Nome Eleonora
Cognome de Fonseca Pimentel
Data di nascita 13 gennaio 1752
Luogo di nascita Roma
Data di morte 20 agosto 1799
Nazionalità Italiana
Segni particolari Patriota, poetessa e giornalista
 

Forse un giorno ci darà sollievo ricordare perfino questo

(parole pronunciate in latino, mentre saliva sul patibolo, da Eleonora de Fonseca Pimentel. Frase ripresa dall’Eneide di Virgilio, usata da Enea per rianimare i suoi compagni nei momenti difficili)

Il bel volto di una donna ha preso forma sulla facciata dell’ex mercatino di Sant’Anna di Palazzo, a Napoli: è il volto giovane e fiero di Eleonora de Fonseca Pimentel, l’eroina della Rivoluzione Napoletana del 1799, che svetta tra i palazzi dei Quartieri Spagnoli, con i capelli al vento, le labbra morbide e gli occhi malinconici, ma determinati. Il murale è firmato da Leticia Mandragora ed è un segno di speranza in una piazza abbandonata e spesso fotografata con i cumuli di rifiuti abbandonati.

Quell’immagine, che qualcuno vorrebbe cancellare, ci riporta, come un film, indietro nel tempo, in un giorno particolare. E’ il pomeriggio del 20 agosto 1799, Piazza Mercato, uno dei luoghi storici di Napoli. La giornata è calda e afosa. La piazza gremita. Tutti attendono in silenzio. Al centro della piazza è allestito un patibolo. Da due giorni sono stati trasferiti otto condannati a morte, colpevoli, insieme ad altri, di aver sobillato la popolazione, di aver destituito i Borbone e di proclamato la cosiddetta “Repubblica napoletana”.

Tra gli otto patrioti condannati, protagonisti della fallita rivoluzionje antiborbonica e liberale (la Repubblica fu proclamata il 21 gennaio 1799 e a giugno era già schiacciata) vi è una donna, “vestita di bruno, colla gonna stretta alle gambe”. È coperta di insulti e sputi da lazzaroni. Per ultima sale sul patibolo. Quella donna si chiama Eleonora Fonseca Pimentel, ha deciso di eliminare dal suo cognome il “de” che la lega alla nobiltà. Il popolo di Napoli in quella occasione non fa bella figura. Nella piazza si leva un canto:

’A signora ‘onna Lionora che cantava ‘ncopp’’ o triato, mo’ abballa mmiez’ ‘o Mercato. Viva ‘o papa santo ch’ha mannato ‘e cannuncine pe’ caccià li giacubine. Viva ‘a forca ‘e Mastu Dunato! Sant’Antonio sia priato!

Perfino il boia, Tommaso Paradiso, che non aveva esitato a mozzare le teste di Gennaro Serra e di Giuliano Colonna (due degli sfortunati compagni di Eleonora) ebbe un’esitazione. Eleonora allungò il collo verso il cappio. Aveva chiesto, invano, di essere decapitata, privilegio riservato ai nobili. Non le avevano concesso neanche un laccetto per chiudere la gonna: sghignazzava il pubblico vedendola penzolare senza mutande, l’atto più infame e impietoso dei Borbone per denigrare, umiliare e ridicolizzare Eleonora nella sua intimità di donna.

Quel giorno Eleonora perse la vita ma per lei si aprirono le porte della Storia: il suo sacrificio la renderà immortale.

Eleonora de Fonseca Pimentel

Eleonora de Fonseca Pimentel vista dall’illustratore e art director Giancarlo Martelli per il libro “Dalla chioma di Athena. Donne oltre i confini”, di Valeria Palumbo, Odradek editore. In apertura: il murale dedicato a Eleonora nei Quartieri Spagnoli di Napoli.

Figlia di nobili portoghesi

Eleonora nasce a Roma, in via di Ripetta 22, il 13 gennaio 1752 da genitori nobili portoghesi: la madre è Caterina Lopez, il padre Clemente Henriquez de Fonseca Pimentel Chaves è marchese. Nel 1759 i gesuiti sono espulsi dal regno di Portogallo, e la famiglia di Eleonora per evitare eventuali ritorsioni è costretta a trasferirsi da Roma alla tollerante Napoli. (Il viaggio è magnificamente descritto in quel che resta il più bel libro su Eleonora, Il resto di niente, di Enzo Striano, Rizzoli, 1986. Dal romanzo storico è stato tratto un film omonimo nel 2004, diretto dalla regista Antonietta De Lillo, presentato fuori concorso alla 61ª Mostra d’arte cinematografica di Venezia).

