Queste le parole di Antonio Greppi, primo sindaco della Milano appena liberata, quando nell’estate del 1945 incontra la donna che è diventata l’anima di Brera. Lui ha alle spalle gli anni duri dell’antifascismo e un figlio partigiano ucciso dalla milizia. Fernanda, nonostante l’aria chic da signora bene e il filo di perle, è appena uscita dal carcere di San Vittore dove era finita per aver fatto fuggire molti ebrei. Solo che la detenzione, invece di avvilirla, sembra aver moltiplicato le sue energie: e ne serviranno, in quell’Italia devastata, piena di macerie fisiche e morali, per ricominciare da capo.
La storia di questa donna eccezionale è raccontata in un libro, «Sono Fernanda Wittgens». Una vita per Brera (Skira), a cura della critica d’arte Giovanna Ginex che ne ricostruisce con sensibilità tutte le sfaccettature. Non a caso Antonio Greppi, che era anche uno scrittore e non difettava di immaginazione, la vedeva un po’ come una dea della sapienza, quindi come una intellettuale, e un po’ come una walkiria, cioè una guerriera.
Da “operaia avventizia” a direttrice
Figlia di un professore di lettere del prestigioso liceo Parini, Fernanda si laurea in Storia dell’arte con Paolo D’Ancona, comincia come insegnante, fa la giornalista e poi approda a Brera con la modestissima qualifica di “operaia avventizia”. Ma come lavora lei non lavora nessuno: non ci sono orari, non ci sono limiti alla sua competente dedizione e ben presto diventa l’assistente del direttore, Ettore Modigliani. Sarà un sodalizio lunghissimo e fruttuoso che resisterà alle leggi razziali – Modigliani è ebreo, e in quanto tale verrà allontanato dall’incarico -, alla guerra, alla prigione, alle distruzioni.
Nel 1940, proprio quando comincia il periodo peggiore, Fernanda è nominata direttrice della Pinacoteca di Brera: ha stravinto il concorso ed è la prima donna in Italia a ricoprire un incarico tanto prestigioso. Il suo immediato pensiero è quello di mettere in salvo dai bombardamenti e dai nazisti la preziosa bellezza che le è affidata. Un’impresa titanica, che realizza grazie alla rete di conoscenze, alla capacità di coinvolgere, di raccogliere fondi, di responsabilizzare. «Nonostante l’organico ridotto, con mezzi di fortuna, Fernanda accompagna le opere di persona», racconta Giovanna Ginex, saltando sui camion assieme ai suoi quadri amorosamente impacchettati. I faticosissimi trasferimenti finiscono nel giugno del 1943, con ottimo tempismo: «Nella notte fra il 7 e l’8 agosto, Brera è colpita e devastata».
La forza delle donne
Ma la capacità di fare network di Fernanda, come diremmo oggi, non si ferma all’arte: «Il suo prestigio personale e le amicizie su cui poteva contare la pongono in una posizione che le permette di aiutare familiari, amici, per seguitati, ebrei, a espatriare». La direttrice sta a Milano, città che «offre alle donne infinite possibilità d’appoggio e fiancheggiamento all’attività militare clandestina dei diversi gruppi d’azione». Sotto la facciata ufficiale della beneficenza e dell’assistenza, esiste una «straordinaria rete di solidarietà femminile» che opera in appoggio ai carcerati e ai perseguitati politici, legata a gruppi clandestini oltre confine. La dottoressa Adele Cappelli Vegni, che fa della sua villa sul lago di Como un «importante snodo logistico per l’espatrio di ebrei e perseguitati politici provenienti da tutta la Lombardia» e le sorelle Zina e Mariarosa Tresoldi, due maestre elementari che «ospitano con gravissimi rischi nei loro appartamenti ebrei e ricercati politici destinati alla fuga» sono le sue collaboratrici più strette. E insieme finiscono in un mare di guai quando viene tesa loro una trappola tramite un giovane ebreo tedesco che chiede aiuto per espatriare.
In realtà stavolta il ragazzo è «un collaborazionista, che si era accordato con il vicecommissario della questura di Como, Domenico Saletta, noto torturatore di partigiani». Fernanda è sospesa dall’incarico di direttore, viene processata e condannata e con le sue tre amiche finisce nel carcere di san Vittore. Le hanno dato quattro anni. Lei non si scompone e scrive in una lettera alla madre: «Sarebbe troppo bello essere intellettuale in tempi pacifici, e diventare codardi, o anche semplicemente neutri, quando c’è un pericolo». E rincara, infastidita dai piagnistei: «Dovete smettere di essere tristi e di lamentarvi. Voi dovete essere fieri, come lo sono tutti i parenti dei politici che per la loro idea hanno affrontato la prigione».
