza culturale a tutto tondo. Se così non fosse sarebbe difficile comprendere come questo evento possa crescere e fiorire ogni anno in una cittadina di soli tremila abitanti, in una valle disseminata di piccoli borghi che, da soli, non possono giustificare l’utenza numerosa e competente che si riscontra in ogni edizione.
“Grazie all’industria e alla Mostra, negli anni Settanta il paese cresceva anche sul piano demografico. La mostra l’abbiamo considerata sin dall’inizio non una semplice esposizione di antiquariato ma una leva per lo sviluppo del paese, grazie anche ai convegni sui beni culturali e naturalistici del Montefeltro che hanno visto arrivare qui studiosi di fama come Vittorio Dini, Valerio Volpini, Gastone Mosci e Marco Dezzi Bardeschi, pittori come Remo Brindisi e scultori come Pericle Fazzini, ministri e presidenti del Consiglio come Arnaldo Forlani e Giovanni Spadolini. Erano tempi in cui mi era facile partire per Pesaro o Ravenna o per Roma per incontrare soprintendenti o ingegneri edili, dirigenti dell’Anas, amministratori provinciali o presidenti di banche. Grazie alle conoscenze favorite dalla mostra, trovavo porte aperte dappertutto e potevo risolvere i problemi amministrativi che emergevano nelle varie edizioni. Avevo attorno a me possibilità che non ho mai utilizzato per fini personali ma per aiutare gli altri. La mia idea fissa era salvare e sviluppare il mio paese. Avevo le porte aperte su tutto”.
Un giorno Gianni, forte dell’idea che ci voleva un poeta per arricchire il paese di invenzioni poetiche, bussa alla porta di un potente di altro genere: un grande della sceneggiatura e della poesia, Tonino Guerra, a Santarcangelo di Romagna. Gianni, quando hai sentito parlare di Tonino per la prima volta?
“Tonino veniva qui durante l’estate, io non l’ho conosciuto e non ne avevo sentito parlare. Un giorno ho sentito di lui dalla Vincenza Riccardi che a Bologna ha letto sul giornale un testo che mi ha fatto raddrizzare i capelli: i sette proclami fatti da Tonino al sindaco del suo paese, sette messaggi poetici per far crescere (da parte del primo cittadino, ma il discorso vale per gli altri sindaci e per ogni abitante) la bellezza nella propria terra. Anzi, sarebbe bello ripubblicarli e chiedere ai sindaci italiani, come facesti quando dirigevi Airone, di far conoscere il sogno che abita oggi nelle loro menti. (Proposta accettata: vedi in basso, Ndr).
Nel 1989 cade il muro di Berlino e a Pennabilli nasce il nido di Tonino. Decisiva la missione di Gianni a Santarcangelo.
“Negli anni ‘80 Tonino veniva sempre a vedere la mostra a Pennabilli, attorno al 1985 rientra da Roma in maniera non definitiva e comincia a parlare della valorizzazione della Valmarecchia. Un giorno Vecchietti, un antiquario, mi dice: ‘Sai che è venuto Guerra e ha voluto sapere chi organizza la mostra e che vuol fare tante cose per la Valmarecchia?’. È lui a chiamare me, perché l’antiquario Vecchietti gli dà il numero di telefono dell’ufficio dove lavoravo.
Tonino mi telefona e dice: ‘Ho interesse a parlare con lei, organizzatore della Mostra di antiquariato’ e mi chiede quando possiamo vederci. ‘Oggi pomeriggio?’ ‘E dove?’ ‘Al Bar Centrale di Santarcangelo, circa alle 16.30’. Io parto e vado giù, arrivo a Santarcangelo, era piovuto e non c’era molta gente. Vado al Bar Centrale e dico: ‘Scusate avete visto qui Tonino Guerra?’ ‘Sì, è stato qui fino adesso, sarà fuori sulla piazza’. Esco fuori, vedo uno che aveva un impermeabile giallo come quelli dei cantonieri. Mi avvicino a lui e gli chiedo: ‘Scusi, ha visto Tonino Guerra?’ e lui si gira e fa: ‘Perché?’. Rispondo: ‘Perché avevo appuntamento con lui’ e lui mi dice: ‘Sono io’.
Questo è stato l’incontro, avvenuto nell’autunno del 1986”.
Quando e perché gli hai chiesto di venire a stare a Pennabilli?