La Napoli di fine Settecento è la città più popolosa dell’intera penisola. Il censimento del 1742 aveva registrato poco più di 300 mila abitanti. Più 100 mila stranieri. Il 10 per cento dei locali erano i cosiddetti «lazzari» (dal vocabolo spagnolo laceria che sta ad un tempo per lebbra e miseria). Il regno di Carlo di Borbone ha reso Napoli, una città amata e ammirata in Europa, e tale apprezzamento continua a crescere anche dopo l’ascesa al trono di Ferdinando IV.

A Napoli, Eleonora, sedicenne, studia greco e latino ma anche matematica, astronomia e chimica. Per lei si aprono i salotti delle classi elevate, dove incontra “intellettuali colti, liberali, illuminati (e disinteressati) come Napoli non si ritroverà più ad avere. Li ricorda Valeria Palumbo nel suo bel volume di ritratti e biografie di donne oltre i confini “Dalla chioma di Athena”, Odradek edizioni, 2010: su tutti il giurista Gaetano Filangieri (ammirato non solo da Benjamin Franklin, ma anche da Goethe, per la «nobiltà temperata dall’espressione di uno squisito senso morale», scrisse l’autore del Viaggio in Italia), e poi Ferdinando Galiani, Mario Pagano, Francesco Conforti, Domenico Cirillo, Antonio Jerocades, Melchiorre Delfico, Carlo Lauberg, Gabriele Manthoné, Ignazio Ciaia”.

Eleonora viene ammessa all’Accademia dei Filateti con lo pseudonimo Epolinfenora Olcesamante, l’anagramma del suo nome. Scrive sonetti con lo pseudonimo di Altidora Esperetusa. Non in grandissima produzione ma per le occasioni socialmente rilevanti come ad esempio “il tempio della Gloria”, composto in occasione delle nozze di Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina d’Austria oppure quelli composti in occasione dei nuovi nati della famiglia reale.

Nel 1778, venticinquenne, sposa il tenente Pasquale Tria de Solis, di quasi vent’anni più vecchio. Eleonora accetta il matrimonio solo per far contento papà.

Per Eleonora sono sette anni tristissimi, segnati da un’infelicità coniugale, maltrattata dal marito, segnata da due aborti ma soprattutto dalla morte, per vaiolo, del figlio Francesco, di appena 8 mesi. È a lui che Eleonora dedica e compone i “sonetti di Altidora Esperetusa in morte del suo unico figlio”, otto sonetti pieni di dolore e sofferenza in cui emerge l’animo sensibile e romantico di Eleonora.

Nonostante le violenze fisiche e morali da parte del proprio marito e il dolore e la tristezza per il lutto subito, Eleonora trova la forza di ottenere il divorzio.

Giungiamo nel 1789: Napoli è «al massimo del suo splendore»: il regno di Carlo di Borbone aveva donato alla capitale del Mezzogiorno un’immagine prestigiosa. Per via di «riforme sociali e sfavillanti progetti edilizi» l’antica Partenope era sempre più apprezzata in Europa e tale apprezzamento continuò a crescere anche dopo l’ascesa al trono di Ferdinando IV. Eleonora loda in un pamphlet le leggi speciali concesse da Ferdinando IV alla real colonia di San Leucio, fondata nel 1778 nel Casertano per gli operai delle sue seterie. Si trattava di un esperimento all’avanguardia nel mondo, che avrebbe fatto invidia, due secoli dopo, pure ad Adriano Olivetti: prima scuola dell’obbligo d’Italia femminile e maschile; 11 ore di lavoro contro la media europea di 14; case fatte a regola d’arte, con acqua corrente e servizi igienici; cassa comune di carità, tutti uguali di fronte alla legge; proprietà privata abolita; anziani e malati assistiti.

Quello stesso anno in Francia la Rivoluzione sancisce i princìpi di uguaglianza e libertà. Per Eleonora un risveglio: prende consapevolezza della necessità di prendere le distanze dai Borbone, ma soprattutto i princìpi della Rivoluzione francese risvegliano nella coscienza di Eleonora quei valori che lei ha già avuto modo di apprendere negli ambienti intellettuali napoletani. (La storia di quella rivoluzione è al centro di un recente libro, Eleonora Pimentel Fonseca di Antonella Orefice, Salerno, 2019. Da segnalare anche: Maria Antonietta Macciocchi, Cara Eleonor, Rizzoli, 1993; Mario Forgione, Eleonora Pimentel Fonseca (Newton & Compton, 1999); Elena Urgnani, La vicenda letteraria e politica di Eleonora de Fonseca Pimentel, La Città del Sole, 1998).

