Come spiega una lastra di marmo sulla facciata del palazzo di via Armorari 4 angolo via Cesare Cantù, dietro via Orefici, nell’estate del 1918, verso la fine della Grande Guerra, il futuro Nobel 1954 per la Letteratura Ernest Hemingway (foto in apertura), uno dei tanti eroici “ragazzi del Novantanove”, soggiorna al quarto piano di quel palazzo, all’epoca temporaneamente trasformato in ospedale dalla Croce Rossa statunitense.
Riformato per un difetto alla vista dall’esercito del suo Paese, il diciottenne scrittore va al fronte come “assistente volontario di trincea” (in pratica fa il barelliere) e nella notte fra l’8 e il 9 luglio vicino a Fossalta, lungo l’argine del Piave in località Busa del Buratto, è ferito dalle schegge di una granata austriaca e poi colpito alla gamba destra dai proiettili di una mitragliatrice che gli penetrano nel piede e in una rotula.
Curato alla bell’e meglio nell’ospedale da campo della Repubblica di San Marino, il 15 luglio è caricato su un vagone sanitario e il 17 approda a Milano in via Armorari, dove l’operano d’urgenza. In ospedale Ernest (poi decorato con una medaglia d’argento al valor militare e con una croce di guerra) conosce una deliziosa crocerossina del suo reparto, la statunitense d’origini tedesche Agnes von Kurowsky e se ne innamora, anche se alla fine lei non manterrà la promessa di sposarlo. La passione dura solo i mesi della convalescenza ma ispirerà uno dei suoi romanzi più celebri, Addio alle armi (del 1929) come ricorda con orgoglio tutto meneghino la targa sulla facciata dell’edificio.
Dimesso dall’ospedale americano, Hemingway torna al fronte a Bassano del Grappa e, dopo la smobilitazione, il 21 febbraio 1919 è accolto come un eroe nella sua città natale Oak Park, sobborgo di Chicago.
Nel giugno del 1922, con la moglie Hadley Richardson (una pianista di St. Louis sposata l’anno prima e futura madre del loro primogenito John), torna a Milano e intervista Benito Mussolini nella sede del Popolo d’Italia, il quotidiano che dirige. Poi, nel gennaio 1923, in un articolo sul Toronto Daily Star definisce il futuro Duce “uno che ha del genio nel rivestire piccole idee con paroloni” e “il più grande bluff d’Europa”, concludendo: “C’è qualcosa che non va, anche sul piano istrionico, in un uomo che porta le ghette bianche con una camicia nera”. Per questo motivo il regime porrà sempre il veto alla pubblicazione in Italia di Addio alle armi.
Ernest inizia una vita avventurosa tra Parigi, la Cuba di Fidel Castro, la Spagna franchista, le Keys della Florida e i safari nell’Africa Nera. Fino al 2 luglio 1961 quando, depresso e malato, si spara una fucilata in bocca nella sua villa a Ketchum, nell’Idaho.
Se a sorpresa la ricca Capri ospita nei Giardini di Augusto una monumentale statua in marmo bianco di Carrara di Lenin (lì in vacanza nel 1908 e 1910 nella villa dello scrittore Maksim Gorkij) realizzata nel 1968 da Giacomo Manzù, Milano non ha voluto essere da meno e dal 1990, centenario della sua nascita, ricorda anch’essa, ma con una più discreta targa stradale, un altro grande leader rivoluzionario del XX secolo: il presidente nordvietnamita Ho Chi Minh. La lapide risalta sulla facciata di un caratteristico edificio popolare di ringhiera in viale Pasubio 10 angolo via Maroncelli, a Porta Volta.
Secondo l’iscrizione, Ho Chi Minh ha abitato lì «durante le sue missioni internazionali negli Anni Trenta in difesa delle libertà dei popoli». Molto più prosaicamente, attorno al 1933 è un esule braccato su cui pende un mandato d’estradizione francese. Nel 1913 era diventato pasticciere sotto la guida del grande chef Auguste Escoffier al Carlton di Londra e quindi a Milano decide di mettere a frutto quell’esperienza trovando per qualche mese casa e lavoro (come lavapiatti e poi aiuto-cuoco) nel ristorante accanto al quale c’è la targa, l’Antica Trattoria della Pesa (aperta nel 1880 da Napoleone Calatti, la cui famiglia l’ha gestita fino al 1991 quando è subentrato Delio Sassi con la moglie Alba e i figli Francesca e Alessandro) che ancora oggi conserva all’interno un suo ritratto. Il 12 dicembre 2009 l’allora premier Silvio Berlusconi vi ha portato in “pellegrinaggio” il presidente vietnamita Nguyen Minh Triet in visita di Stato in Italia.
E il 5 giugno 2012 l’ambasciatore a Roma Dang Khang Thoai ha deposto una statuetta in bronzo del leader rivoluzionario nella sala del ristorante a lui dedicata.
Ho Chi Minh era arrivato in Italia dopo aver partecipato a Hong Kong nel 1930 alla formazione del partito comunista indocinese. In quel momento si chiama ancora Nguyen Tat Thanh (“colui che sarà vittorioso”), ma dopo la fuga in Europa cambia il nome in Ho Chi Minh (“volontà che illumina”) che mantiene sino alla fine dei suoi giorni, il 3 settembre 1969, quando ancora dirige la lotta di liberazione nel suo Paese. Lasciata Milano, andrà in Unione Sovietica e poi, nel 1938, in Cina per combattere nella guerra civile al fianco delle truppe di Mao Tse-tung.
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A cura di Roberto Angelino per Giannella Channel
Caro Angelino,
giusto per la precisione, Ernest Hemingway il 24 ottobre 1918 tornò al fronte dall’ospedale di Milano non “dimesso”, ma “in licenza”, e non c’è prova che fosse diretto a Bassano del Grappa, dove c’era la Sezione 1 delle ambulanze ARC (American Red Cross). Più probabilmente andò a Rosà (Vi) dove era dislocato il suo reparto, la Sezione 4. Il 28 ottobre era già a Vicenza sul treno per Milano, in preda a un attacco di itterizia. Tornò ingloriosamente all’ospedale di via Armorari, senza vedere dal vivo la fine della guerra. Tutte queste informazioni sono disponibili dalla raccolta di lettere curata dalla prof. Sandra Spanier e dall’ultimo volume curato da Michael Katakis, “Ernest Hemingway, Artifacts from a Life”.
Caro Pozzi, la ringrazio per la precisazione. Anche perché mi consente di approfondire l’incredibile rapporto di Ernest “Ernie” Hemingway con l’Italia e soprattutto con Milano, che lo ricorda e celebra con la targa di cui scrivevo, sul palazzo di via Armorari 4, a due passi da piazza Duomo.
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