Una leggenda del giornalismo si appresta a compiere 130 anni. Si tratta del “National Geographic Magazine”, bussola editoriale per quattro generazioni di americani (e per il sottoscritto) guidati, molto prima che si usasse la parola ecologia, a conoscere le diversità e la fragilità dell’ambiente nei quattro angoli del mondo.

Era la sera del 13 gennaio 1888 quando un gruppo di scienziati e di intellettuali tra i più in vista di Washington si incontrò al Cosmos Club per dare vita a una società scientifica con la missione di promuovere la diffusione della cultura geografica. Nove mesi più tardi andava in stampa il primo bollettino scientifico della società, una modesta brochure dalla copertina terra cotta: era il primo numero di National Geographic. Ci sarebbero voluti dieci anni perché quell’austera pubblicazione tecnica si trasformasse nel primo mensile popolare, dall’inconfondibile cornice gialla, che raccontava il mondo – anche attraverso le sue straordinarie immagini – portando ogni mese in milioni di case le storie di avventurosi esploratori e temerari fotografi.

A Washington, nella redazione del NG, arrivai nel 1981, quando ero caporedattore del settimanale L’Europeo. L’esperienza di poche settimane in quelle stanze fu decisiva per le mie scelte successive (come, per esempio, quella di accettare l’offerta di Giorgio Mondadori di andare a dirigere cinque anni dopo il mensile Airone, che io definivo il “Natural Geographic italiano”).

Quell’anno, il 1981, fu l’anno dei maggiori successi per il NG: 10 milioni e 800 mila copie mensili, di cui 37.471 in Italia, tutte distribuite ai membri della Society (e mai, allora, in edicola: dal 1998, invece, è in edicola l’edizione italiana, dal 2010 anche su sito web: nationalgeographic.it). Ecco un brano del mio racconto su L’Europeo n. 44 del 2 novembre 1981. (s.gian.)

National-Geographic-130-anni

La copertina dell’edizione americana di National Geographic dell’ottobre 1978.

Chi vede i grafici della diffusione crescente del National Geographic Magazine, la più antica e prestigiosa rivista geo-fotografica del mondo, si rende conto che, anche se apparentemente non c’è più nulla sulla faccia della Terra dopo la scomparsa delle mitiche figure degli esploratori e le nuove mappe del suolo tracciate dai satelliti, la geografia mantiene ancora un fascino discreto. E consente buoni affari: con l’aumento dei soci, delle entrate e della pubblicità al National Geographic sono arrivati nuovi mezzi e questo mese sono cominciati i lavori per una nuova sede.

Come si spiega questo successo senza precedenti nelle cronache editoriali del mondo? Come viene fatta questa rivista? Da chi? Con quali mezzi?

È in un salone pomposamente chiamato Pentagono, al nono piano di un palazzo sulla 17ma strada di Washington, a poche centinaia di metri dalla Casa Bianca, che viene messa a punto la strategia pacifica per far conoscere a quasi 35 milioni di lettori, con precisione scientifica e genio giornalistico, i paesi stranieri, i loro abitanti, i loro mestieri, riti e attività. È da qui che partono i reporter verso i luoghi più inaccessibili, sul fondo dei mari, nello spazio, nei laboratori segreti, o molto più semplicemente in mezzo agli uomini per raccontare le loro grandezze e le loro miserie.

bill-garrett-national-geographic

Wilbur E. “Bill” Garrett (nel 2013, mentre firma un libro), scomparso nel 2016 all’età di 85 anni, ha diretto il National Geographic Magazine dal 1980 al 1991: ha quindi fondato la Ruta Maya Foundation. A lui è stato consegnato nel 2002, a Sassocorvaro nel Montefeltro Marchigiano, il Premio Rotondi ai salvatori dell’arte, sezione Mondo.
(credit: Larry French/Getty Images for TASCHEN America)

Il Pentagono si anima il primo mercoledì di ogni mese. Alle 9 e mezzo in punto il direttore Wilbur E. Garrett, Bill per gli amici, si alza dalla sua scrivania, prende l’agenda fitta di appunti per futuri articoli, modifiche da apportare a strumenti di lavoro (è laureato in giornalismo e in ingegneria e, a tempo perso, fa l’inventore), schizzi di siti archeologici dei Maya o di antiche vie commerciali, attraversa il corridoio fino a raggiungere la “sala di controllo”. Apre la porta e la lascia spalancata. È il segnale. Dopo Garrett affluiscono nel salone i 13 capiservizio in rappresentanza dei 43 giornalisti e 22 fotografi per dare inizio a un rito immutato da anni:la riunione mensile per la pianificazione. I responsabili dei vari settori si ritrovano tutti davanti ai pannelli che indicano lo stadio delle fasi di lavorazione.

