In tempi difficili per il giornalismo comprensibile vale la pena di illuminare figure esemplari che hanno contribuito a dare lustro alla nostra professione, “ossatura della società: dà uno sguardo al mondo e ne offre agli altri la lettura. Un compito affascinante” (Sergio Mattarella, presidente della Repubblica: link)
Era la stampa, bellezza! Esattamente un secolo fa nasceva Mario Cervi, scomparso il 17 novembre 2015 a 94 anni (oggi riposa nella cappella di famiglia a Fontanella, tra Crema, sua città natale, e Bergamo). È stato l’ultimo grande vecchio del giornalismo italiano, un uomo perbene, per decenni braccio destro (e sinistro) di Indro Montanelli con cui nel 1974 fondò Il Giornale. Insieme hanno scritto 14 volumi della Storia d’Italia e insieme, cascasse il mondo, ogni sera alle sei si rintanavano nell’ufficio di Indro per vedere in tv la nuova puntata dell’Ispettore Derrick.
Mario Cervi l’ho conosciuto nel gennaio 2004, quando sono diventato vice-direttore di Gente. Lui teneva una seguitissima rubrica sul giornale e insieme ogni settimana ne concordavamo l’argomento. Ci siamo piaciuti subito, questione di pelle. O di voce, visto che per un paio di mesi i nostri contatti erano solo telefonici. A un certo punto, però, abbiamo deciso di cenare insieme almeno una volta alla settimana, di solito il sabato sera, quasi sempre in quattro: io con mia moglie Aglaia, lui con la figlia Margherita. E poi, stabilito che ci stavamo simpatici, di fare le vacanze insieme a villa Cervi, sul mare della Grecia.
Con Mario amavo discutere di tutto, e quasi sempre finivamo per litigare. Però quelle nostre scaramucce, spesso per motivi politici, piacevano a entrambi: al sottoscritto perché mi arricchivano, a lui forse perché lo facevano sentire più giovane. Aveva 31 anni più di me, ma era il mio migliore amico. Per un decennio l’ho considerato una via di mezzo tra il padre che ormai non avevo più da tempo e un nuovo saggio fratello maggiore.
Lui fumava solo Toscani purché originali, quelli con la scritta Antico, due “metà” al giorno, e adorava gli spaghetti con le cipolle di Tropea, i gatti (la sua si chiamava Stella) e i barboncini color champagne, ovvero Gilda e Golia.
È uno dei miei pochi colleghi che non si è mai vergognato di essere approdato al giornalismo per raccomandazione.
Ha spiegato nel marzo del 2011 al collega Stefano Lorenzetto di Panorama che lo intervistava per i 90 anni:
In quel periodo i colleghi del Corrierone prendevano in giro anche Cervi perché si occupava di Lascia o raddoppia? con brevi corsivi.
Era la stampa, bellezza! Un mondo farcito di stranezze e aneddoti bizzarri, Cervi lo sapeva bene. Come la storia del suo più grande scoop come inviato speciale in giro per il mondo, incredibilmente importante, ma mai pubblicato. Il giorno è l’11 settembre 1973 e il luogo l’Hotel Carrera di Santiago del Cile, proprio di fronte alla Moneda, dove, circondato dai soldati del generale golpista Augusto Pinochet, si è asserragliato e resisterà fino alla morte il presidente socialista Salvador Allende.
Cervi è uno dei tre fortunati giornalisti stranieri che alloggiano nell’albergo ed è testimone oculare degli ordigni sganciati sul palazzo presidenziale dai carri armati di Pinochet e dai suoi bombardieri Hawker Hunter di fabbricazione britannica. Quel giorno cellulari e satellitari non esistevano ancora e le comunicazioni telefoniche con il resto del mondo erano interrotte.