“Mai, mai chiesto di venire qua, il tutto viene come conseguenza di ciò che gli ho fatto conoscere della Valmarecchia. Lui mi ha sempre definito un incontro culturale, portava sempre su tanti personaggi, come l’editore Manlio Maggioli o l’industriale delle scarpe Casadei, il fondatore del Centro Pio Manzù Gerardo Filiberto Dasi e Federico Fellini, i capitani reggenti della Repubblica di San Marino come Gianluigi Berti. Io ho saputo trasmettere le cose semplici che Tonino cercava. Lui ha visto tutto ciò che c’è nella Valmarecchia, le case abbandonate e diroccate, che io conoscevo perché andavo a raccogliere i detti e i proverbi presso gli anziani della valle. Case che, ristrutturate, diventavano (e continuano a essere) nidi di viaggiatori raffinati come la giornalista tedesca Brigitte Brackemann. E lui, dopo un periodo di pendolare tra Santarcangelo e Pennabilli, si convinse di venire a vivere a Pennabilli nel giugno del 1988. Per la decisione successiva, galeotto fu un telefono. Con Tonino eravamo nella trattoria della Peppa per una festa e gli sfuggì: ‘Bella quella casa che abbiamo visto sulla via del Roccione. Se ci fosse il telefono, mi fermerei lì’. Corro a trovare l’ingegnere della Sip, Magnani, il quale nel giro di un’ora, mentre Tonino era ancora a tavola, rintraccia operai in zona, fa fare loro un allaccio volante fino ad arrivare in via del Roccione. Quando abbiamo finito di mangiare, dico a Tonino: ‘Ti piacerebbe fare una telefonata dalla tua futura casa?’. Andiamo al Roccione e, miracolo!, c’era il telefono operante (all’epoca servivano mesi per un allaccio). Dopo quella scoperta sbalorditiva, Tonino decise di fermarsi a Pennabilli. Acquistò la casa il 30 dicembre del 1988, era la casa abbandonata degli eredi dell’imprenditore edile Mario Monti, fatto il contratto subito, abbiamo deciso di andare dal notaio per procedere all’occupazione immediata. Era la sera del 30 dicembre. Facemmo una ricognizione della casa abbandonata, anche fuori era diventato come un bosco perché erano quattro o cinque anni che i proprietari non ci facevano niente. Io sistemo tutta la casa e il 21 di marzo 1989, giorno del suo 69° compleanno, la Casa dei Mandorli era tutta a posto”.
A PROPOSITO
I sette messaggi al Sindaco del mio paese (e a tutti gli altri). Firmati: Tonino Guerra*
E oggi quali sogni abitano nelle menti dei sindaci italiani? Per il centenario della nascita del poeta romagnolo, aspettiamo i loro messaggi alla mail salvatore.giannella@giannellachannel.info
- Signor Sindaco, questa è la Piazza di sempre, insomma questi sono i muri. La vita, invece, col tempo è cambiata. Devo farmi da lontano per arrivare al nocciolo principale dei miei messaggi. So che un tempo qui c’erano campi e orti e poi lo spazio fu chiuso per creare il punto di incontro degli abitanti che fuggivano dal quartiere medievale, in alto. Così tutte le farfalle e anche gli scarabei, le vespe e gli uccelli selvatici scomparvero da questo quadrato di terra ridotto ormai un crocevia di strette di mano, di incontri, di biciclette, di automobili. Ricordo d’aver visto da bambino il vento che ancora alzava la polvere della Piazza Grande, e la neve che d’inverno rigava il cielo con voce morbida, e chiudeva la bocca ai rumori. Allora si stava intorno alla Piazza con la schiena contro i muri o sotto i portici a guardare felici quella festa che univa i corpi. Adesso la meraviglia si è ristretta nei rettangoli delle finestre o è chiusa oltre gli sportelli delle macchine. Chi ci può chiamare a raccolta in Piazza Grande? Quale suono di campane occorre per far godere lo spettacolo a tutti assieme? La neve non è per un uomo solo chiuso nella sua gabbia di paura.
- Signor Sindaco, su questa Piazza pascolò un leone scappato al Circo Orfei e spaventò i cani da caccia con l’odore di selvatico che usciva dai suoi peli. Allora tutti i fucili del paese si affacciarono alle finestre e sputarono fuoco sull’animale sdraiato sotto il monumento ai caduti come se facesse parte di quel monumento o volesse imitare la posa di altri leoni di pietra intravisti davanti ai portali di antiche cattedrali. Il leone fu cotto e mangiato; e la gente discusse con la pancia piena d’Africa stando sulle sedie del caffè sparpagliate per la Piazza. Devo aspettarmi l’arrivo di un rinoceronte per rinnovare questa veglia paesana col sapore di una delizia collettiva?
- Caro Sindaco, ho visto questa piazza nell’agosto del ’44 piena di buoi che i tedeschi portavano a Ravenna per spedirli a pezzi nelle città affamate della Germania. Ho visto la Piazza piena di sole e di sterco secco dopo la partenza degli animali e in tutto questo disordine carico di dolore, l’accalappiacani serviva le autorità comunali ostinandosi a cercare di imbrigliare un cane randagio. Quale assurda parvenza di ordine in un mondo così sgretolato! Ero nell’ombra di una colonna, pieno di amore per il cane che grattava lo sterco stopposo in cerca di cibo. Quando il laccio stava per essere lanciato nell’aria accaldata, ho gridato e il cane, messo in allarme, è corso lungo la strada del fiume. Ma già un moschetto fascista puntava la canna nella mia schiena e così ho attraversato la Piazza preso nel laccio di questo sicario analfabeta. Allora quel deserto della Piazza era giustificato.
