Azelio invece che Azeglio. È bastata una G in meno sulla lapide di marmo per interrompere la cerimonia ufficiale e mandare a casa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e quelli delle due Camere, Fico e Casellati, tutti ospiti della imbarazzatissima sindaca di Roma Virginia Raggi.
Mancava solo una G, guarda caso l’iniziale della parola gaffe. Come quella commessa dal Campidoglio all’inaugurazione, il 1° giugno scorso, di Largo Carlo Azeglio Ciampi, nuova verdeggiante piazzetta dedicata al “padre dell’euro”, l’ex inquilino del Quirinale scomparso nel 2016 a 95 anni, livornese di nascita ma romano d’adozione. Sta in uno dei tratti più suggestivi del Lungotevere, quello Aventino, sotto al panoramico Giardino degli Aranci e a due passi dalla Bocca della Verità tanto amata dai turisti stranieri.
E così la targa con il nome sbagliato (che però s’intravvedeva sotto) è rimasta tutto il tempo coperta da un drappo giallo-rosso, i colori dell’Urbe. Mattarella non l’ha più “scoperta” e i presenti si sono accontentati della titubante giustificazione di un dirigente del cerimoniale capitolino: «Scusate, ma montandola l’abbiamo scheggiata e potrebbe cadere…».
Travertino imperfetto, cerimonia rovinata. Con, l’indomani, un florilegio di facezie in stile Pasquino sbocciate sui social («Grazie al cielo non hanno scritto Azejo!»), scuse in conferenza stampa della sindaca Raggi che ha incolpato il marmista di una ditta di Velletri, nei Castelli Romani [in realtà si tratta della Simonedil srl di Artena, paesino ai confini della provincia di Latina, a 16 chilometri da Velletri, ndr], e poi preannunciato sanzioni disciplinari nei confronti di una distratta dipendente dell’Ufficio Gestione Appalti di Installazione e Manutenzione Targhe Toponomastiche e Targhette Numeri Civici della capitale, che esiste davvero e il cui acronimo pare il codice fiscale di un marziano: UGAIMTTTNC. Ah, per uno strano scherzo del destino, l’Ufficio al centro della bufera si trova in un palazzo del Comune di via della Greca, a pochissimi metri da Largo Ciampi.
Dalla Simonedil srl hanno comunque replicato piccati:
«Com’è prassi, abbiamo ricevuto da Roma Capitale le indicazioni su cosa scrivere sulla targa marmorea, quindi abbiamo preparato una bozza e l’abbiamo rispedita alla stessa Roma Capitale senza però ricevere l’indicazione di apportare modifiche. A scrivere “Azelio” anziché Azeglio, dunque, sono stati quelli del Campidoglio».
Ovviamente, la lapide con l’imbarazzante refuso è stata subito rimpiazzata in fretta e furia da un’altra con il nome esatto. Ma ormai la comica frittata internazionale era già stata cotta e digerita a fatica. L’opinionista Concita De Gregorio ha chiosato su la Repubblica:
Segnalo infine che il 5 giugno Marco Bentivogli, ex segretario generale dei metalmeccanici Cisl, ha fatto giustamente notare su Twitter: «Il marmista di Velletri [sic!] ha sbagliato ancora: la data di nascita e di morte andrebbe sotto il nome. Altrimenti sembra che Ciampi abbia esercitato il ruolo di capo dello Stato per 96 anni. #virginiaraggi #bastacosì».
il marmista di Velletri ha sbagliato ancora: la data di nascita e di morte andrebbe sotto il nome. Altrimenti sembra che Ciampi esercitò il ruolo di capo dello Stato per 96 anni. #virginiaraggi #bastacosì pic.twitter.com/OVKjZ5uYyF
— Marco Bentivogli (@BentivogliMarco) June 4, 2021
Per concludere in bellezza la cronaca di questa tragicomica vicenda, visto che di Artena si tratta e non di Velletri, il sindaco di quest’ultima località, Orlando Pocci, del Pd, ha pensato bene di chiedere le scuse ufficiali alla pentastellata collega romana, da lui invitata ad andarlo a trovare: «Un’occasione per farle conoscere la nostra cultura e la bravura dei nostri artigiani». Poi la sua vice Giulia Ciafrei, in quota Liberi e Uguali, ha chiarito: «Se la Raggi conoscesse il dialetto velletrano, saprebbe che noi la “gl” nun ce la levèmo ma ce la mettèmo, come in oglio e coglio… Figuriamoci se sbagliavamo a scrìve Azeglio». Caso chiuso.
