Lancio con vigore un appello alle autorità di Milano: regalate al più presto alla città almeno una targa o – meglio – una statua in memoria di uno dei suoi figli più tormentati ma illustri, il geniale Michelangelo Merisi (1571-1610), universalmente conosciuto come Caravaggio, vera rockstar dell’arte del Seicento, noto per l’uso personalissimo delle luci e delle ombre. La cui nascita tra le mura meneghine è stata certificata solo nel febbraio 2007 dopo il ritrovamento dell’atto di battesimo negli archivi del Museo Diocesano di corso di Porta Ticinese 95, nel Liber Baptizatorum della parrocchia di Santo Stefano in Brolo.

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La Basilica di Santo Stefano in Brolo, a due passi dall’università Statale di Milano. Negli archivi del Museo Diocesano, nel libro dei battezzati della parrocchia di Santo Stefano, è stato ritrovato nel 2007 l’atto di battesimo di Caravaggio e qui il collaboratore di Giannella Channel propone di sistemare una nuova targa, o la statua, dedicata al grande pittore.

Proprio lì, a due passi dall’università Statale, oggi propongo di sistemare la nuova targa, o la statua, di fronte alla basilica nell’omonima piazza nel cuore del Verziere. Magari, ma forse i tempi sono troppo stretti, entro il 28 gennaio 2018, quando a Palazzo Reale in piazza Duomo si conclude la grande mostra Dentro Caravaggio, curata da Rossella Vodret, con venti capolavori del Maestro riuniti per la prima volta (per info: tel. 02-92.80.03.75; orari: 9.30-20, giovedì, venerdì e sabato 9.30-22.30, lunedì 14.30-22.30; entrata 13 €; catalogo Skira).

La basilica di Santo Stefano in Brolo conserva il corpo di San Carlo Borromeo ed è anche nota perché durante la festa del santo patrono del 1476 il dispotico duca Galeazzo Maria Sforza venne ucciso da una congiura di nobili milanesi. Nel febbraio 2015 la Diocesi l’ha trasformata in parrocchia dei migranti, dove si celebrano messe in tagalog, la lingua delle Filippine, per i fedeli di quel Paese residenti in città, e anche in spagnolo per tutti i cristiani dell’America Latina.

Dieci anni fa, dicevo, è stata messa una buona volta la parola fine all’annosa disputa sul luogo d’origine del pittore. Per secoli s’era creduto che fosse venuto al mondo nel 1573 nella cittadina orobica di Caravaggio (dove sono purtroppo andati persi gli archivi parrocchiali di quel periodo), dov’erano nati i suoi genitori, Fermo Merisi e Lucia Aratori, andati all’altare due anni prima. Loro testimone di nozze è il marchese di Caravaggio e conte di Galliate Francesco I Sforza (che nel 1567 aveva sposato per procura la dodicenne Costanza, secondogenita del nobile romano Marcantonio Colonna, eroe della battaglia navale di Lepanto del 1571 contro gli Ottomani) al cui seguito la coppia si trasferisce a Milano per motivi di lavoro, andando a vivere nel palazzo (oggi distrutto) del loro nobile benefattore nell’attuale piazza Missori. Non è chiaro se Fermo sia solo il sovrintendente alla manutenzione degli edifici del marchese o un magister, cioè uno degli architetti nel cantiere della Fabbrica del Duomo.

A Milano sua moglie mette al mondo tre figli: Michelangelo e poi Fermo e Lucia (stesso nome dei genitori), ma solo gli ultimi due appaiono nel registro dei battezzati di Santa Maria della Passerella, a Porta Orientale, nella via dietro piazza Fontana che ancora oggi porta quel nome. Del primogenito, invece, nessuna traccia. Almeno fino al 2007, quando viene finalmente alla luce l’atto di battesimo, datato 30 settembre 1571. Che recita: «Adi 30 fu batz.o [battezzato] Michel angelo f[ilio] de d[omino] Fermo Merixio et d[omina] Lutia de Oratoribus/ compare [cioè padrino] d[omino] Fran[cesco] Sessa». E con ogni probabilità il parto è avvenuto il 29 settembre, giorno di San Michele Arcangelo, da cui il nome Michelangelo. A ritrovare il certificato di battesimo è un pistoiese con il pallino dell’arte e dell’archivistica, l’ex manager della Fininvest in pensione Vittorio Pìrami.