Su una parete c’è un planisfero. Ruotandolo appaiono tutti i dati possibili su ogni servizio programmato: quali giornalisti e fotografi se ne stanno occupando, dove essi sono esattamente, a che punto è la ricerca delle illustrazioni. Esempio: presto si potrà leggere un servizio sui marmi di Carrara. In Toscana sono venuti la giornalista Cathy Newman e il fotografo Pierre Boulat. Una stella gialla a destra, nell’ultima colonna, indica che l’articolo è già pronto per la stampa.

Sono riunioni regolate da criteri precisi e sbrigativi: le proposte vengono valutate, votate e si affrontano i problemi organizzativi che si presentano. Che sono davvero molti se si pensa che, a volte, sono in lavorazione fino a 150 servizi contemporaneamente. Ma le riunioni sono anche occasioni per discutere nuove proposte che possono venire dai lettori (“al mio dipartimento esplorazioni, unico nel suo genere, arrivano in media da tutto il mondo 500 proposte al mese per ricerche di vario genere”, dice William Graves) o da uno dei 2.000 dipendenti della National Geographic Society, la più grande istituzione scientifica ed educativa del mondo.

Non paga tasse per la sua attività culturale (anche la diffusione della rivista, oltre al finanziamento delle ricerche archeologiche e scientifiche, è considerata tale). Paga un’imposta soltanto sul fatturato pubblicitario, che supera i venti miliardi l’anno.

National-Geographic-100-anni-1988

La copertina del National Geographic che nel 1988 celebrava i 100 anni della rivista.

La storia del National Geographic corre corre parallela a quella della Society. Questa fu creata il 13 gennaio 1888 nel Cosmos Club di Washington, per iniziativa di 33 americani appassionati di esplorazioni, “con lo scopo di incrementare e diffondere le conoscenze geografiche”. Li guidava Gardiner Green Hubbard, un avvocato di Boston che aveva aiutato suo genero, l’inventore Alexander Graham Bell, poi diventato presidente della Society, a fondare la prima industria di telefoni. Allora la geografia era guardata come una delle materie più noiose, qualcosa con cui affliggere gli studenti e da dimenticare più tardi.

Il primo numero del Magazine ideato in quella serata del 13 gennaio apparve nell’ottobre 1888: un giornalino sottile, avvolto in una copertina color terracotta, che fu stampato in 165 copie per i i membri della Society che si presumeva avrebbero apprezzato articoli tipo “La classificazione delle forme geografiche secondo la genesi” e simili argomenti complicati. Ma non furono le astruserie e il tecnicismo esasperato a essere criticati. I rimproveri arrivarono per ragioni grammaticali: alcuni puristi della lingua inglese trovarono inammissibile l’uso della parole geographic, che avrebbe dovuto essere invece geographical.

National-Geographic-130-anni

Gilbert Hovey Grosvenor (1875-1966), detto Mister Geografia. È stato l’uomo determinante per il grande successo del National Geographic.

I pochi soldi rappresentarono però un problema assai più realistico dei preziosismi linguistici: bisognava far qualcosa per tirar fuori la National Geographic Society dai limiti di una piccola organizzazione che pubblicava un oscuro giornaletto. Fu provvidenziale la decisione presa da Bell nel 1889: l’assunzione di Gilbert Hovey Grosvenor, un insegnante di 23 anni, come direttore, redattore capo e unico giornalista del bollettino (stipendio: 100 dollari al mese, tre volte più di un operaio). Il giovane Grosvenor cominciò a pubblicare articoli che interessassero sia lo scolaro impegnato nelle ricerche sia lo scienziato in cerca di informazioni, e nel giro di un anno riuscì a raddoppiare i membri della Society. Era soltanto l’inizio. Una rottura rispetto al vecchio modo di fare il giornale ci fu quando Grosvenor, soprannominato Mister Geografia, decise di riempire 11 pagine del numero di gennaio 1905 con foto di Lhasa, misteriosa capitale del Tibet. Ammise Grosvenor anni dopo:

Fu una decisione inconsueta. Invece i membri della Society si congratularono con me.

L’introduzione delle illustrazioni a colori arriva cinque anni dopo e fa del National Geographic un pioniere del fotogiornalismo. Le pagine della rivista portano così il mondo nelle case delle famiglie medie della provincia americana: oggi lo legge un americano su cinque. La rivista riesce a farsi acquistare anche all’estero da chi non conosce l’inglese, grazie alle foto di grande effetto. Tribù africane e fattorie dello Iowa, le vette dell’Everest e gli abissi dell’oceano Pacifico, la violenta eruzione del vulcano Saint-Helens e il tranquillo sbocciare di un fiore, una balena che viene alla superficie del mare e un’aquila che volteggia in cielo con la sua preda: sono solo alcuni dei mille aspetti dell’incredibile varietà del pianeta Terra che sono apparsi sul National Geographic.