Cervi amava la Grecia e la Grecia amava Cervi. È un legame che risale ai tempi della seconda guerra mondiale. Quando Benito Mussolini decise di precipitare l’Italia nel conflitto, anche lui, come gli altri universitari classe 1921, viene arruolato come volontario forzato. Segue dapprima la scuola allievi ufficiali a Piacenza, poi un corso all’Arenaccia di Napoli; nel frattempo resta iscritto a Legge alla Statale di Milano e approfitta delle licenze per dare qualche esame. Mi ha confessato che, a guerra finita, riuscirà a “scippare la laurea, pur sapendone pochissimo”.
Nel 1941, il 479° battaglione di fanteria, in un primo tempo destinato al fronte russo, è aggregato alle forze d’occupazione in Grecia. Dove il plotone comandato dal sottotenente Mario Cervi ha la responsabilità di un piccolo presidio costiero, 30 chilometri a nord di Atene, nel paesino di Boiati poi divenuto tristemente famoso perché ospita il carcere militare dov’è internato per sei anni, dal 1968, il poeta e rivoluzionario greco Alexandros Panagùlis dopo il fallito attentato al colonnello Georgios Papadopoulos, cervello del golpe del 1967 che detronizzò re Costantino.
A Boiati Panagùlis scrive le sue opere migliori sulla calce delle pareti, spesso con il sangue, perché non sempre gli è permesso tenere in cella carta e penna. Lo rinchiudono per tre anni e mezzo nella “tomba”, una stanza di cemento armato seminterrata di due metri per tre, costruita solo per lui al centro del cortile del carcere. Panagulis sarà anche il protagonista di Un uomo, romanzo di Oriana Fallaci, sua compagna di vita dal 1973 al ’76, anno in cui lui muore ad Atene a 36 anni in un misterioso incidente d’auto.
A proposito della Fallaci, poco prima di andarsene per sempre, Mario mi ha raccontato:
Ma Cervi conserva della giornalista fiorentina un’immagine remotissima assai più dolce: è il 26 maggio 1955 e sul circuito di Monza si è appena schiantato in prova, a 80 all’ora, il grande pilota Alberto Ascari, ultimo italiano a vincere il mondiale di Formula Uno.
Torniamo al 1941 e al giovane sottotenente Cervi. Mi ha assicurato di aver capito subito che i greci sono bonari, generosi, collaborativi, e di essersi chiesto più volte perché mai Mussolini avesse attaccato quel piccolo Paese dove ci volevano bene, per di più governato da un generale fascistoide come Ioannis Metaxas.
Nel 1941 in Grecia l’insidia della guerriglia preoccupa solo al Nord, ma dov’è stato mandato Mario il pericolo è minimo e tutti sono impegnati dalla mattina alla sera nel faticoso ozio militare (lui, per non farsi mancare nulla, prende anche la malaria. Un’atmosfera molto simile a quella raccontata nel 1991 dal film da Oscar Mediterraneo di Gabriele Salvatores, che Cervi ha sempre volutamente evitato di vedere perché avrebbe provato “troppa tenerezza e insieme troppa tristezza”.
Alla fine arriva l’8 settembre del 1943 e il «Tutti a casa!». Ad Atene il generale Carlo Vecchiarelli, comandante della 11ª Armata, tentenna e, dopo un marasma di decisioni contraddittorie, emana ai reparti periferici l’ordine di consegnare le armi (tranne le pistole degli ufficiali) ai tedeschi, che li fanno prigionieri. Mario mi ha giurato che è stata la peggiore umiliazione della sua vita. “Eravamo avviliti ma speravamo che quell’atto fosse la premessa di un accordo per il nostro rientro a casa. La sera del 10 settembre feci un giro a piedi tra le ville di Boiati, dove molti ci conoscevano e trattavano pacificamente. Rammento con vergogna cosa mi disse nel suo italiano sgangherato un medico greco che avevo incontrato più volte: ‘Ma perché avete consegnato le armi? Siete in tanti, molti più dei tedeschi’. Non sapevo cosa rispondere, ma aveva ragione lui”.