Eleonora offre la sua casa per le riunioni degli intellettuali che vedono di buon occhio le idee politiche rivoluzionarie e auspicano l’arrivo dei francesi in Italia. La reazione dei Borbone non si fa attendere. Nel 1797 viene tagliato il sussidio reale precedentemente concesso a Eleonora dopo la morte del padre. Nel 1798 Eleonora viene arrestata e rinchiusa nel carcere di Vicaria.

Nella solitudine di quell’infernale galera, Eleonora scrive un sonetto sprezzante e aspro “Contro Maria Carolina: Rediviva Poppea, tribade impura”.

Rimane a Vicaria fino alla metà di gennaio 1799 quando, scappati i sovrani, è liberata dai Lazzari. Subito entra a far parte del comitato dei patrioti, propulsori dell’instaurazione di una repubblica democratica. Sono giorni magici. Nel febbraio 1799 viene chiamata a dirigere il “Monitore Napoletano”, il giornale che si occupa di pubblicare le notizie e i provvedimenti politici emanati dalla Repubblica. Il primo numero esce il 2 febbraio. Ne furono stampati 35, l’ultimo l’8 giugno, mentre il panorama si faceva sempre più cupo.

Il giornale ben presto si trasforma in strumento di lotta. Eleonora è la protagonista indiscussa de Il Monitore. Scrive la maggior parte degli articoli, raccoglie in prima persona le notizie partecipando alle assemblee del governo provvisorio ma raccogliendo gli umori della gente. Per Eleonora il giornale deve avere un ruolo pedagogico, educare il popolo all’ascolto e alla comprensione di ciò che accade nell’interesse della comunità. La propaganda in dialetto napoletano e una gazzetta in vernacolo da leggere nelle pubbliche piazze e che riporta i provvedimenti presi dalla Repubblica sono i rimedi che la Pimentel propone con successo per avvicinare e coinvolgere tutti gli strati sociali agli ideali repubblicani.

Non solo, Eleonora dimostra di essere giornalista di altissima integrità morale. Non ha esitazione, infatti, a denunciare pubblicamente le “manovre economiche estorsive” di un generale francese (Antonio Gabriele Venanzio Rey) nei confronti della popolazione. Il numero precedente aveva rivelato una frode del generale Guillaume Duhesme. Rey cercò di censurare il giornale e di fare arrestare il tipografo, Gennaro Ciaccio. La Pimentel tiene duro, i suoi articoli smascherano le ruberie dell’ufficiale superiore ottenendo la sua rimozione. Benedetto Croce un secolo dopo, nel 1947, nel saggio dedicato a Eleonora, dà risalto a quell’articolo e lo porta come esempio di integrità morale.

Purtroppo la parentesi della Repubblica Napoletana sta chiudendosi inesorabilmente. Sebbene i francesi stiano per lasciare Napoli, Eleonora, sulle pagine del Monitore, esorta ancora il popolo:

Un popolo non si difende mai bene da se stesso… perché la libertà non può amarsi a metà, e non produce i suoi miracoli che presso popoli che tutti affatto liberi.

Ma il popolo non capiva e i liberali non avevano pratica di governo. Il 13 giugno l’esercito di Fede inviato dal Re, guidato dall’astuto cardinale Fabrizio Ruffo, entra in città e il 19 viene firmata la capitolazione e concessa un’amnistia a tutti i patrioti della Repubblica.

Eleonora, come gli altri, viene imbarcata su una nave, direzione Tolone. Il 30 giugno però Re Ferdinando, rientrato a Napoli, ritira la capitolazione, istituisce la Giunta di Stato. Comincia la rappresaglia nei confronti degli insorti. I seguaci della Rivoluzione, individuati spesso in modo approssimativo, vengono uccisi, fatti a pezzi: parti del loro corpo vengono arrostite e mangiate; le teste decapitate prese a calci in un macabro gioco di strada.

Per Eleonora si aprono nuovamente le porte del carcere di Vicaria, in attesa del processo.

