Un libro? Oh no, molto di più. Ecologia del desiderio (Aboca Edizioni, pag. 197, euro 15), scritto dal noto giornalista de la Repubblica, Antonio Cianciullo, con la verve e la competenza che lo contraddistinguono, è una road-map, un progetto politico nel senso più ampio del termine (polis in greco indica la città, dunque politica come arte di governo della comunità degli umani e, nell’ottica ecologista, della intera comunità dei viventi).
L’indicazione di rotta, alla vigilia di un governo in cui la voce e l’azione per l’ambiente rientrano tra le priorità, è chiara: per assicurare la “conversione ecologica dell’economia e della società” (uso la bella definizione di Alex Langer) occorre trovare la via per “curare il pianeta senza rinunce”, come recita il sottotitolo del libro.
La tesi di fondo, il fil rouge (anzi, vert) che si snoda attraverso gli otto capitoli del testo, è che l’ambientalismo deve dunque smettere di presentarsi “come una tavola biblica di divieti”, di indossare vesti penitenziali e puntare il dito verso le catastrofi prossime venture. Insomma, deve rinunciare a vendere PAURA e costruire invece un orizzonte di SPERANZA. Deve passare da una ‘ecologia del dovere’ a una ‘ecologia del desiderio’. Deve rivisitare il concetto di crescita “dandole un senso diverso da quello che le viene generalmente attribuito: una crescita delle opportunità e dei piaceri che rispetta i limiti della fisica”.
Ma si può fare? Yes, we can, assicura Cianciullo. Anzi, we must, dobbiamo, visto che “la battaglia è sul tempo”, come ci ricorda il galoppo della crisi ambientale e climatica.
Forte di un supporto di vaste letture, che spaziano non solo tra i classici del pensiero ambientalista (come Alexander Langer o Jeremy Rifkin) ma tra testi noti/riscoperti di storici, politologi, comunicatori, scrittori, nonché di una pioggia di documenti, dati ed esperienze virtuose raccolte sul campo nella sua lunga carriera di giornalista, l’autore passa in rassegna e rivisita i concetti-cardine della cultura ecologista.
A cominciare dai ‘limiti allo sviluppo’, che vanno ribaltati in ‘sviluppo dei limiti’, ovvero “un’idea di limite non come una linea che respinge, ma come un’area che accoglie “nuove forme di sviluppo basate sui valori immateriali, come l’informazione e l’intelligenza.
Serve “superare il derby senza significato tra fautori della crescita e della decrescita, alla ricerca di un nuovo equilibrio; serve “passare dall’economia lineare a quella circolare”, un processo già in corso ma che va reso più strutturato e dominante; serve comunicare in modo ‘sexy, semplice (ma non semplicistico) e personale (capace di toccare mente e cuore di ognuno) i percorsi innovativi della sostenibilità ambientale, sociale ed economica.
Per fare tutte queste belle cose, però, occorre inoltrarsi nelle plaghe raramente esplorate dell’immaginario collettivo, alla ricerca del ‘perché’ il desiderio di cambiamento “non si accende o si accende debolmente” e in disastroso ritardo. Perché, spiega l’autore, il pensiero logico- che riteniamo deputato a guidarci nel percorso salvifico -si scontra nel profondo della nostra psiche con emozioni e motivazioni ancestrali, che ci hanno permesso di sopravvivere nei millenni ma che oggi rischiano di perderci. “Finora ha prevalso il conflitto tra la pulsione antica al dominio del pianeta e la coscienza moderna del rispetto degli ecosistemi. Ma, a ben guardare, sono due facce dello stesso desiderio: garantire le condizioni migliori per la sopravvivenza”.
La via d’uscita sta dunque nell’arduo ma indispensabile processo di “riallineare le ragioni antiche e quelle moderne”; sta in un salto della qualità della coscienza collettiva, condizione sine qua non per evitare il collasso del pianeta e dei suoi abitanti; sta nel passaggio alla “seduzione della proposta”.
In parole povere, è tempo di far capire che case più confortevoli, meno traffico e smog, cibi più sani e sicuri, crescita dell’occupazione e del ‘buon lavoro’, insomma tutti i tasselli che concretamente compongono la cosiddetta ‘sostenibilità’, non sono utopie irraggiungibili, ma traguardi a portata di mano. Se sapremo vivere il percorso di conversione ecologica ascoltando la voce della SPERANZA più di quella della PAURA.