All’umiliazione Cervi reagirà a modo suo il giorno successivo:
Per i militari italiani allo sbando in Grecia i mesi seguenti sono contrassegnati da atti di valore ed episodi nobili, ma anche turpi. Nei dintorni di Boiati, per fortuna, Cervi conosce tanta gente: un ingegnere italiano, un certo Troi, trasferitosi laggiù da anni, per un po’ li nasconde in casa. Poi per loro ha inizio una vita avventurosa ma penosa, piena di pericoli e vagabondaggi. Mi ha raccontato Mario: “Non avevo più l’uniforme, né la pistola. E il mio amico medico è stato catturato dai tedeschi, che l’hanno portato in Germania, dov’è morto”.
La sua tormentata odissea finisce ad Atene nella casa di Eftimio Ciamandani, un commerciante di legnami disposto ad aiutare un giovane sbandato come Mario. “La sua famiglia, gente con un cuore grande come molti altri greci, mi ospitò e mi protesse”. Una delle tre figlie di Eftimio si chiama Dina, ha 22 anni, un viso dolcissimo, è impiegata in banca, e il 19 aprile 1944 sposa Mario, a cui darà due figli. Una vicenda, la loro, fra le tante della cosiddetta “armata s’agapò” (s’agapò in greco significa “Ti amo”). Ha scritto Cervi nell’autobiografia: “Dina, la mia ragazza greca se n’è andata per sempre il 24 dicembre 2007, vigilia di Natale, alle 22.26, lasciandomi solo”.
Lui è sempre stato un laico incallito, ma una volta mi ha confessato: “Arrivato ai 90 anni, m’assale la tentazione di credere che dopo la morte qualcosa ci sia. Mia moglie era molto devota e l’unica ragione che può sospingere anche me verso un ritorno alla religione è proprio la tenue speranza di reincontrarla, almeno per ripeterle che le voglio bene”. Poi ha rivelato di pensare sempre alla poesia che Montale dedicò alla moglie Mosca, morta da poco. È struggente e me l’ha recitata con gli occhi lucidi:
Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi trovo a modularlo, nella speranza
di essere già morto senza saperlo.
Ancora oggi, se ci ripenso, mi torna la pelle d’oca.
Ho accennato prima alla storia di Panagùlis e al suo fallito attentato a Papadopoulos, il 13 agosto 1968 a Varkìza, sobborgo di Atene, con la bomba che non si è innescata al passaggio della limousine del colonnello. Il golpe era avvenuto sedici mesi prima, la notte del 21 aprile del 1967. La mattina seguente Cervi si trova a Trieste per un’inchiesta sulle autostrade italiane e non sa nulla dell’attentato. Ovviamente non ci sono ancora i telefonini e dal Corriere lo cercano da ore disperati. A pranzo il corrispondente locale del quotidiano milanese riesce a scovarlo nel ristorante dove sta intervistando tecnici e progettisti della tratta Trieste-Venezia, e lo implora di partire con il primo mezzo disponibile. Le frontiere sono però bloccate e solo il giorno successivo Mario riesce a salire su un jet della BEA diretto a Atene, dove tutto fila liscio e da dove scrive servizi impeccabili.
Era la stampa, bellezza! Molto meno bene gli andrà sette anni più tardi, quando il Giornale lo manda a Cipro per seguire l’invasione militare turca iniziata il 20 luglio 1974. Come quasi tutti i giornalisti, Cervi alloggia all’hotel Ledra Palace di Nicosia, che all’alba del 28 luglio è all’improvviso colpito dai colpi di mortaio dell’esercito di Ankara. Lui divide la camera con Giovanni Russo del Corriere della Sera ed entrambi vengono salvati da un convoglio britannico che li scorta all’aeroporto, dove si imbarcano su un Hercules militare diretto a Londra. Lì Russo può fare affidamento sulla redazione locale del Corriere, ma Mario, per trasmettere le notizie, chiede aiuto alla sede Rai. È pomeriggio tardi e il corrispondente Sandro Paternostro obietta di avere già sforato l’orario sindacale. Per fortuna Mario, giornalista di razza, lo convince a tenere aperto l’ufficio e il giorno successivo il suo articolo domina la prima pagina del Giornale.