Alla “grande tradizione romana dell’approssimazione” a cui ha accennato Concita De Gregorio fanno comunque riferimento tante altre lapidi e targhe con ortografia sbagliata o inesattezze varie sparse qui e là nell’Urbe. È, appunto, una tradizione, da secoli.
Gli strafalcioni storici più inquietanti li vanta forse, all’interno della basilica di San Pietro, il monumento sepolcrale in bronzo del 213° pontefice della Chiesa cattolica, il genovese Giovanni Battista Cybo, eletto nel 1484 col nome di Innocenzo VIII. Opera del Pollaiolo (ritenuta “rivoluzionaria” perché il defunto non compare solo sdraiato su un feretro, ma anche in piena vita nella parte superiore, seduto e in atto di benedire) sta nella navata sinistra, dopo la Cappella della Presentazione.
Qui le incongruenze sono due: nell’epigrafe sotto la statua del Papa in trono c’è scritto che vixit cioè visse otto anni, dieci mesi e 25 giorni, periodo in cui invece regnavit ovvero regnò. Si legge poi che Cristoforo Colombo scoprì il Nuovo Mondo con lui sul soglio di Pietro («Novi orbis suo aevo inventi gloria», ovvero “Nel tempo del suo pontificato la gloria della scoperta di un nuovo mondo”). In realtà Innocenzo VIII morì il 25 luglio – curiosamente giorno in cui si festeggia San Cristoforo – del 1492, una settimana prima che Colombo salpasse da Palos.
In fatto di lapidi funerarie della Capitale, c’è un errore, assai meno grave, anche sulla tomba di Antonio Gramsci (1891-1937), fondatore del partito comunista italiano. Sta al cimitero Acattolico, più noto come cimitero degli Inglesi, al Testaccio, vicino a Porta San Paolo, sul lato nord della Piramide Cestia. Sull’urna funebre spicca la sintetica epigrafe “Cinera Antonii Gramscii”, ma la traduzione in latino è sbagliata: nella lingua di Cicerone cinis cineris è il maschile della terza declinazione, che al nominativo plurale fa cineres e non cinera; il traduttore si è forse confuso con il neutro della seconda declinazione.
Come ha raccontato Corrado Augias nel libro I segreti di Roma,
«Nella raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci del 1957 Pier Paolo Pasolini eleggeva per la prima volta a intenso luogo poetico il cimitero degli Inglesi, un piccolo Père-Lachaise raccolto e severo nella sua compostezza che è romantica e neoclassica insieme, incastonato ai margini della Roma barocca e cattolica».
Ed ecco come il sepolcro di Gramsci è stato reso immortale dai versi di Pasolini:
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo dei partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti: Le ceneri di Gramsci…
Il cimitero degli Inglesi accoglie dal 26 febbraio 1821 le spoglie del poeta londinese John Keats. Con lui, tra gli altri, anche Emilio Lussu, Arnoldo Foà, Carlo Emilio Gadda, Luce d’Eramo e, dal 18 luglio 2019, Andrea Camilleri, che sta nella Zona 3, Riq. 1, Fila 1.
Torniamo alle lapidi capitoline segnate da incredibili cantonate storiche. Una, in piazza San Giovanni in Laterano, coinvolge l’epigrafe alla base dell’obelisco egizio di granito rosso, il più alto (32,18 metri; 45,70 con il piedistallo e la croce in cima) e il più antico della città, conosciuto come Obelisco Lateranense. Eretto nel XV secolo a.C. davanti al tempio di Amon a Tebe per volere dei faraoni Tutmes III e Tutmes IV, fu traslocato ad Alessandria all’epoca di Costantino, nel 337 d.C., in attesa di finire a Costantinopoli, ma all’imperatore non riuscì l’impresa e così sarà suo figlio Costanzo I, vent’anni dopo, a portarlo a Roma a bordo di una nave appositamente costruita e a farlo sistemare (accanto all’Obelisco Flaminio) nel Circo Massimo, dove lo ritroveranno spaccato in tre pezzi nel 1587. Pochi mesi più tardi Papa Sisto V ordinò all’architetto Domenico Fontana di occuparsi dei restauri e poi di piazzarlo nella sede attuale.
Lo strafalcione storico si trova nell’iscrizione in latino sul lato principale, quello rivolto a nord, del basamento dell’obelisco:
Ma questa asserzione, “sfuggita” anche a Sisto V, è inesatta, perché Costantino si convertì solo sul letto di morte, a 63 anni, il 22 maggio del 337 d.C. e non nella basilica di San Giovanni in Laterano bensì in Bitinia, nell’Anatolia nord-occidentale, nel Santuario dei Martiri di Elenopoli, l’antica Drepanum da lui ribattezzata col nome di sua madre (la greca Elena), che proprio lì era nata. E a battezzarlo non fu Silvestro I, 33° Papa di Roma dal 314 al 335, ma il vescovo ariano Eusebio di Nicomedia.