Ad agosto il Giudice Speciale pronuncia la sentenza di morte per impiccagione. Il 18 agosto Eleonora è trasferita nella cappella del Castello del Carmine e assistita dai Padri della Compagnia dei Bianchi della Giustizia, congregazione i cui membri, sfilano incappucciati con il triste compito di accompagnare e assistere i condannati a morte nelle ultime ore di vita. Due giorni dopo, il 20 agosto del 1799 Eleonora viene impiccata in Piazza del Carmine.

Ecco. Siamo ritornati al principio della nostra storia. Eleonora Pimentel Fonseca sta per essere giustiziata. Quel giorno, come viene riportato dalle cronache, “prima di avviarsi al patibolo, volle bere il suo caffè. Come avebbe cantato Fabrizio De André due secoli dopo (Don Raffae’):

Ah, che bellu ccaffè

pure ‘n carcere ‘o sanno fa

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murale dedicato a Eleonora nei Quartieri Spagnoli di Napoli

(Qui e in apertura) Il murale dedicato a Eleonora de Fonseca Pimentel nei Quartieri Spagnoli di Napoli.

Perché Eleonora

Eleonora dimostra e ha dimostrato cosa significa scegliere da che parte stare, sempre. Non ha esitato a chiedere che il suo matrimonio fatto di violenza e soprusi venisse annullato, anche se questo le è costato un pubblico, scandaloso giudizio. Non ha esitato a rinnegare il suo cognome nobile per dedicarsi al popolo, anche se questo le è costata la vendetta dei Borbone. Non ha esitato a schierarsi per la libertà, anche se questo le è costata la vita. È l’amore per la libertà che muove le azioni di Eleonora. Ne sono la prova, le parole da lei scritte sul primo numero de Il Monitore:

Siam liberi, infine, ed è giunto anche per noi il giorno in cui possiamo pronunciare i sacri nomi di libertà ed uguaglianza.

Eleonora è stata una donna coraggiosa. Il destino non è stato benevolo con lei: un matrimonio fallimentare, un lutto tremendo, la mancanza di un vero amore. La sua vita difficile però le ha concesso il dono di morire libera.

Libertà. Libertà di pensiero, di azione, libertà di credere intensamente all’ideale di uguaglianza, di fraternità, libertà di non dipendere da nessuno, libertà di lottare per le proprie idee anche se controcorrente… ecco! Vorresti essere in quella piazza Mercato, in quell’afoso giorno di agosto, sgomitare tra la gente che insulta, che sputa, vorresti a tutti i costi tentare di avvicinare Eleonora, fiera, libera, bellissima. E poi, e poi tentare di far sentire la tua voce, più forte degli insulti, più forte della paura e per rispondere ad Eleonora:

Certo. Tutto questo un giorno ci darà sollievo!

A PROPOSITO/ Francesca, un’altra martire, compagna di Eleonora

Nel nome di un’eroina lucana di ieri,

nasce un documentario sulla forza

silenziosa delle donne lucane di oggi

Francesca De Carolis è un’eroina meno nota di Eleonora Fonseca Pimentel ma anche lei, tre msi prima di Eleonora, fu uccisa in piazza per aver appoggiato la lotta anti-borbonica. Francesca nasce a San Marco in Lamis (sul Gargano), ma deve considerarsi a tutti gli effetti una cittadina di Tito, paese di poco più di 7.000 anime della provincia di Potenza. A 20 anni infatti sposa Don Scipione Cafarelli e trascorre la sua intera vita nel paese di origine dell’uomo. Donna intelligentissima e di carattere indomito, fa suoi i princìpi della Rivoluzione francese, convinta dai racconti appassionati che suo cognato Angelo, fratello di Scipione, racconta di ritorno da Napoli.

Il 29 gennaio davanti al palazzo reale di Napoli viene innalzato l’Albero della Libertà, con grandi feste popolari. L’evento si ripete in diversi paesi della Lucania. Nel paese di Francesca, Tito, l’evento è datato 7 marzo 1799.

Intanto le truppe sanfediste del Cardinale Ruffo sbarcano sulle coste calabresi con l’intento di riconquistare Napoli e consegnare il regno ai Borbone. Per accelerare i tempi e raggiungere il prima possibile Napoli, il Cardinale Ruffo si avvale di numerosi briganti, tra cui Gerardo Curcio detto Sciarpa. È suo il compito di restaurare il vecchio regime borbonico saccheggiando e terrorizzando molti paesi della Lucania.