Altro legame di Cervi con la Grecia è la cosiddetta Crociera dei re. Nell’agosto del 1954 Edilio Rusconi, che dirige il settimanale Oggi, chiede a Mario di prendersi qualche giorno di vacanza dal Corriere e scrivere per lui la cronaca della crociera di una serie di teste coronate di mezza Europa fra le isole dell’Egeo. Un evento che all’epoca fa molto scalpore, ideato e organizzato dalla regina Federica di Grecia, mamma di Costantino, una tedesca assai ambiziosa e perciò odiatissima, che imbarca un centinaio tra genitori e rampolli di sangue blu sulla Agamennon, nave regalata da Roma ad Atene come parte della riparazione dei danni bellici. E in alto mare nasce anche qualche amore principesco: per esempio, è passione a prima vista tra Maria Pia, diciannovenne primogenita di Umberto II di Savoia e Maria José, e il principe Alessandro Karageorgevic, di 30 anni, erede di Paolo di Jugoslavia e Olga di Grecia, che vanno all’altare l’anno successivo a Cascais, in Portogallo, hanno quattro figli ma poi si separano nel 1967.
Mi ha confessato Mario: “Quando giravano insieme a terra, tutte quelle teste coronate parevano un gruppo di dopolavoristi. Ricordo la regina Giuliana d’Olanda con la sottana che le sbucava da sotto la gonna…”. Nella tappa di Mikonos, Cervi incontra Umberto II di Savoia, che poi rivedrà in altri tre lunghi incontri, due a Cascais e l’ultimo a Cannes, nel 1959, quando va a trovarlo in hotel e il re di maggio gli racconta che sta per scrivere la storia dei santi di Casa Savoia, un libro che però non ha mai visto la luce. Su Umberto II, Mario non aveva dubbi: “È un uomo di grande amabilità e buonsenso. Se avesse regnato, sarebbe stato un ottimo re. Invece non mi era piaciuto quando, nella fuga di Pescara dopo l’8 settembre, se ne fregò della moglie e dei figli, abbandonati in Valle d’Aosta alla mercé dei tedeschi”.
Fino al 2003, cioè a 82 anni, prima di subire il trapianto della valvola aortica, ogni mattina d’estate Mario raggiungeva a nuoto il motoscafo ormeggiato davanti alla sua villetta greca per fare sci nautico. La casa (foto in alto), fatta costruire con la moglie Dina sugli scogli nel 1969, sta a Chrisi Akti Panagìas, nella baia di Volos, e sul terrazzo sventolano insieme le bandiere italiana e greca. Volos è la dodicesima città greca per popolazione, sta a metà strada fra Atene e Salonicco e il 10 luglio 1888 vi è nato il futuro pittore Giorgio De Chirico, al seguito del padre Evaristo, ingegnere ferroviario che nella regione stava realizzando la prima tratta su rotaia in terra ellenica. Secondo la mitologia, dal suo porto salpò la nave Argo di Giasone con a bordo i cinquanta eroici Argonauti decisi a riconquistare il Vello d’Oro nella Colchide, nel Mar Nero. Oggi, assai più prosaicamente, da Volos partono traghetti e aliscafi zeppi di turisti diretti nelle vicine isole Sporadi Superiori, ovvero Skiathos, Skopelos e Alonnisos, famose anche perché lì hanno girato il musical Mamma mia! con Meryl Streep.
A pochi chilometri a nord di Casa Cervi, alle spalle di Volos, inizia l’incredibile Penisola del Pélion, ricoperta di foreste, che – sempre secondo la mitologia greca – ogni estate i dodici dei greci scesi dall’Olimpo trasformavano nel loro paradisiaco luogo di villeggiatura. Era la terra dei Centauri, metà uomini e metà cavalli, e tra questi c’era Chirone che fece da maestro a eroi come Eracle, Achille e lo stesso Giasone.