Da ridere – ma forse anche da piangere – sono poi gli incredibili strafalcioni made in Rome sui cartelli in inglese maccheronico apparsi per poche ore dal 9 all’11 ottobre 2011 nel cantiere della stazione Tiburtina, in ristrutturazione dopo un incendio, che indicavano la via per raggiungere la linea B della metropolitana. Sulla placca verniciata di blu, oltre ai simboli della scala e dell’ascensore per disabili stride la tragicomica traduzione di Metropolitana in Anderground, scritta esattamente come si pronuncia a Londra e dintorni la parola Underground. Com’è ovvio, per la serie “la colpa è sempre di qualcun altro”, i dirigenti della Rfi (Rete Ferroviaria Italiana, gruppo Ferrovie) imputarono la negligenza all’azienda esterna a cui avevano appaltato i lavori.
Da tempo a Roma c’è assai scarso feeling anche tra la lingua di Shakespeare e l’Atac, Agenzia del trasporto autoferrotranviario del Comune. Con frotte di pendolari turbati e turisti imbufaliti di fronte alle traduzioni “alla lettera” degli aspiranti linguisti della municipalizzata. Che, per fare un esempio, sul display delle emettitrici dei biglietti alla stazione del metrò Eur Palasport hanno messo nel febbraio 2017 la scritta lampeggiante “does not the rest” (in inglese significa “non riposa”) per indicare che, se finiscono le monete, la macchinetta “non dà il resto”.
La cosa incredibile è che ad accorgersi dell’irresistibile gaffe non è stato qualcuno all’Atac bensì il blog romano Odisseaquotidiana, nome che la dice lunga…
Più veniale è l’inesattezza marmorea che riguarda la Sora Lella (cioè Elena Fabrizi, all’anagrafe Fabbrizi), sorella del mitico Aldo (con il quale non andava molto d’accordo) ed ex “nonna di tutti i romani”, storica ristoratrice sull’isola Tiberina poi lanciata con successo nel mondo del cinema da Carlo Verdone.
Ci sono voluti sette anni perché sulla targa della strada che porta il suo nome (sta tra viale Ave Ninchi e la Nomentana) fosse corretto l’anno della morte, avvenuta quando aveva 78 anni: non il 1997 ma il 1993.
Anche a Brera, in pieno Centro milanese, sull’edificio dove abitò uno scrittore e saggista, Palazzo Bigli Samoyloff in via Borgonuovo 20, di fronte al Museo del Risorgimento, la targa posta nel 2006 dal Comune e dal Rotary indica la sua errata data di morte (1986), ma solo di un anno: quella giusta è il 1985. Il celebre inquilino era dal 1926 Riccardo Bacchelli, creatore proprio quell’anno del primo premio letterario italiano, il Bagutta. Figlio di un avvocato e della pianista Anna Bumiller insegnante di tedesco di Giosuè Carducci, è conosciuto in tutto il mondo per il romanzo Il Mulino del Po. Si deve a lui la cosiddetta “legge Bacchelli” n. 440 dell’8 agosto 1985 che prevede l’erogazione di un assegno straordinario vitalizio a chi si è distinto nel mondo di cultura, arte, spettacolo e sport ma versi in condizioni d’indigenza. Lo scrittore non godette mai della “sua” legge: morì a 94 anni l’8 ottobre del 1985, prima di riuscire a percepirne una sola lira. Ora riposa nel cimitero monumentale della Certosa di Bologna, città dov’era nato nel 1891. Quanto alla targa milanese, in quindici anni né Comune né Rotary hanno trovato il tempo per correggere l’errore. Fidatevi, ho controllato di persona domenica 6 giugno.
Un altro strafalcione storico va segnalato a Parma, su una targa all’entrata della Sala del Consiglio Comunale, inaugurata nel 2020 dal sindaco Federico Pizzarotti. Commemora la Battaglia di Parma del 18 febbraio 1248 terminata con la vittoria dei guelfi sulle truppe dell’imperatore Federico II di Svevia, che però nella targa è diventato misteriosamente Federico II di Svezia. Un errore di per sé non grave, se non fosse che a ingigantirne la portata e a scatenare le battute da parte dei consiglieri della Lega c’è che nel 2020 la città emiliana era “Capitale italiana della Cultura”.