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L’atto di battesimo di Michelangelo Merisi, universalmente riconosciuto come Caravaggio.

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Il 20 ottobre 1577 il futuro pittore ha appena compiuto sei anni quando perde padre e nonno: da pochi mesi la famiglia è rientrata a Caravaggio al seguito della corte di Francesco I nella speranza di sottrarsi alla peste, che però li raggiunge anche lì. Terminata l’epidemia, nell’aprile 1584 Michelangelo torna a Milano e sua madre, in cambio di quaranta scudi d’oro, lo manda per quattro anni come apprendista nella bottega meneghina di Simone Peterzano, un manierista bergamasco che in calce al suo autoritratto si definisce in modo pomposo “allievo a Venezia di Tiziano”, nella cui abitazione a Porta Orientale va ad abitare, nella casa del Corpus Domini della chiesetta di San Giorgio al Pozzo Bianco, poi abbattuta nel 1787, che sorgeva all’altezza dell’attuale numero civico 5 di via San Pietro all’Orto, traversa di corso Vittorio Emanuele.

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Caravaggio: autoritratto di Simone Peterzano.

Dal 1588 in poi le notizie sul soggiorno dell’artista a Milano sono frammentarie e nebulose. Almeno fino al 1592, pochi mesi dopo la morte della madre, quando Caravaggio risolve le pratiche ereditarie disfacendosi della sua parte di patrimonio familiare prima di raggiungere Roma, forse passando da Venezia. Degli ultimi anni meneghini si sa solo che lo squattrinato e rissoso Michelangelo frequenta ogni notte un’osteria nella contrada del Guasto, oggi via Anfiteatro a Brera, dove si trova anche la casa di Peppa, giovane alla quale giura amore eterno e i cui protettivi fratelli gli danno la caccia quando ovviamente non mantiene la promessa di sposarla. Lo trovano e iniziano a pestarlo, ma lui riesce a scappare.

Oltre ai quadri e a una serie di radiografie che svelano tutti i segreti nascosti sotto le tele di Caravaggio, nella grande esposizione a Palazzo Reale di Milano ci sono anche documenti originali utili per saperne di più sui tanti processi a cui il pittore andò incontro nella sua tormentata esistenza. Alcune carte si riferiscono al periodo romano e parlano di garzoni di barbieri di cui Michelangelo era cliente che lo accusano di furti o conti mai saldati. C’è anche un attestato del “caporale dei birri” che nel 1605 lo ha denunciato per porto abusivo d’armi e l’inventario di un notaio capitolino che elenca i beni sequestrati nella sua casa per via della pigione non pagata da sei mesi a Prudenzia Bruni, vedova del mercante di pelli Bonifacio Sinibaldi, conoscente di Caravaggio, che l’8 maggio 1604 gli ha affittato un’abitazione su due piani in vicolo di San Biagio a Campo Marzio, oggi via del Divino Amore 19.

Con otto arresti in sette anni quella dell’artista a Roma è un’esistenza assai movimentata. Vivrà poi in perenne fuga dopo aver assassinato il 28 maggio 1606 nel Campo Marzio della capitale il nobiluomo Ranuccio Tomassoni, suo rivale in amore con la cortigiana d’origine senese Fillide Melandroni, in una rissa causata da un fallo di gioco durante una partita di pallacorda, antenata del tennis, anche se si pensa che quello sia solo un pretesto e in realtà i due si odiavano per la loro appartenenza a due opposte fazioni: Ranuccio è “filo spagnolo” mentre Michelangelo è protetto dall’ambasciatore di Francia.

Fillide è stata per cinque volte modella nei quadri di Caravaggio ed è l’unica donna da lui dipinta in un ritratto a mezzo busto, nel 1597.

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Caravaggio. Fillide Melandroni in Ritratto di una cortigiana.

L’opera è poi finita in cenere tra le fiamme che nel maggio 1945 a Berlino, nella zona controllata dai russi, hanno distrutto la Flakturm Friedrichshain, una delle tre torri in cemento armato volute cinque anni prima da Adolf Hitler per mettere al sicuro oggetti, statue e quadri dei musei della capitale. Qualcuno, però, sospetta che l’incendio sia stato solo un pretesto per far sparire il Caravaggio, insieme con alcuni quadri di Rubens e Goya.

