Giorgio Dell'Arti

Giorgio Dell’Arti (Catania, 4 settembre 1945) è un giornalista, scrittore e storico, fondatore del supplemento settimanale Il Venerdì di Repubblica. La sua biografia è qui.

Questa settimana propongo una selezione di alcune delle numerose lettere ad Anteprima, la popolare spremuta mattutina di giornali: non una semplice rassegna stampa, ma un vero e proprio quotidiano, tutto scritto da una grande firma, Giorgio Dell’Arti, che a partire dalle 4 del mattino legge dieci giornali che stanno per andare in edicola e consegna il succo via mail alle 7 in punto: il modo giusto per uscire di casa alle 8 sapendo tutto quello che c’è da sapere. A proposito: per ricevere Anteprima gratis per un mese, vai su anteprima.news. (s.g.)

Emilia Romagna

Caro Giorgio, credo esistano infiniti motivi per distinguere gli emiliani dai romagnoli, e addirittura per distinguere quell’Emilia che da Bologna si conclude a Piacenza, da quella che pur partendo da Bologna va verso Ferrara. Insomma noi stessi emiliani, sono nato a Bologna in uno stabile in cui il crollo delle due torri lo avrebbe demolito, siamo difficilmente riconducibili a una sintesi sbrigativa.

L’identità di un luogo è direttamente connessa a quella che è la sua situazione orografica. Al di là di Bologna, il contesto dei miei racconti è quello più distante dalla grande pianura padana dove le identità, le peculiarità locali, si sono svendute a una nefasta omologazione.

Al contrario è indubbio che ogni volta mi capiti di lasciare l’Emilia per entrare in Romagna io avverta di accedere a un “tempo diverso” . Quello che ha saputo conservare simultaneamente il passato (l’Italia in cui sono nato) e l’Italia dell’oggi.

Ho la sensazione che contrariamente all’Emilia, in particolare a Bologna che la rappresenta nel modo più puntuale, la Romagna abbia saputo o voluto trattenere in sé quell’Italia della quale l’Emilia, sedotta dall’altrove, ha voluto disfarsi.

La Romagna insomma, contrariamente a noi, sa simultaneamente essere il passato e il presente. La cartina di tornasole che ci permette di valutare le sostanziali differenze, tenendosi alla larga dalla polemica tortellini/cappelletti, credo sia la donna.

Senza ridurmi a una banale generalizzazione, ma fondando la mia convinzione sull’esperienza, in tutte le manifestazioni del suo agire, dall’ambito affettivo a quello professionale, la donna romagnola manifesta una passione, un coinvolgimento, così espliciti da cozzare nettamente con l’atteggiamento delle donne emiliane.

Sempre generalizzando, nella mia esperienza so bene quanto anche gli uomini, appartenenti a queste due regioni così difformi, obbediscano a visioni della vita dissimili. Per semplificare: è nella natura dell’Emiliano, fatte salve rare eccezioni, la capacità di mediare. Sapendolo fare così’ bene da far sì che in una trattativa entrambe le parti vivano la sensazione di aver fatto un affare. Ho sempre pensato che la svolta della Bolognina non potesse trovare un contesto più pertinente del capoluogo Emiliano.

Quando per il prof. Achille Ardigò mi trovai a svolgere una indagine su quel comprensorio manifatturiero che fu Carpi (Emilia), scoprii che la stragrande maggioranza dei “padroni” era iscritta al Pci. L’Emilia può vantare il primato di avere avviato il compromesso storico. Oggi che un agiato pariolino voti Pd non scandalizza nessuno e simultaneamente la Bologna della mia giovinezza vantava già un Sindaco (Dozza) e un Cardinale (Lercaro) molto spesso in assoluta sintonia.

In Romagna sarebbe difficile trovare la stessa bonaria dialettica della Brescello di Guareschi. Quella di Peppone e Don Camillo.

I mangiapreti romagnoli in Emilia faticherebbero ad avere diritto di cittadinanza.

E poi, in ambito cinematografico, la differenza enorme fra due dei più significativi registi del 900, Fellini, con la sua visionarietà, non è casualmente romagnolo mentre Antonioni, con la sua algida analisi, sempre intellettuale mai istintiva, è dei nostri.

E lo stesso potremmo dire della musica popolare che in Romagna fu il Liscio, quel liscio nato nelle aie dei casoni rurali e ancora oggi eseguito con un successo travolgente, se non addirittura con orgoglio, nelle tante balere disseminate da Imola a Forlì

Insensibile alle suggestioni di quell’omologazione culturale della quale siamo vittime.