… Cara mamma, sempre ti ho detto che io davo alla famiglia quanto potevo, ma mai avrei sacrificato ad essa il mio pensiero e i miei ideali. Non si può e non sarebbe giusto tradire se stessi neppure per gli affetti più cari
(Fernanda Wittgens, Lettera alla madre dal carcere di San Vittore, Milano, ottobre 1944)
Il risultato concreto della detenzione è che Fernanda decide con l’amica medico Adele che appena sarà fuori si dedicherà anche al soccorso carcerario: ne ha viste troppe, sia dentro il San Donnino di Como che a San Vittore. E quando con la Liberazione le porte del carcere si schiudono, è pronta a riprendere il suo posto a Brera e cominciare a ricostruire, rimediando anche all’incredibile evidenza che la “sua” Pinacoteca non è stata inclusa nelle urgenze artistiche di cui finanziare il restauro. Questa è la walchiria che Antonio Greppi si trova davanti: «Il suo implacabile dinamismo terrorizzava la burocrazia del Ministero» racconta, ammirato. «Era irresistibile. Le promisi che avrei fatto di tutto per accontentarla».
Formula Wittgens: il museo vivente
Prima di morire a 54 anni, stroncata da un male incurabile, Fernanda raccomanderà sobrietà anche nelle sue esequie: «Non ho mai amato l’esibizionismo perché la mia vera natura è quella di una donna a cui il destino ha dato compiti da uomo, ma che li ha sempre assolti senza tradire l’affettività femminile». L’11 luglio 1957 il suo feretro è esposto a Brera, che grazie a lei non solo è rinata dalle macerie, ma ha cambiato faccia, è diventato luogo d’incontro, di formazione, centro di cultura, «accoglie concerti e sfilate di moda, congressi internazionali di medicina», ospita mostre fotografiche. È la formula del “museo vivente”, aperto alle diverse forme d’arte. «Persino nella galera», scriveva a un’amica in una delle sue tante e bellissime lettere, «può essere salvato “l’umano” dal “bestiale”: e l’arte è forse una delle più alte forme di difesa dell’“umano”». Sembra di risentire le parole scritte da Fëdor Dostoevskij nell’Idiota : «Il principe sostiene che il mondo sarà salvato dalla bellezza!», vi esclama Ippolit. E lei, Fernanda, avrebbe dato senz’altro ragione al principe Myškin.
Nella pubblicazione ufficiale dei Monumenti danneggiati dalla guerra edita dal ministero della Pubblica Istruzione manca Brera!!!
(Lettera di Fernanda Wittgens a Roberto Longhi, storico e critico d’arte, 11 agosto 1948)
Il salvataggio del Cenacolo
È merito dell’ostinazione di Fernanda Wittgens se nel 2019, in occasione dei 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci, migliaia di visitatori potranno ammirare il suo capolavoro nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, a Milano. Fu lei, nei primi anni Cinquanta «contro corrente, affrontando tremende difficoltà e responsabilità» ad affidarne il restauro all’équipe di Mario Pellicioli. «Cesare Brandi, all’epoca direttore dell’Istituto Centrale del Restauro, negava l’opportunità stessa di restaurare il Cenacolo, giudicando il capolavoro ormai irrimediabilmente perduto prima dei bombardamenti del 1943 e della sua esposizione agli agenti atmosferici nei mesi successivi. Al contrario, secondo Wittgens era necessario tentare di recuperare ciò che di Leonardo rimaneva al di sotto delle ridipinture e nonostante lo stato disperato in cui ormai versava il dipinto», scrive Giovanna Ginex. Quando il bisturi del restauratore solleva trepidante la pittura annerita sulla mano di Giuda e sotto s’intravedono i colori leonardeschi, la scommessa è vinta: «il 30 maggio 1954, al termine delle celebrazioni per i 500 anni della nascita di Leonardo, il Cenacolo e la sala del refettorio delle Grazie sono aperti al pubblico». Grazie, Fernanda!
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- Pur sfigurata dalla guerra, ai soldati “aggiustaveneri” l’Italia sembrò bellissima (testo di Ilaria Dagnini Brey per Giannella Channel)
- “La Tempesta” nella tempesta della guerra e altre storie di eroici salvatori dell’arte (testo di Mirella Serri per Sette – Corriere della Sera)
- Roberto Malini, l’italiano che ha salvato l’arte dell’Olocausto. E i dipinti condannati alla damnatio memoriae. La storia straordinaria di un italiano, Roberto Malini, che viaggiando in mezzo mondo e con l’aiuto della rete, ha recuperato e donato al Museo della Shoah 240 opere di artisti vittime dell’Olocausto (testo di Salvatore Giannella per Conoscere la storia)
- Sergio Romano elogia Giuseppe Bottai, paladino della cultura: “Era convinto che il nostro patrimonio fosse la prova dell’esistenza di una nazione italiana” (testo di Salvatore Giannella per Sette – Corriere della Sera, elaborazioni artistiche di Giacomo Giannella)
- L’uomo che ha combattuto nella ex Jugoslavia per salvare i suoi tesori d’arte. Un nuovo libro illumina la figura e le azioni di Francesco Papafava, una figura a metà tra Sindbad, l’Ulisse d’Oriente e Gino Strada, il medico fondatore di Emergency. Ha fatto fino all’ultimo il pendolare tra la sua casa sulle rive dell’Arno e il Kosovo, per invocare un aiuto (concesso) affinché possano rinascere 1.800 monasteri e affreschi stupendi (testo di Salvatore Giannella)
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