Un’estate fa ci ha lasciati Lamberto Sechi (Parma 1922 – Venezia 2011), il padre dei moderni settimanali d’informazione: il suo nome resta associato, per tutti, alla direzione di Panorama (1966-1979), il settimanale che è stato scuola di un grande numero di firme giornalistiche. Lamberto è stato nelle sue successive direzioni (ha guidato altri prestigiosi settimanali come L’Europeo oltre che ricoprire il ruolo di direttore editoriale dei periodici Rizzoli, e quotidiani come La nuova Venezia) per mia fortuna anche uno dei miei padri culturali. L’ultima volta che l’ho incontrato, nella sua casa alla Giudecca, era intento a scrivere un testo sulla esperienza centrale della sua vita professionale. Quel testo mi è stato consegnato giorni fa a Venezia dalla sua compagna, Francesca. Lo pubblico (nel giorno dell’anniversario della scomparsa del grande editore Angelo Rizzoli Senior) sicuro di fare cosa utile in un momento difficile per l’editoria, alle prese con un cambiamento epocale e con il profilo dei ruoli centrali, editori e giornalisti, che tende a indebolirsi. (s. gian.)
La sfida era tutta lì, in quello slogan che aveva fatto grande tanta stampa americana, i newsmagazine in testa. Potevamo provarci anche in Italia? Arnoldo Mondadori ne era convinto. E quando, nel 1966, affidò a me la direzione del mensile Panorama (nato qualche tempo prima sotto la guida di Nantas Salvalaggio e poi di Leo Lionni) pensando di trasformarlo in un settimanale, l’editore fu sicuro, bontà sua, che ce l’avrei fatta. Infatti, un pomeriggio di quell’anno, nella sua villa di Meina, sul Lago Maggiore, mi chiese, con piglio deciso, se ritenevo che l’unica strada da imboccare, di lì a un po’, fosse quella di fare una specie di Time: “È d’accordo?”, disse. Come avrei potuto non esserlo? Sarebbe stata la sfida più appassionante per un giornalista che, per sua fortuna, aveva sempre avuto la possibilità e il coraggio di non schierarsi. E nella primavera del ’67 Panorama diventò settimanale.
Un unico padrone: il lettore
La mia prima preoccupazione fu questa: sarei riuscito a mettere insieme una redazione giusta per “i fatti separati dalle opinioni”? Dalla gestione del mensile ereditavo già sei redattori che erano in perfetta sintonia con il giornalismo all’americana e costituirono, quindi, una eccellente base di partenza. Per quelli che sarebbero arrivati in un secondo tempo, avrei puntato su un materiale vergine. C’erano molti giovani che volevano fare i giornalisti: li avrei provati, senza superare i tre mesi consentiti dal contratto. E così feci.
Volli fosse chiaro a tutti che avremmo avuto un unico padrone: il lettore. E seguii l’esempio di Helenio Herrera, l’allenatore dell’Inter che aveva l’abitudine di comunicare con la sua squadra attraverso ordini di servizio: coniai, quindi, una specie di decalogo sul comportamento che ogni giornalista di Panorama avrebbe dovuto osservare.
Primo: siamo venuti dalla luna
per vedere che cosa succede dalle nostre parti
Secondo: il mio ‘io’ non conta niente, ognuno di noi
è un umile raccoglitore di notizie per conto terzi
Terzo: è bene che i redattori abbiano molti amici,
ma si ricordino che il giornale non ne ha nessuno
Su questo terzo punto l’editore fu talmente favorevole da stabilire che sarebbe stato il figlio Giorgio a sbrigarsela con le eventuali contestazioni dei politici. E così andò. Ogni tanto Giorgio mi chiamava e diceva: “Ha telefonato Mario Tanassi (o Mariano Rumor o Luigi Preti). Ha detto questo…”. Tutto lì.
Bussola kennediana
Diedi, poi, alla redazione un possibile riferimento politico ideale: appesi alle pareti del mio ufficio due grandi ritratti dei Kennedy. Uno raffigurava il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy. E l’altro, il fratello Robert, ex ministro della Giustizia, quello che aveva detto una cosa memorabile:
Mandai sulla linea del fuoco una truppa di principianti: fu emozionante e fruttuoso. Ma c’era un settore, quello della politica, che richiedeva esperienza, soprattutto perché andava fatta da cronisti a conoscenza di quel mondo difficile e che fossero refrattari a ogni tentativo di dissuasione. Fu un’intuizione giusta e la prova che fosse giusta ce la diedero Guido Quaranta (arrivato da sinistra) e Lino Rizzi (arrivato da destra), i due colleghi scelti per arare un settore piuttosto ostico in un paese come il nostro: un paese politicamente nevrotico, incerto, sottoposto a scossoni continui, alla ricerca di una democrazia ancora minacciata da scorrerie pericolose di segno opposto.
Pallino nero
Per abituare, infine, tutti all’obiettività e a lavorare in gruppo, fu deciso, come a Time, che i pezzi non avrebbero avuto una firma, anzi sarebbero stati firmati con un pallino nero. Qualche anno passato dietro il pallino nero aiutò i colleghi a trovare il massimo d’equilibrio. Naturalmente, quando fu chiaro che tutti si attenevano alle regole base del buon giornalismo, il pallino nero fu messo in pensione.
Come funzionò l’esperimento? Direi benissimo, a giudicare dal successo di stima che s’accrebbe quando facemmo diversi scoop, imponendoci sulla stampa italiana specialmente all’epoca delle trame nere, delle brigate rosse e della vicenda Moro. Con i Kennedy benedicenti dietro la mia scrivania, Panorama acquistò consensi e simpatie, aiutò molti lettori a orientarsi e, grazie alla professionalità e all’impegno del nostro responsabile amministrativo, Giorgio Trombetta Panigadi, passò dalle 55 mila copie del 1967 alle 269 mila del ’78 e alle 337 mila del ’79 (esclusi 35 mila abbonamenti). Con un utile di quasi 3 miliardi.