Fino al 2015, a 94 anni suonati, Cervi è andato ogni pomeriggio in redazione al Giornale per occuparsi della Stanza, la rubrica di risposte ai lettori ereditata dall’amico Indro. Il 7 agosto del 2015 ha finito da cinque minuti di spedirla via mail al giornale dalla casa di Volos, quando cade alzandosi dalla poltrona e si rompe la testa del femore destro. Nei giorni successivi chiede al sottoscritto di battere al computer ciò che lui mi detta a braccio, e poi di spedirlo a Milano.
Era la stampa, bellezza! Sino alla fine Mario non ha mai perso lucidità e senso della notizia. L’ultima volta che l’ho visto era turbato per i fatti del teatro Bataclan accaduti la sera prima, in quel terribile venerdì 13 novembre 2015 di sangue e orrore a Parigi. Appena entrato nella sua stanza al Fatebenefratelli di Milano mi ha chiesto, come per interrogare se stesso: “Se tu fossi direttore di un quotidiano, cosa avresti messo questa mattina in prima pagina?”. Tre giorni dopo se n’è andato per sempre.
Caro amico, quanto ci manchi. Ha scritto nel 1989 il grande fotografo siciliano Ferdinando Scianna dopo la morte di Leonardo Sciascia:
Anche tu, Mario, potevi evitare di fare a tutti noi una simile porcheria.
A PROPOSITO/ ERA LA STAMPA, BELLEZZA! (2)
Il Giorno in cui incrociai Mario Cervi sulla strada di un altro maestro di giornalismo: Annibale Del Mare
testo di Salvatore Giannella per Il Giorno*
Il 24 gennaio scorso in pochi abbiamo ricordato il decimo anniversario di un maestro di giornalismo ingiustamente dimenticato (ma non da Mario Cervi, che gli dedicò la presentazione di un libro, vedi più in basso, recentemente ristampato a mia cura e con mia prefazione): Annibale Del Mare, savonese di nascita, vissuto a Milano dal 1919 fino al suo ultimo giorno di vita, il 24 gennaio 2011. E sarebbe bello che, nell’anno del decimo anniversario della sua scomparsa, la Commissione toponomastica del Comune di Milano decidesse di intestare una via a questo collega che si è dedicato con serena italianità e con grande impegno civico a un tema importante della nostra vita nazionale: gli italiani all’estero.
Io avevo imparato ad apprezzare Annibale come puntuale corrispondente della Gazzetta del Mezzogiorno da Milano. Il suo legame con Bari e la Puglia risaliva al 1943, quando incontrò, con l’uniforme di capitano dell’Esercito di Liberazione, i dirigenti del Quartiere generale alleato. Il 24 gennaio 2013 Carlo Baroni, sul Corriere della Sera, scrive di quell’incontro: “Intanto Del Mare c’era quando la Storia decise di prendere la strada giusta. Aveva 30 anni, di cui 5 da militare, gli occhi del cronista e la smania di un Paese che si sentiva nuovo. Dietro c’erano le macerie di una guerra che non voleva finire, davanti la certezza di potercela fare. ‘Il popolo italiano è assetato di verità dopo tanti anni di menzogne’: questo l’attacco dell’articolo sulla Gazzetta del 28 ottobre 1943. La firma era quella di Annibale. Poche righe per dire che era stata ripristinata la libertà di stampa. Il segnale che niente sarebbe stato più come prima”.