National-Geographic-130-anni

“Ragazza afghana”, fotografata nel 1985 e ritrovata nel 2002 dal grande fotografo del National Geographic Steve McCurry.

National-Geographic-130-anni

La “ragazza afghana”, oggi.

La ricetta per il successo l’aveva dettata Grosvenor ed è rimasta sostanzialmente intatta per decenni (dopo Gilbert Hovey, morto nel 1966, si sono succeduti al vertice della rivista e della Society altri due esponenti della famiglia Grosvenor, Melville Bell e suo figlio Gilbert, attuale presidente). È una miscela di ingredienti che va bene per qualsiasi giornale che voglia essere “interessante”. Massima precisione: ogni cifra deve essere controllata e ricontrollata, ogni citazione deve essere fatta verificare parola per parola all’interessato prima della pubblicazione. Abbondanza di illustrazioni che siano, al tempo stesso, spettacolari e informative. Non occuparsi mai di storie tristi. Essere sempre sul posto. Non essere eccessivamente critici. E ancora: evitare le volgarità, le questioni di natura puramente personale, le visioni troppo parziali e le polemiche. Infine, tenere d’occhio l’attualità.

Che cosa è cambiato rispetto ai dieci comandamenti di Grosvenor? Dice Garrett:

Il mondo è cambiato e quindi anche il National Geographic si è evoluto. Siamo diventati meno conservatori, non temiamo più il coinvolgimento in cause di impegno sociale. Ci siamo tolti i tradizionali occhiali rosa.

Così sono comparsi i servizi e le copertine sui profughi somali e cambogiani, articoli sulla miseria di Harlem (il “ghetto” nero e ispanico di New York), storie sul razzismo in Sud Africa.

Davvero un traumatico abbandono della tradizione se si pensa che, nel 1949, il giornale riuscì a pubblicare un lungo servizio sul profondo Sud degli Stati Uniti senza nominare né il problema razziale né i negri. Questo cambiamento di linea editoriale ha provocato malumori ai vertici della Society, che è considerata una roccaforte del più puro conservatorismo americano, come dimostra la presenza, nel consiglio d’amministrazione, di generali, ammiragli in pensione, alti funzionari dello Stato. “Ma che si dovesse cambiare, si sono convinti anche loro”, dice Bill Garrett. “Se non lo fossero, mi licenzierebbero. In fondo, essere conservatori non vuol dire essere stupidi”(Garrett sarà licenziato nove anni dopo, in coincidenza con una copertina dedicata alla vita aspra e rischiosa di East Harlem, Ndr)

National-Geographic-130-anni

La copertina di National Geographic Traveler di dicembre 2015.

La storia professionale di Garrett, 51 anni, assunto come fotografo dal mitico Gilbert Grosvenor nel 1951 quando era studente all’università del Missouri, vincitore più volte dei più prestigiosi premi di fotogiornalismo, è esemplare per capire qualità e metodi di lavoro degli uomini del National Geographic. E per scoprire anche a che tipo di inconvenienti giornalisti e fotografi della rivista vanno incontro. L’accusa è apparsa per la prima volta a Mosca sulle colonne della Pravda, l’organo ufficiale del Pcus: “Spionaggio”. E lui, Garrett, è stato arrestato da guerriglieri comunisti nel Laos proprio per questo sospetto.

Dice ora Garrett:

Capisco come possa nascere questa convinzione. Noi del National Geographic per sparare il colpo migliore non ci neghiamo nulla: tempo, denaro, mezzi in misura inimmaginabile. Facciamo ricerche molto meticolose su un soggetto per trarne tutte le informazioni possibili. Siamo perciò più sospettati di qualsiasi giornalista o fotografo. Per fortuna il buonsenso finisce sempre col prevalere. Come è capitato a me nel Laos: dopo un interrogatorio stringente, un ufficiale si convinse che ero un vero giornalista e pretese che fotografassi la sua ragazza perché finisse immortalata sulle pagine del National Geographic.

bussola-punto-fine-articolo

Salvatore Giannella, giornalista che ha ideato e cura con passione questo blog, ha diretto il mensile scientifico del Gruppo L’Espresso Genius, il settimanale L’Europeo, il primo mensile di natura e civiltà Airone (1986-1994), BBC History Italia e ha curato le pagine di cultura e scienza del settimanale Oggi (2000-2007). Ha scritto libri (“Un’Italia da salvare”, “L’Arca dell’arte”, “I Nicola”, “Voglia di cambiare”, “Operazione Salvataggio: gli eroi sconosciuti che hanno salvato l’arte dalle guerre”), curato volumi di Tonino Guerra ed Enzo Biagi e sceneggiato docu-film per il programma Rai “La storia siamo noi” (clicca qui per approfondire).