Ma torniamo a Roma nel 1606. Alla fine del processo per l’assassinio di Ranuccio un bando papale condanna il pittore alla decapitazione, «che può esser eseguita da chiunque lo abbia riconosciuto per strada, riscuotendone poi la taglia», e da allora nei suoi lavori compaiono ossessivamente macabri personaggi con la testa mozzata. Nell’esposizione milanese, per esempio, tra le venti tele esposte c’è Salomè con la testa del Battista, in prestito dalla National Gallery di Londra.

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Caravaggio, Salomè con la testa del Battista (1607 o 1610).

Due dei più famosi quadri con questo macabro soggetto sono poi il tondo Medusa Murtola, agli Uffizi di Firenze, con i suoi capelli di serpente e la bocca spalancata in un urlo, e la Decollazione di San Giovanni Battista (1608), tra l’altro gli unici due a essere stati firmati da Caravaggio, entrambi con il sangue. Che, in compenso, per ben undici volte ha ritratto il proprio volto all’interno dei propri lavori.

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Caravaggio, Medusa Murtola (1596).

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Caravaggio, Decollazione di San Giovanni Battista (1608). A destra, un particolare.

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In realtà, già nel 1599 aveva mostrato una decapitazione in Giuditta e Oloferne, con l’episodio biblico in cui, per salvare il suo popolo dalla dominazione straniera, la vedova ebrea Giuditta decapita il condottiero assiro Oloferne dopo averlo sedotto. E a fargli da modella per Giuditta è proprio Fillide Melandroni. Anche questo quadro è in mostra a Palazzo Reale, prestato dalle Gallerie Nazionali d’Arte Antica capitoline.

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Caravaggio, Giuditta che taglia la testa a Oloferne (1598-1599).

Assieme a Fillide era arrivata nella capitale da Siena un’altra cortigiana, Annuccia Bianchini dai lunghi capelli rossi, “figlia di prostituta e anche lei prostituta dall’età di dodici anni”. Che è presente in quattro opere di Caravaggio, una delle quali, in arrivo dalla Galleria Doria Pamphilj di Roma, è temporaneamente esposta a Milano, cioè Maddalena penitente, del 1597.

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Caravaggio, Maddalena penitente (1597).

Dopo la condanna alla decapitazione, Caravaggio riesce comunque a fuggire aiutato dal principe Filippo Colonna, forse anch’egli attivo nella rissa finita con la morte di Ranuccio, che gli offre asilo nei feudi di famiglia, prima a Zagarolo, poi a Palestrina e infine sui colli Albani, dove Michelangelo porta a termine San Francesco in meditazione, esposto anch’esso nella prestigiosa rassegna milanese.

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Caravaggio, San Francesco in meditazione (1606).

L’artista raggiunge poi Napoli e per un anno si nasconde nei Quartieri Spagnoli, dove dipinge numerosi capolavori, tra cui Flagellazione di Cristo, del 1607, in mostra per quattro mesi a Palazzo Reale.

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Caravaggio, Flagellazione di Cristo (1607).

Nel 1607, sempre per intercessione dei Colonna, va a Malta dove, nel tentativo di guadagnarsi la grazia papale, entra in contatto con il gran maestro dell’Ordine dei cavalieri di San Giovanni Alof de Wignacourt, a cui fa un ritratto. Uno a lui e uno al settantenne cavaliere di Malta Antonio Martelli, oggi visibile a Milano.

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Caravaggio, Ritratto di un cavaliere di Malta (1608).

Dopo dodici mesi di noviziato, il 14 luglio 1608 Caravaggio è nominato “cavaliere di grazia”, rango inferiore rispetto ai “cavalieri di giustizia” di origine aristocratica. Tutto per lui pare andar bene finché non viene arrestato per una zuffa terminata col ferimento di un cavaliere, l’astigiano Giovanni Rodomonte Roero conte della Vezza. Il 6 ottobre lo rinchiudono nel carcere del Forte Sant’Angelo, di fronte a La Valletta, da dove evade – sembra con l’aiuto di Antonio Martelli – scavalcando con il favore delle tenebre il muro di cinta. Due mesi dopo l’Ordine lo espellerà con disonore perché «membro fetido e putrido».