Per quel che mi compete, è giusto che non vi nasconda qualche incidente di percorso e i rapporti con il mondo politico. I passaggi più terribili della nostra esperienza furono segnati da quella che fu chiamata “la strategia della tensione” e che fortunatamente riuscimmo a capire e a raccontare in modo spassionato, grazie a una redazione straordinaria. Ma tutto questo scottava perché, sotto pelle, nel paese tanti trescavano per far pendere la democrazia a destra.
Qualcuno non fu d’accordo con questa tresca e pensò bene di venire sotto i ritratti dei Kennedy a vuotare il sacco. Lo vuotarono un deputato e un senatore democristiani, di cui tacerò i nomi, quando, sulla strage di piazza Fontana, avanzammo dopo accurate ricerche, l’ipotesi delle responsabilità dell’estrema destra, manovrata dal potere politico. E l’importante fu che le loro rivelazioni coincisero con la nostra ipotesi: il governo, sulla strage, sapeva. Anzi, aveva le mani in pasta.
La pubblicazione del frutto delle nostre ricerche ci costò una denuncia per diffusione di notizie false, tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico e fui convocato al tribunale di Roma dal giudice Ernesto Cudillo, Pubblico ministero Vittorio Occorsio. Gli dissi che potevo stare lì anche un mese, ma non avrei mai certo fatto nomi. Quanto a quello che stava accadendo in Italia, dovetti essere piuttosto convincente, perché fui rimandato a casa subito, assolto.
Una destra illiberale
Venne anche il momento in cui non era più sufficiente sentirsi come seleniti alla ricerca della verità terrena. Fu nel 1971, quando in Italia nacque quella che si autodefinì “maggioranza silenziosa”, una specie di destra illiberale guidata dal generale Giovanni De Lorenzo. Appena De Lorenzo si recò all’altare della patria a deporre una corona di fiori, insieme ad alcuni giovinastri che invocavano il regime dei colonnelli greci, dedicammo all’avvenimento un servizio, con un fotocolor in copertina che illustrava il raduno, e la scritta “La maggioranza sediziosa”. Con quella copertina, devo ammetterlo, non separammo il fatto dall’opinione, anche perché il fatto conteneva già un’opinione. Ma neppure una virgola di ciò che raccontammo poté essere contestata.
Mai nessun problema? Veramente sì, qualche problema c’è stato: all’interno della Mondadori non tutti ci amavano. Qualche direttore, che aveva a suo tempo aderito alla Repubblica di Salò, diede segni di insofferenza nei confronti di Panorama perché nel ’68 aveva messo in copertina, come uomo dell’anno, Che Guevara. In effetti il Che legava poco con il fascismo repubblichino. Ma non si può dire che, nel ’68, non fosse il personaggio dell’anno. Vedete come le passioni politiche pesavano sui fatti?
“Abbia il coraggio di dirmi no”
Che grande editore è stato Mondadori. Per capire, per esempio, i rapporti che ebbe con me, citerò un piccolo ricordo personale. Un giorno mi disse:
Occasione che, per mia fortuna, non si verificò. (Lamberto Sechi)
A proposito di grandi firme del giornalismo, leggi anche:
- Così Oriana Fallaci mi raccontò Oriana. “Sono nata a Firenze, da genitori fiorentini, il 29 6 1929: Tosca ed Edoardo Fallaci…”: Oriana Fallaci racconta in breve la sua vita.
- Il National Geographic fa 130 anni: il fascino discreto della geografia
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- Un secolo fa nasceva Mario Cervi, braccio destro (e sinistro) di Montanelli. Con lui ha scritto la Storia d’Italia. Così lo ricorda un cronista che gli era vicino
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«Caro Salvatore, pensa che Lamberto Sechi, direttore fino a fine '94, quando gli comunicarono la chiusura de L'Europeo, disse: "Chiamate qualcun altro a spegnere la luce". E Gianni D'Angelo, responsabile della Divisione Periodici della Rcs, chiamò me. Chiesi un consiglio a Lanfranco Vaccari, che mi disse: "Fai un funerale in stile New Orleans, con la band che suona jazz". Così nacque l'idea dell'ultimo numero. Recuperando formato e impaginazione del primo (4 novembre 1945), formato grande, a lenzuolo, con foto di Oliviero Toscani alla redazione che stava per essere sciolta. Oliviero era legato a L'Europeo perchè era stato il primo giornale sul quale aveva pubblicato foto (un servizio su don Lorenzo Milani, con l'articolo di Giorgio Pecorini).
L'ultimo numero de L'Europeo fece il record di vendite nei 50 anni della testata (318mila copie). Il titolo del mio editoriale era: Ultima edizione, e non finisce qui. Nel 2001 sono ripartito, il resto lo sai bene. A Lamberto, qualche anno dopo, dissi (abbracciandolo): "Mi hai fatto spegnere la luce, ma adesso la riaccendo". Era alla presentazione del numero monografico sul cinema, alla libreria Rizzoli in Galleria. Sorrise, ma non era convinto.».
Daniele Protti, attuale direttore.
del mensile L'Europeo, Milano.
Daniele Protti
direttore editoriale de L'Europeo.
via Rizzoli 8, 20132 Milano.
tel 02 25843143.
daniele.protti@rcs.it
grande direttore.
per fortuna non ha visto lo slogan 2012 del suo Panorama: "La tua opinione è un fatto".