Mentre a Bagnacavallo si ballava Romagna mia a Sasso Marconi il quintetto di Hengel Gualdi suonava In the mood di Glenn Miller e avevamo tutti l’illusione di esserci trasferiti definitivamente a Brooklyn. (Pupi Avati – sul regista bolognese vedere in chiusura la mia recente intervista con pagine sorprendenti della sua biografia: s.g.)

Rennes Parc du Thabor

Rennes: il Parc du Thabor.

Fiori

Gentile Giorgio, la bella riflessione di Fofi sul profumo – svanito – dei fiori mi ha riportato alla mente un pomeriggio della scorsa estate. Mi trovavo a Rennes, “capitale” della Bretagna, che ospita uno dei giardini più belli di Francia, il Parc du Thabor, dove c’è una zona interamente dedicata alle rose, credo più di 200 varietà. I profumi che sprigionavano! Quello che mi è piaciuto di più è della specie Jeanne Moreau. Intenso, pungente, sensuale. Certo, non è immediato raggiungere questo meraviglioso parco, e nemmeno è pensabile trovare rose così belle nei chioschi agli angoli delle strade, ma il loro profumo (che ricordo nel giardino di casa mia, me le dava mio nonno da portare alla scuola materna alla fine degli anni ‘70) riesce, nonostante tutto, a sopravvivere al tempo. (Raffaella Tosi)

mimose

Mimose

Vi siete mai chiesti perché si regalano le mimose (foto in alto) e non un altro fiore per celebrare la donna? Dal 1977 la Festa della Donna è diventato un evento internazionale. In tutto il mondo, infatti, vengono fatte manifestazioni e festeggiamenti per ricordare le lotte sociali e politiche che le donne hanno affrontato per ottenere diritti scontati per l’uomo. Il fiore, la mimosa, tuttavia è un’usanza tutta italiana. Come mai? Dobbiamo tornare indietro di quasi 70 anni e arrivare al 1946 quando due attiviste dell’Udi (Unione Donne Italiane), Rita Montagnana (moglie di Palmiro Togliatti) e Teresa Mattei, proposero di adottare questo fiore come simbolo della Festa della Donna. La decisione fu messa ai voti e le donne dell’Udi votarono all’unanimità per questo fiore. (Cesare Lanza)

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L’imprenditrice e blogger Chiara Ferragni (Cremona, 1987).

Moda

Caro Giorgio, l’altra sera a cena un amico e collega di lunghi anni al Corriere della Sera, Dario Fertilio (autore di parecchi libri), raccontava l’esperienza di insegnamento all’Università Statale di Milano, a Scienze Umanistiche, le vecchie Lettere. Il corso che conduce è su teorie della telecomunicazione e giornalismo. Lo frequentano circa 280 ragazzi e ragazze, mi pare sui 20 anni. Dario ha chiesto le loro preferenze nel campo del giornalismo, o meglio su che cosa pensano di specializzarsi. In percentuale paritaria, maschi compresi, hanno risposto: 1° la Moda, 2° il Trucco, 3° lo sport, il calcio. È rimasto sorpreso, poi ha saputo che la ragione di tanto fascino del make-up in una delle principali facoltà cittadine è il successo di Chiara Ferragni che «hanno chiamato perfino a Oxford a tenere una lezione» hanno spiegato. Oltre alle cospicue entrate finanziarie. Poi il professore, mentre pensava che ai nostri tempi avrebbero scelto letteratura, filosofia, politica, ha azzardato dei nomi per verificare quanto li conoscevano: Montanelli, risposta: ignoto, segue Enzo Biagi: sconosciuto, la sola Oriana Fallaci nel XX secolo ha suscitato un vaghissimo ricordo nell’intera classe. Prima erano i cuochi convertiti in chef stellati, alla Tv e ai giornali; adesso saranno i truccatori a farla da star. È il futuro, Baby, scriverebbero i bravi giornalisti di Politico.eu. Ci aspetta un popolo di maghi del rossetto, ombretto, piegaciglia. (Fiorella Minervino)

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Febbraio 2019: la rivolta dei pastori sardi. Migliaia di litri di latte dispersi in strada per protesta.