Caravaggio trova dapprima rifugio in Sicilia, a Siracusa, poi nel 1609 torna a Napoli, dove una notte quattro uomini lo aggrediscono a pugni e calci nella Taverna del Cerriglio, la più celebre della città, in via Sedile, nell’intrico malfamato dei vicoli del porto. Sopravvive all’attacco, ma «è cosi fattamente ferito, che per li colpi quasi non più si riconosce». Le coltellate gli hanno reciso un nervo sul lato sinistro del volto e inciso profondamente la fronte, ferite di cui porterà per sempre i segni. E infatti nel suo quintultimo dipinto, Davide con la testa di Golia (nella Galleria Borghese di Roma), eseguito alla fine del 1609 e accluso alla domanda di grazia che invia al cardinale Scipione Borghese nipote di Papa Paolo V, sul suo viso “decapitato” si notano i denti marci e lo sfregio sulla fronte rimediato nell’aggressione alla locanda.

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Caravaggio, Davide con la testa di Golia (1609 o 1610). A destra, un particolare.

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A Napoli il pittore risiede a Palazzo Cellammare, nel quartiere San Ferdinando, di proprietà della marchesa Costanza Colonna, dove lo raggiunge la notizia che il pontefice sta davvero pensando di revocare a breve la sua condanna a morte. E così, nei primi giorni di luglio 1610, si mette in viaggio per mare diretto a Roma, dove non arriverà mai perché muore a Porto Ercole, all’Argentario, il 18 luglio, sembra per un’infezione intestinale trascurata, e lì viene seppellito in una fossa comune.

Nel 2010 alcuni scienziati dell’università di Bologna, dopo mesi di analisi di biologia scheletrica e la comparazione del Dna di tutte le ossa rinvenute nella fossa con quello dei discendenti dei suoi fratelli, i Merisio di Caravaggio, annunciano di aver trovato (ma in questi casi la certezza scientifica c’è solo all’85 per cento) i resti di Michelangelo Merisi, tra l’altro saturi di piombo e mercurio, sostanze usate abitualmente dai pittori dell’epoca per preparare i colori.

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Caravaggio: la tomba a Porto Ercole.

Nel luglio 2010 le ossa sono esposte per una settimana a Caravaggio; poi riportate in una teca di vetro via terra a Cala Galera all’Argentario e da lì, sul Barbarossa, il brigantino a due alberi di Cesare Previti, ex ministro della Difesa di Berlusconi, fino a Porto Ercole, dove prima le sistemano a Forte Stella e poi, nel 2014, in un pacchiano monumentale ossario su un altare di cemento armato nel parco funerario creato in un vicolo. Visto che si tratta di un’opera imbarazzante dal punto di vista estetico, forse le spoglie di Caravaggio dovrebbero per davvero essere consegnate alle autorità della sua città natale, accogliendo la richiesta avanzata nel 2010 dall’allora sindaco di Milano Letizia Moratti che propose di piazzarle nel Famedio del Monumentale, dove riposano in eterno i più illustri cittadini ambrosiani. Amen.

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Roberto Angelino, giornalista milanese, ha lavorato per 25 anni al settimanale Oggi; dal 2004 al 2007 è stato vicedirettore di Gente, poi è tornato a Oggi per curare gli Speciali e il bimestrale Oggi Foto. Nel 2015 ha pubblicato con Salvatore Giannella presso l’editore BookTime il volume Milano 50, con le schede dei 350 locali imperdibili della città sede dell’Expo, anticipate e poi sviluppate con successo su Giannella Channel. Sempre per i tipi di BookTime, la casa editrice di Gerardo Mastrullo, ha pubblicato altri due volumi: nel maggio 2016 Milano, mettiamoci una pietra sopra e, due mesi dopo, Milano al verde – Guida agli agriturismi di Milano e Provincia. L’ultima sua fatica libraria è Cover Story (Vololibero Ed., 2018) che racconta storie, segreti ed emozioni di 150 copertine dei più bei dischi italiani.

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