- Signor Sindaco, quando nel dopoguerra il merci impolverato mi ha lasciato alla stazione e io a piedi, reduce ritardatario, dopo che banda aveva suonato gli inni per le strade e gli stivali lucidi tolti dai piedi mascalzoni e ammucchiati attorno al monumento vennero riempiti di urina, sono arrivato a casa e dalla casa mi sono affacciato in Piazza Grande. Ho visto per la prima volta i tubi al neon, e le poltroncine di ferro fuori da due caffè avevano sostituito le sedie pieghevoli di legno. Ma la gente era ancora su quelle sedie a stare assieme e a ricominciare a vivere. Pochi anni dopo, qualcosa è cambiato: l’ala nera del corvo si è messa a bastonare l’aria e così la paura si è infilata nelle orecchie assordandoci.
- Signor Sindaco, è dal centro di questa Piazza che io continuo a misurare il mio spazio. Anche se vado a Mosca o nella calda Georgia, calcolo le distanze sapendo che i pochi chilometri che ho fatto da ragazzo a piedi o in bicicletta, dalla Piazza al mare, dalla Piazza alle prime colline, sono gli unici che contano. I lunghi voli sono viaggi fermi o mentali. Valgono soltanto i primi chilometri fatti a piedi e anche adesso rifletto a lungo se dalla Piazza devo raggiungere il mare. Più facile decidere di andare all’Equatore o al Polo Nord, perché quelle sono distanze che appartengono alla magia. Dieci chilometri, invece, sono interminabili. La Piazza Grande è il centro di tutti gli spazi che ho avuto in regalo, anche tu Sindaco li hai avuti e anche gli altri. Ecco perché ti prego di affacciarti dal balcone e di guardare a lungo questo rettangolo fondamentale per la tua e le altre vite. Un punto di partenza o di arrivo, un punto di riferimento continuo non può non essere abbandonato, deve sentire la febbre di una tua attenzione continua e precisa. Adesso più di prima, adesso perché il deserto di uomini sta verificandosi dove un tempo la gente si vedeva e si abbracciava. La paura che parte dalla coda velenosa degli scorpioni sta occhieggiando da dietro gli spigoli delle case. Bisogna superare quegli spigoli e tornare a fare gruppo in Piazza. La paura è amica dei televisori e dell’egoismo familiare. Mangiamo carne e immagini e intanto la voce che esce dai meccanismi riempie i silenzi tra uomo e donna, tra genitori e figli. Così bisogna tornare dove la parola è ridata alle nostre bocche e le immagini germogliano nella nostra fantasia.
- Signor Sindaco, l’altro giorno ho fatto dei piccoli sogni uno dopo l’altro. Tutte le volte appariva la Piazza Grande col rettangolo usato in modo diverso. Nel primo vedevo che i palazzi tutt’attorno racchiudevano un orto, come una volta. E io mi chiedevo se non sia giusto togliere il selciato e rimettere rettangoli di aglio, di cavoli e di girasoli. Vedevo che i paesani camminavano lungo i sentieri e si piegavano per controllare se gli ortaggi erano giusti da raccogliere. Sorridevano e si scambiavano delle foglie. Poi ho sognato la Piazza come è adesso; ma con un albero in più, un ciliegio in un angolo, che nello spazio breve di un attimo metteva le foglie, poi i fiori, poi i frutti e in ultimo restava nudo, pronto a ridursi un ricamo con la neve. Allora ho detto: questo è possibile. E anche altri piccoli accorgimenti. I lecci seri e imbronciati potrebbero vivere a Natale con piccole scintille luminose grandi come lucciole e in modo che si possa dire che le stesse sono cadute in Piazza Grande. E non quelle palline di plastica colorata che imitano frutti velenosi. Tante cose così. E anche musica, perlomeno la domenica mattina alle undici, e magari tutti i giorni quando la sera è trascinata da scarpe solitarie e la nebbia racchiude nei suoi veli i lampioni, un valzer di Faini o di Strauss agli altoparlanti rannicchiati tra gli alberi. Bisogna tornare a essere bambini per governare.
- Signor Sindaco, è ora che tu cominci ad ascoltare le voci che sembrano inutili, bisogna che nel tuo cervello occupato dalle lunghe tubature delle fogne e dai muri delle scuole e dagli ospizi e dall’asfalto e dai ferri e dalle pillole per gli ospedali, bisogna che nel tuo cervello pratico e attento soprattutto ai bisogni materiali, bisogna che entri il ronzio degli insetti. Devi pregare che su questa Piazza arrivino le cicogne o mille ali di farfalle, devi riempire gli occhi di tutti noi di cose che siano l’inizio di un grande sogno, devi gridare che costruiremo le piramidi. Non importa se poi non le costruiremo. Quello che conta è alimentare il desiderio, tirare la nostra anima da tutti i lati come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito… Ecco che arriva la nuvola di farfalle, ecco che tutti abbandoniamo la sedia di casa e lo stretto cannocchiale delle finestre. Stiamo tornando al centro della Piazza per godere assieme questo spettacolo. I grandi godimenti sono quelli che si provano succhiando dagli altri la meraviglia che esplode. Solo così può rinascere la bella favola del nostro e del tuo paese.
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