In Puglia Annibale incontrò i militari americani e fece amicizia anche con molti figli e nipoti di emigranti italiani che erano andati a cercare fortuna al di là dell’Atlantico. Italiani nel cuore che, una volta tornati negli States, avevano cominciato a scrivergli, chiedendogli sempre più notizie, sull’Italia lontana. Andavano ascoltati per farli sentire meno lontani. Che fare? Idea: un giornale. Per questo fondò nel 1948 il mensile Cronache d’Italia, “per far conoscere il volto sereno del paese, diffondere fiducia nella patria dopo il disastro della guerra, il fallimento del fascismo e il difficile avvio della rinascita”. Una missione a cui tenere fede per sempre. Periodicamente arrivavano le notizie del Belpaese per 5 mila italiani che erano stati costretti a lasciarlo. Arrivavano fino nei più sperduti villaggi della foresta amazzonica, da cui l’emigrante Lucchetta Germano gli aveva scritto in traballante italiano questo semplice ma poetico pensiero confluito nel titolo di libro da poco ripubblicato dall’editore pugliese Schena di Fasano, Il lusso di sognare l’Italia:
Divenne il giornale più letto del mondo, esperienza che andò avanti fino al dicembre 1963. Del Mare rispondeva personalmente a ogni lettera, provava a risolvere problemi, dava una mano ai nostri migranti. Un “ministro degli Esteri” più vicino alla gente e con la porta sempre aperta a ogni richiesta. Un gigante buono dell’editoria che richiamava l’attenzione dei giornalisti della carta stampata e della tv più bravi dell’epoca.
Ebbe un grande sostegno dai giornali. Edilio Rusconi, allora direttore di Oggi, incaricò Vittorio Buttafava di intervistarlo nella sede della sua casa e bottega, in via Vela a Milano (laddove oggi sorge l’impresa creativa Streamcolors creata da mio figlio Giacomo e dalla sua sposa Giuliana) e pubblicò un’intera pagina dal titolo “Fa da solo un giornale: un giovane milanese dirige, scrive, finanzia e spedisce l’unico giornale per gli italiani all’estero”. Giorgio Vecchiato sul Popolo: “Il giornale più diffuso al mondo non è il Times, ma Cronache d’Italia e nasce alla periferia di Milano” (oggi via Vela è a due passi dal centro). E Milano Sera gli appunta una medaglia insolita sul petto: “Annibale Del Mare scrive da solo un giornale per gli italiani all’estero. Il Fregoli del giornalismo: direttore, redattore, fattorino”. Ad aiutarlo a riempire le pagine di storie e dati utili, oltre alla moglie Liana e alla combattiva figlia Serenella, una figura inedita: il “corrispondente consolare”, un incarico del tutto onorifico e quindi non retribuito, che comportava il compito di collegamento tra la collettività italiana del posto e l’ufficio consolare più vicino.
Annibale fu capace di organizzare tra il 1955 e il 1974 ben 910 spedizioni per esportare l’italianità. Nasceva la “Nave del ricordo fraterno”, 500 mila buoni libri arrivati per donazioni cospicue e ripetute dei grandi editori, Rizzoli e Mondadori in testa, distribuiti in 60 Paesi, con la nascita di 2.500 bibliotechine e sale di lettura italiane nelle locali biblioteche.
Nel 1955 vide la luce l’iniziativa “Tricolori nel mondo” e per dieci anni spedì in tutto il mondo, a chiunque ne facesse richiesta, migliaia di tricolori. Furono tante le collaborazioni a vari giornali. Inoltre creò e diresse la rivista Italy’s Life, in lingua inglese, per far conoscere anche negli Stati Uniti la ripresa economica dell’Italia. Riuscì a dedicarsi anche a una intensa produzione libraria. Ricordo “Buona fortuna, emigrante”, un manualetto-guida che affronta con parole semplici i temi della figura di chi espatria. Una sorta di galateo dell’emigrante, che viene ristampato in centinaia di migliaia di copie. (Gran parte della documentazione, 26 buste e 8 scatole per uno sviluppo di 8 metri lineari, è stata donata da Annibale e conservata nell’Archivio di Stato di Milano).