Negli ultimi giorni di aprile 1799 Sciarpa attacca Picerno dirigendosi subito dopo a Tito. I patrioti tintesi guidati dai coniugi Cafarelli sono numerosi e valorosi, ma in seguito a un tradimento che rivela l’esistenza di un passaggio non custodito che dalla montagna giunge a Tito, il 3 maggio 1799 i briganti penetrano nel paese saccheggiandolo.

Sulla famiglia Cafarelli conversero le vendette di Sciarpa, offeso e umiliato dalla resistenza opposta dal popolo. Il 27 maggio 1799 Francesca viene fucilata. Condotta in piazza e ordinatole per l’ultima volta di gridare “viva i Borboni”, la giovane donna, con voce ferma gridò “Viva la Repubblica, viva la libertà”.

Mentre scriviamo questo testo su eroine di ieri, ci raggiunge la notizia di un nuovo documentario (“La forza silenziosa delle donne”, dedicato a 12 donne lucane di oggi. Si tratta di un lavoro ideato da Marcella Conese (oggi segretaria generale della FILCAMS CGIL di Matera – settore commercio e turismo e già prima segretaria donna del settore bracciantile) e da Manuela Taratufolo (che fino a giugno 2016 è stata la prima donna segretaria generale della CGIL Matera). Il lavoro è stato realizzato dalla società RVM Broadcast e dal prof. Giovanni Caserta che ha curato i testi. Ha ricevuto il patrocinio della Fondazione Matera 2019.

L’idea alla base è raccontare storia e tradizioni della Basilicata partendo dal racconto della vita quotidiana di donne comuni, per consegnare uno spaccato sulla condizione delle donne lucane. Filo conduttore è il lavoro delle donne, quello retribuito e pubblico o quello invisibile e domestico. Ogni testimonianza ci consegna il prodotto della fatica quotidiana di ciascuna donna, che sia casalinga o dirigente, insegnante o operaia. Si snodano così 12 testimonianze di donne non note che, in maniera semplice e diretta, raccontano la loro esperienza di vita, di lavoro, di crescita, che si collega in modo naturale all’emancipazione delle donne e alle battaglie degli anni ‘70 per l’affermazione di diritti civili e per la parità.

Vengono fuori dati che colpiscono. La donna nella normalità con cui espleta le sue funzioni è inconsapevolmente rivoluzionaria per il modo con cui si approccia al quotidiano: ciascuna agisce con l’unico scopo che non è mai il proprio personale destino, ma la voglia naturale di aiutare gli altri, di essere a disposizione di una causa, di risolvere sempre senza mai rinunciare. Anche il rapporto con la politica o con le cariche pubbliche, in generale, è rivoluzionario e inaspettato: la donna porta con sé, anche nel ruolo pubblico, la stessa perizia, attenzione ed empatia, che usa nel prendersi cura dei propri familiari o dei figli. Ciò emerge dai racconti della prima donna Sindaco, ma anche della prima donna Consigliera regionale e comunale. Un documentario che in soli 30 minuti, grazie a queste 12 storie, consegna la conoscenza di ciò che eravamo negli anni ’50, ’60 e ‘70 e spunti di riflessione sulla attuale condizione delle donne e sul contributo dato dalle donne lucane all’emancipazione. In maniera nuova. Con interviste dirette. Merita che questo documentario venga veicolato, con iniziative promosse e organizzate insieme alla Fondazione, fra giovani, studenti, famiglie lucane in Italia e italiani all’estero.

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Documentario 'La forza silenziosa delle donne'

Il documentario “La forza silenziosa delle donne” contiene le interviste a 12 donne lucane che hanno contribuito all’emancipazione femminile. Sono: CARMELA ZASA (Tricarico, 1932), attivista PCI e CGIL; MARIANNA CANALI (Stigliano, 1944), la maestra; ROSA LOSURDO (Altamura, 1936), la sartina; MARIA SANTOMASSIMO (Aliano, 1941), la prima donna sindaco; CETTI FIORINO (San Mauro Forte, 1957), l’ostetrica; CHIARA RONDINONE (Matera, 1926), la massaia; MARIA MURLO (Salandra, 1926), l’emigrata; MARIA ROSARIA CAMBIO (Matera, 1930), la materassaia; FILOMENA DI CANIO (Pomarico, 1950), l’operaia; GIULIA SPINELLI (Oliveto Lucano, 1962), la bracciante; ADRIANA GARRAMONE (Brindisi di Montagna, 1943), prima donna lucana magistrato; TITTI VENEZIA (Matera, 1950), la consigliere regionale.