A PROPOSITO/ L’attualità della memoria
Uomo e natura: né dominati, né dominatori
In Italia è arduo il passaggio dalla conoscenza alla coscienza e infine all’azione (e ciò spiega anche la difficoltà dei Verdi alle elezioni, rispetto ai successi dei Verdi negli altri Paesi come la Germania). Com’è arduo l’affermarsi di quella “filosofia del rispetto” che l’autorevole storico della scienza, Paolo Rossi auspicava nell’agosto 1988 sulle pagine della rivista da me diretta, Airone.
testo di Paolo Rossi*
A partire dagli anni Ottanta la polemica sul rapporto uomo-natura si è andata arroventando. Questo clima rovente è pericoloso perché è molto facile che nelle violente contrapposizioni trovino ascolto più le grida scomposte che i pacati ragionamenti, più le reciproche accuse di malafede che le analisi corrette. Questo tipo di contrapposizioni spinge inoltre molti a saltare, con poche e confuse idee, sul carro del vincitore del momento.
Io credo che sia necessario che si faccia strada una nuova filosofia del rispetto della natura. Essa può nascere (e si tratta di un parto difficile) solo sulle ceneri dell’idea dell’incontrollato e selvaggio dominio sulla natura e sulle ceneri di una cieca e utopistica sottomissione alla natura.
Vanno in altre parole abbandonate le due tradizionali filosofie che hanno fatto da sfondo l’una all’entusiasmo irresponsabile degli scientisti, l’altra al millenarismo sprovveduto dei primitivismi.
La filosofia del dominio conduce a forme di interventismo febbrile, a modificazioni non pianificate, a edificazioni che sono in realtà distruttive. Poiché intervenire, modificare, costruire sono attività necessarie, la filosofia del dominio sostiene la validità e l’opportunità di qualunque intervento, modifica, costruzione. Sottovaluta, in nome del suo attivismo, le conseguenze, le imprevedibilità, la complessità delle situazioni.
La filosofia della sottomissione, in nome delle imprevedibilità delle conseguenze, insiste sulla pericolosità e l’empietà di ogni e qualunque intervento. Si serve della nozione di complessità per mostrare l’inopportunità di ogni modifica e di ogni costruzione.
All’incomposto attivismo dei dominatori si contrappone una sorta di estremismo della cautela. L’immagine di una natura intoccabile perché sacra cancella l’immagine di ogni nostra responsabilità nei suoi confronti.
La filosofia del dominio rischia di cancellare la natura e con essa, ovviamente, anche l’uomo.
La filosofia della sottomissione è fondata su un rifiuto della presenza dell’uomo e ci rende impotenti.
Al di là delle loro intenzioni queste filosofie tendono a distruggere la nostra possibilità di abitare la Terra. La prima può trasformare l’uomo in un sovrano, assiso – anziché su un trono – su un mucchio di macerie (o di spazzatura) in attesa di una tragica soluzione finale. La seconda può togliere all’uomo ciò che propriamente lo fa umano: la sua emersione dal mondo animale attraverso la costruzione di utensili, l’allevamento, la coltivazione della terra, la creazione del linguaggio e di complicate forme si vita associata, nel segno di una continua e feconda connessione.
L’idea del rispetto per la natura si differenzia dall’ideologia del dominio perché implica una piena coscienza della necessità di una consapevole autolimitazione dei nostri poteri. Si differenzia dall’ideologia della sottomissione perché è fondata sull’uso della tecnica e delle scienze moderne e non sul loro rifiuto.
Una filosofia del rispetto per la natura deve muoversi entro un contesto diverso da quello tradizionale. Deve, prima di ogni altra cosa, compiere due rinunce. Deve far sì che l’uomo riesca ad abbandonare, insieme e contemporaneamente, il sadismo dello sfruttatore e il masochismo del rinunciatario. Non si tratta di una facile impresa. Tali rinunce implicano non solo
La revisione o l’abbandono di antiche e radicate ideologie: comportano gravi disagi, suscitano resistenze notevoli, inducono alla mesa in opera di potenti meccanismi di difesa. In primo luogo perché, come sanno bene gli studiosi della psiche, sadismo e masochismo costituiscono un intreccio difficilmente districabile. In secondo luogo perché le due posizioni del dominio sulla natura e della sottomissione alla natura rinviano continuamente e alternativamente l’una all’altra, sono una lo specchio dell’altra e danno luogo a una sorta di moto pendolare, a un alternarsi di ottimismo e angoscia, di speranza e di paura. E’ sempre difficile uscire dal gioco degli specchi.
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