Pastori

Caro Giorgio ho trovato questo post su Facebook e mi ha fatto molto riflettere… scrive la moglie di un pastore:

Sono una pastoraccia, sono la moglie di un pastore, e io sto con i pastori. Parlo con voi, figli dei pastori e non. Mi fa male vedere il latte buttato come a voi, mi fa male sentire la disperazione di un pastore, anche a voi. Ma fa più male sentire i consigli dagli incompetenti: «non buttate il latte, regalatelo», «non buttate il latte, fate il formaggio e regalatelo ai bisognosi»… e vedere i video della gente che fa la fila con le bottiglie per prendere latte, che un pastore generoso con il cuore grande, lo sta regalando. E voi? Non vi viene in mente a pagarlo? Dov’è la vostra solidarietà? Dove la vostra compassione? E come mai che il latte di capra adesso non “puzza” e il latte di pecora non è più “grasso”? Perché è gratis? E poi ci sono questi “intelligenti” che sanno tutto e danno i consigli su come e su cosa dobbiamo produrre? I pastori sono allevatori, non hanno caseifici e addetti alla vendita. Hanno le pecore, le capre, i maiali. E anche volendo, non riusciranno mai fare a tutto, allevare, mungere, fare il formaggio ed occuparsi delle vendite. È tutto legato, anche voi consumatori state dentro la crisi dei pastori. E alla fine vorrei dire solo una cosa. Se muore un agricoltore, se muore un pastore, il mondo super tecnologico non sopravvive. Un umano deve nutrirsi. Il cibo, qualsiasi cibo, si produce a terra, un mondo super tecnologico ha bisogno di un agricoltore o di un pastore. SEMPRE!

Stiamo passando un periodo bruttissimo, stiamo lottando una battaglia persa… per favore siate dalla nostra parte, per favore state con noi. Grazie mille per l’attenzione. Irina.

(Giovanni Pappalardo)

Ramogna

Ramogna: ovvero, Dante a Locarno? Allora, pare che l’unico hapax legomenon (“detto una volta sola”) dell’intera letteratura italiana sia “ramogna”, vocabolo usato da Dante nel Canto undicesimo del Purgatorio.
Dal significato oscuro e controverso, dall’etimo misterioso “ramogna”.
E non che il contesto aiuti.
Esiste un modo per non annoverare più tra le “parole dette una sola volta” l’espressione dantesca.
Usare “ramogna” ricorrentemente.
Inventando e codificandone un preciso significato.
Non trascurando il fatto che, in verità, “Ramogna” è altresì il nome di un torrente situato in centro nella località di Locarno, Ticino, Svizzera. Un torrente che si butta nel bellissimo Lago Maggiore. (Mauro della Porta Raffo)

Matteo Salvini

Matteo Salvini (Milano, 1973), vicepresidente del Consiglio e ministro dell’interno del Governo Conte.

Salvini

“Dear Giorgio, Salvini sta poco al Viminale, preferendo circolare qui e là. È il ministro dell’Intorno. Ciao”. (Massimo Lodi, dopo che s’è saputo che in nove mesi di governo Matteo Salvini ha passato il 97,75% del tempo in missione: dati Open Polis presentati da Milena Gabanelli e Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera).

Virgolette

Quando si scrive una parola corsiva, o tra virgolette, significa che in qualche modo se ne ha paura. (Giorgio Dell’Arti)

Vite memorabili

Per trovare biografie accurate suggerirei di entrare con la propria email in Cinquantamila.it dove digitando sulla ricerca un argomento, il nome di un personaggio, di fatti storici o altro ancora si potranno leggere i moltissimi articoli dello sterminato archivio di Giorgio Dell’Arti raccolto in più di 8 anni di appassionato e indefesso lavoro. In antitesi all’ “antitutto” riportato da Lo Zingarelli 2019 (Giorgio, scusi le virgolette ma qui ci proprio ci stanno) in Cinquantamila c’è “ditutto”! (Gabriella Amstici)

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A PROPOSITO

Quando Pupi Avati mi confessò: “Fu Fellini a strapparmi al destino di venditore di pesce”

Il regista bolognese è tra i personaggi intervistati nel mio recente libro “In viaggio con i maestri” (Minerva Edizioni) che raccoglie parte delle mie interviste fatte per lo storico magazine del Corriere della Sera, Sette (allora diretto da Pier Luigi Vercesi). Oltre a indicarmi Fellini come suo spirito guida, Avati mi rivelò un’inquietante pagina della sua biografia: questa. Dal 1959 al 1962 Pupi tentò la carriera del jazz. Faceva parte della bolognese Doctor Dixie Jazz Band come clarinettista, ma rinunciò dopo l’ingresso nella band di Lucio Dalla. “Era un genio. Mi ha messo in un angolo. A un certo punto ho anche pensato di ucciderlo, buttandolo giù dalla Sagrada Familia di Barcellona…”.