«Una svista di cui mi prendo la responsabilità», ha spiegato il presidente del Consiglio comunale Alessandro Tassi Carboni, «Non avevo controllato che tutto fosse corretto. Tra l’altro, la commissione toponomastica ha modificato il testo aggiungendo “Federico II di Svevia”, che in un primo momento non c’era. Poi non so dove sia stato l’errore, ma dopo tutte le bozze che ci sono passate davanti il testo era stato approvato e la lapide incisa. Ho pensato di non aver bisogno di un aiuto per controllare e invece avrei dovuto chiederlo».
Su Facebook Pizzarotti ha cercato di buttarla sul faceto:
La nuova lapide è stata realizzata dalla ditta De Giuli Marmi di Bordoni, sede in viale della Villetta a Parma, per un ammontare complessivo di 926 euro.
Anche quelli della Lega, comunque, hanno avuto problemi con le lapidi. Mi riferisco all’ex sindaco di Verona Flavio Tosi, che nel giugno del 2012, quand’era primo cittadino, non si accorse dell’erroraccio sulla targa che nel parco cittadino di via Belvedere, davanti alla chiesa di San Felice Extra, celebrava il Verona Campione d’Italia, cioè lo squadrone di calcio composto da campionissimi come Elkjear, Galderisi, Garella, Fanna e Briegel. Nella città di Giulietta anche i bambini sanno che il club scaligero allenato da Osvaldo Bagnoli vinse l’unico scudetto della sua storia pareggiando 1 a 1 a Bergamo con l’Atalanta il 12 maggio 1985, non il 15 maggio come recitava la targa incriminata. L’abbaglio, dovuto alla ditta che l’ha realizzata, è stato subito segnalato alla stessa, che ha provveduto a fornire una nuova lapide a costo zero per il Comune.
Più leggera e divertente è la prossima coppia di strafalcioni su cartelli, entrambi di segnaletica stradale ed entrambi divenuti subito virali nei social. Il primo ha per teatro Nichelino, Comune residenziale di 47 mila abitanti non lontano da Torino e a due passi dalla Palazzina di Caccia di Stupinigi, edificio sabaudo in stile rococò progettato da Filippo Juvara all’inizio del XVIII secolo. Dove per pochi giorni all’inizio di marzo 2021, via Po, l’arteria che dalla centrale via Torino raggiunge il parco giochi di via Milano, è stata ribattezzata via Po’, con l’apostrofo, sufficiente a tramutare l’omaggio al fiume più importante d’Italia nel troncamento della parola “poco”. Nessuno scandalo “alla romana”, però, solo una distrazione dell’ufficio comunale nell’invio delle scritte da far stampare per la nuova targa metallica al posto della vecchia, usurata dal tempo. Come si vede nelle foto sotto, l’hanno tolta subito, però senza sostituirla.
Ancor più da ridere, poi, l’altro strafalcione toponomastico, che un mese prima aveva coinvolto Magnago, nell’Alto Milanese, alle porte di Busto Arsizio. Qui è bastato sbagliare una vocale, una “a” al posto della “u”, per passare dal mondo dell’arte a quello del calcio, dal compianto pittore neorealista Renato Guttuso (1911-1987), siciliano di Bagheria, all’attuale “ringhioso” ex allenatore del Napoli, trasformato per l’occasione in Renato Gattuso. Ci vuole fantasia. L’irresistibile ma menzognero cartello è stato già sostituito. Ora il cognome è quello giusto, mentre il nome dell’artista, per evitare ulteriori figuracce, è stato furbescamente abbreviato con la sola iniziale seguita dal punto.
Una curiosità: anche dopo la rimozione del cartello da parte dell’amministrazione comunale, per parecchi giorni si otteneva sul navigatore il risultato desiderato digitando sia via Renato Guttuso sia via Renato Gattuso. Misteri del Web.
Non male anche il ritorno al futuro apparso come per miracolo su una targa stradale di Ravenna installata nel luglio 2019 nel quartiere San Biagio, tra via Vicoli e via Lercar, nella zona del Comet. Il grossolano errore nella toponomastica cittadina si riferisce all’arteria dedicata ad Alfredo Badiali, chirurgo che ha combattuto in entrambi i conflitti mondiali e poi, dopo l’8 settembre 1943, ha diretto il servizio sanitario dei partigiani della 28ª Brigata Garibaldi. A dar retta alla sua targa, Badiali è morto prima di essere nato. Già, perché come data di nascita era indicato il 1981 anziché il 1891, come se l’illustre medico ravennate deceduto nel 1945 fosse rinato. Ovviamente l’errore consisteva nella data in cui è venuto al mondo, posticipata di 110 anni. Dopo cinque mesi, comunque, lo strafalcione temporale è stato corretto.