A PROPOSITO

Vuoi fotografare bene la natura? Leggi i segreti dei reporter del National Geographic e valuta se hai le qualità per diventare come loro

Nel 1981, data del mio viaggio in America nelle stanze della National Geographic Society, la più importante organizzazione scientifica ed educativa, erano in 65 (22 nell’organico fisso, 43 freelance che collaboravano con regolarità) che condividevano il privilegio di essere fotografi del National Geographic Magazine. Robert E. Gilka, allora vicedirettore per la fotografia e co-autore del libro “The images of the world”, mi delineò un ritratto di questi uomini che da sempre costituiscono un’invidiata élite. (s. gian.)

Il fotografo del National Geographic è una persona che possiede queste qualità.  

  1. Dedizione. Jim Stanfield ha scalato per nove sere consecutive una collina in Siria solo per trovare la giusta luce del tramonto che valorizzava al massimo Malula, una antica città cristiana. Ogni scalata: 45 minuti.
  2. Capacità di cavarsela. Mentre Tom Abercrombie viaggiava in Land Rover su un sentiero dell’Afghanistan, una roccia gli perforò la coppa dell’olio. Si trovava a molti chilometri di distanza da un meccanico. Come arrangiarsi? Tom tappò il buco con una saponetta.
  3. Inventiva. Bruce Dale, che doveva fare un servizio sulla sicurezza degli aerei, voleva una “vista dall’aereo” di un atterraggio notturno. Montò gli apparecchi fotografici ion cima all’alettone verticale e scattò le foto stando dentro l’aereo con comandi a distanza.
  4. Coraggio. George Mobley cadde nelle gelide acque di un fiume della Lapponia quando il suo battello fu travolto dalle rapide. Mobley fu trascinato dalla corrente per quasi 300 metri. Semicongelato, stava per svenire quando riuscì ad afferrare una tanica di benzina che galleggiava sull’acqua e ad accendere un fuoco grazie a un fiammifero rimasto miracolosamente asciutto in una busta di plastica in fondo alla tasca.
  5. Sensibilità. Quando fu pubblicato il servizio di Robert Sisson “Il mondo del mio albero di mele”, un lettore scrisse: “Questa è la mia prima lettera d’amore che io abbia scritto a una rivista. Vi ringrazio molto per aver tradotto in parole e splendide foto il sentimento che ho sempre avuto per gli alberi di mele”. Ai nostri fotografi si richiede spesso di dover trovare immagini eccitanti nei luoghi più comuni. Occorre una straordinaria creatività che deve essere realizzata dalla macchina fotografica. E’ la creatività a dare ai buoni fotografi un modo particolare di vedere le cose. Il nostro creatore d’immagini deve tornare da Roma con un aspetto nuovo, più bello e più provocante del Colosseo e della Via Appia.
  6. national-geographic-piramide-chephren-winfield-parks

    “Vista della Piramide di Chefren”, foto di Winfield Parks.

    La caratteristica di una bella foto è il ricordo che si ha di essa. Quando penso a tutte le foto che ho visto delle piramidi d’Egitto, quella che ricordo meglio è una scattata da Winfield Parks. Egli riuscì a catturare la maestosità delle piramidi fotografando un egiziano con una tunica in cima a una di esse proprio mentre la luce del tramonto colpiva l’obiettivo creando un effetto drammatico sulle pietre squadrate del monumento.

    Parks ottenne questo effetto senza trucchi ottici. Noi vogliamo che i nostri fotografi lavorino senza filtri colorati, lenti per immagini multiple, lenti spalmate di vaselina, schermi di garza e altri trucchi del genere. La luce è il supporto più importante per il fotografo.

    In servizio devono fare tutto da soli. Tocca a loro trovare il mezzo di trasporto, che può essere un cammello o un barcone. Per esempio: Bob Sisson una volta viaggiò per 40 ore su un aereo insieme a 54 otarie urlanti.

    National-Geographic-130-anni

    Il fotografo e regista statunitense Paul Strand (1890 – 1976)

    La maggior parte dei nostri fotografi ha iniziato la carriera in quotidiani che facevano leva sulle immagini. È là che hanno imparato a fotografare di tutto e in tutte le condizioni di luce e di ambiente. Là hanno raffinato la tecnica e hanno imparato a trattare con la gente.

    Forse un’altra cosa che i giovani fotografi imparano in un quotidiano è ancora più importante: il senso del valore del contenuto della foto. Paul Strand, uno dei primi americani a diventare famoso come fotografo, una volta disse:

    Il mondo è pieno di fotografi che non hanno niente da dire.

    I fotografi che lavorano per il National Geographic devono avere qualcosa da dire e devono anche sapere come dirlo.

    bussola-punto-fine-articolo