Ritratto digitale di Pupi Avati

Pupi Avati, all’anagrafe Giuseppe Avati (Bologna, 1938): il regista si racconta nella autobiografia “La grande invenzione”, edito da Rizzoli).
 
(CREDIT Giacomo Giannella / Streamcolors)

GIANNELLA. Lei è un simbolo della bolognesità e dell’Emilia Romagna. È in questa area che va cercato il suo spirito guida?

PUPI AVATI. Sì, è Federico Fellini. Nell’estate del 1966, avevo 28 anni, mi venne incontro dallo schermo del cinema bolognese Dopolavoro Ferrovieri. Rimasi illuminato dalla visione di 8 e mezzo. E imboccai la strada del cinema.

Fino ad allora che cosa faceva?

Da quattro anni lavoravo come venditore di pesce surgelato. Sono stati gli anni peggiori della mia vita. Mi è bastato entrare in quel cinema per rendermi conto che il mio destino era raccontare me stesso e le mie storie.

Una volta uscito da quella sala, che cosa fece?

Cercai i miei amici e chiesi loro di condividere questa mia nuova passione. Formammo un gruppo che, perseguitando sponsor locali, riuscì a realizzare due film horror orgogliosamente felliniani.

Ritratto digitale di Federico Fellini

Su Federico Fellini (Rimini 1920 – Roma 1993) consiglio il libro “Segreti e bugie di Federico Fellini”, curato dallo sceneggiatore e amico Gianfranco Angelucci (Pellegrini Editore, Cosenza).
 
(CREDIT Giacomo Giannella / Streamcolors)

Fellini prima di 8 e mezzo aveva già firmato altri film come La strada e La dolce vita. Fino ad allora lei proprio non conosceva quel regista riminese?

Non sapevo chi fosse Fellini, né avevo idea che mestiere fosse quello del regista. Io e i miei amici pensavamo che il regista fosse una specie di vigile urbano. Quel film ci ha fatto scoprire Fellini e pure il cinema.

Lei poi ha incontrato Fellini a Roma e ne è diventato amico. Mi parli del vostro primo incontro.

Avvenne anni dopo, per questioni logistiche. Abitavamo io in via del Babuino, Federico e Giulietta nella vicina via Margutta. Mia madre mi diceva: “Credo di aver visto Fellini”. Una mattina mi apposto e vedo che l’uomo che scorgeva mia madre era proprio lui, Federico. Incomincio a tallonarlo da vicino. Lui era una persona pavida, e vedeva questo ragazzo barbuto in cappotto nero, con la barba, aspetto poco raccomandabile, che lo seguiva… Era preoccupato. Un giorno ho attraversato la strada, lui si è appiattito contro il muro, temeva un agguato terroristico. Chiuse gli occhi, terrorizzato, aspettando uno sparo, e invece gli dissi: ‘Sono Pupi Avati’. Questo nome evocò chi lo aveva ricoperto di centinaia di lettere alle quali lui non aveva mai risposto. Allora aprì gli occhi rassicurato, incredulo di avere la vita salva, ed esclamò: ‘Pupone!’. Mi abbracciò forte. Cominciò la nostra amicizia.

Se dovessimo usare un’immagine felliniana per indicare la stagione attuale dell’Italia, quale sceglierebbe?

Quella, tratta da Prova d’orchestra, della gigantesca palla d’acciaio che sfonda i muri della sala in cui provano i musicisti. Quell’immagine è la sintesi di tutti gli errori che noi italiani stiamo ostinatamente continuando a commettere, alimentando una litigiosità inconcludente. Mentre il bene del nostro paese sta nell’avere un progetto comune. Altrimenti si finisce come in Grecia, dove ha chiuso anche l’Orchestra Sinfonica nazionale con l’ultimo concerto in lacrime.

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Salvatore Giannella, giornalista che ha ideato e cura con passione questo blog, ha diretto il mensile scientifico del Gruppo L’Espresso Genius, il settimanale L’Europeo, il primo mensile di natura e civiltà Airone (1986-1994), BBC History Italia e ha curato le pagine di cultura e scienza del settimanale Oggi (2000-2007). Ha scritto libri (“Un’Italia da salvare”, “L’Arca dell’arte”, “I Nicola”, “Voglia di cambiare”, “Operazione Salvataggio: gli eroi sconosciuti che hanno salvato l’arte dalle guerre”, “Guida ai paesi dipinti di Lombardia”, “In viaggio con i maestri. Come 68 personaggi hanno guidato i grandi del nostro tempo”), curato volumi di Tonino Guerra ed Enzo Biagi e sceneggiato docu-film per il programma Rai “La storia siamo noi” (clicca qui per approfondire).