Torniamo a Milano, dove un grossolano svarione marmoreo è sopravvissuto alla Storia la bellezza – o bruttezza? – di 139 anni, cioè da quando una lapide ricorda il sacrificio del patriota conosciuto più per la frase che pronunciò in dialetto milanese («Tiremm innanz!», “Andiamo avanti”) che per quello che fece, cioè rifiutarsi di svelare ai gendarmi austriaci i nomi di altri clandestini repubblicani che come lui nella notte tra il 30 e il 31 luglio 1851 avevano appeso sui muri della città («usando mollica di pane») dei manifestini di stampo mazziniano definiti “proclami incendiarj” dai giudici che lo condanneranno a morte.
Mi riferisco alla targa che dal 1882 si trova sull’edificio di via Cantù 10, all’angolo con piazza Pio XI, di fronte alla Pinacoteca Ambrosiana (all’epoca la casa era il civico 3124 di via della Rosa), dove abitava con la moglie Luigia e il loro figlioletto il tappezziere Amatore Sciesa (1814-1851). Incredibilmente sulla targa Amatore si è trasformato in Antonio, nome col quale il povero Sciesa verrà ricordato per qualche decennio. Pare che il marmista sia stato fuorviato da un errore del cancelliere che nella concitazione del sommario processo-lampo, il 2 agosto nel cortile del Castello Sforzesco, avrebbe attribuito al patriota non il suo vero nome bensì quello dell’ufficiale Antonio Ghezzi, al comando della ronda notturna che due giorni prima l’aveva arrestato in corso di Porta Ticinese con in tasca sedici copie del volantino “proibito”. In cui, con lessico giacobino, s’invitavano i milanesi a reagire: «I nostri tiranni pongono le mani nel sangue e nella roba dei popoli, senza legge né fede; e noi ci difenderemo nell’oscurità, sinché non potremo farlo alla luce del sole. Se siete servi, rassegnatevi e servite; ma se siete uomini, resistete e un giorno vedremo i nostri figli ballare intorno agli alberi della libertà».
Già pochi minuti dopo la sentenza, Sciesa venne fucilato in un altro cortile del Castello. Non si riuscì a impiccarlo, come avrebbe voluto il feldmaresciallo Josef Radetzky governatore generale del Lombardo-Veneto, perché il boia era appena morto. Ne avevano convocato in fretta e furia uno da Bergamo, tale Reisinger, che però, lamentandosi di non aver trovato un “tirapiedi” (l’aiutante che si appende alle scarpe dell’impiccato per essere certi che sia soffocato) alla sua altezza, si rifiutò di eseguire la condanna.
Quanto alla lapide in via Cantù, resta il mistero su perché finora nessuno abbia corretto il nome del tappezziere-patriota. Per la verità, nel marzo 2007 il leghista Massimiliano Orsatti, all’epoca assessore comunale al Turismo e alle Identità, fece una solenne promessa ai milanesi: «L’errore verrà sicuramente rettificato. La vecchia targa sbagliata la lasciamo, ma al suo fianco ne piazziamo un’altra, con il nome giusto, come il povero Amatore Sciesa si merita». Ho controllato io stesso: più che da assessore, era solo una promessa da marinaio.
E a un’altra più che evitabile sciatteria nella conservazione della memoria cittadina, questa volta di Bologna, s’è posto fine solo trentotto anni dopo l’attentato compiuto il 2 agosto 1980 dai terroristi di estrema destra nella stazione del capoluogo emiliano che fece 85 morti e oltre 200 feriti: il Comune ha corretto il nome di due vittime scritto in modo impreciso sulla lapide posta nella sala d’aspetto di seconda classe, quella devastata dalla bomba. Per carità, piccoli errori di ortografia, una dieresi mancante su un cognome tedesco e una lettera inesatta in uno italiano. Tuttavia, come spiegò Gilberto Dondi sul Resto del Carlino,
L’opera di correzione dei refusi sulla lapide (successivamente andranno corrette anche le altre due targhe in ricordo della strage, una davanti alla stazione, l’altra in piazza Nettuno) è stata affidata nel luglio 2018 dal Comune a una ditta specializzata, la Aedis, che per lo smontaggio delle lettere in bronzo, la stuccatura dei fori con resina a colore, l’aggiunta di una dieresi e il rimontaggio corretto delle lettere ha presentato un preventivo di 273 euro. Come mai allora, data l’esiguità della spesa, si è atteso così a lungo? Forse proprio perché l’intervento costava così poco?
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