Chi ha dato ad Annibale la forza di realizzare tutte queste iniziative? La risposta la diede egli stesso: “Tanti e tanti, specie nella nostra Milano, che consideravo allora l’unica città in cui anche l’impossibile poteva realizzarsi grazie al suo grande cuore ravvivato dal piacere dell’operosità, della creatività, dell’umanità” (Gazzetta, 16 dicembre 1990). Scorrendo le pagine del suo bel libro affiorano nomi prestigiosi come quelli di Raffaele Mattioli e Ferruccio Lanfranchi, Enrico Falck e Giordano Dell’Amore, Franco Marinotti e Angelo Rizzoli (per restare alla sola Milano) ma anche sigle singolari come il Vus, gruppo dei Vecchi universitari sportivi, o categorie come quella dalle vedove dei professionisti, che gareggiano nel raccogliere libri. A Rovereto c’è poi una vecchia maestra che rilega libri sgualciti, prima di spedirli a Del Mare. Nel 1973 riceve la Medaglia d’oro del capo dello Stato per i benemeriti della cultura. Si va avanti così fino alla soglia degli anni Ottanta, quando il nocchiero sente le sue forze declinare. Si spegne in una clinica a 96 anni.
Ha avuto, Annibale, il dono di una vita lunga ed esemplare, di un’attività intensa e benemerita, sempre con l’obiettivo di diffondere la cultura italiana all’estero. È stato un esempio di professionalità e dedizione giornalistica. Da riscoprire, con il suo mondo senza confini. E da intestargli una via della Milano che con il suo grande cuore l’aiutò nel suo lavoro di maestro del giornalismo.
Era ieri: così Mario Cervi nel ’90 presentava Annibale Del Mare
Da molti anni Annibale Del Mare si dedica con serena italianità e con grande impegno civico a un tema importante della nostra vita nazionale: gli italiani all’estero, questi operosi e instancabili uomini che hanno creato in tante parti del mondo comunità spesso esemplari e invidiabili per prestigio sociale, per posizione economica e per attaccamento alla Patria d’origine. E da molti anni – quanti ne conta la nostra vecchia amicizia – seguo Del Mare in questa sua ricerca e in questo suo lavoro.
Costretto da esigenze professionali a essere un grande viaggiatore, i nostri connazionali in terre lontane io li ho ben conosciuti. Non sono dei santi, perché i santi sono merca rara a questo mondo. Ma (devo confessarlo) sono molte volte migliori di noi rimasti sul piede di casa, senza stimoli di novità se non di pionierismo, appagati dalla routine quotidiana.
Non siamo più una terra di emigranti. Siamo anzi diventati – ed è per più d’un aspetto una fortuna – una terra d’immigranti. Ma non posso dimenticare gli anni delle grandi forzate fughe da un Paese che appariva troppo avaro di risorse e troppo ricco di braccia.
Alle vicende, ai sentimenti, ai sacrifici degli emigrati, che sono parte indissolubile della nostra storia, Annibale Del Mare dedica ora queste pagine che portano un contributo prezioso alla conoscenza dell’ “altra Italia”: un’Italia cui dobbiamo gratitudine e solidarietà.
Il libro, cui auguro una larga diffusione, aiuta a capire e aiuta a ricordare. E offre ai giovani il modo di sapere di quanto sudore, abnegazione e ingegno sia stata fatta, anche per merito di coloro che dall’Italia se ne andarono, la prosperità dell’Italia di oggi. (Presentazione di Mario Cervi al libro Il lusso di sognare l’Italia, Schena, Fasano, 1990, ristampato nel 2018 a cura e con invito alla lettura di Salvatore Giannella)
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(via email)
Grazie, carissimo Salvatore, per questo bel ricordo di Mario Cervi, che è stato mio direttore e amico. Veniva a cena a casa mia con la moglie quando venivano a Parigi e non mancavano mai di scherzare sul fatto che eravamo nati lo stesso giorno, anche se non dello stesso anno. Gli volevo molto bene ed era un grande giornalista.