Caro presidente Mattarella, di lavoro in Italia si continua a morire. La Svezia ci insegna come rendere il lavoro più sicuro

In altre giornate nerissime per i lavoratori italiani (su tutte la tragedia di Brandizzo in Piemonte, con cinque operai stritolati dal treno, e i tre lavoratori dilaniati nella fabbrica di fuochi d’artificio a Casalbordino, Chieti) riprendo in mano gli utili appunti di un mio viaggio in quel Paese scandinavo leader per la sicurezza secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro. Lì, più che le norme di legge, vale il confronto continuo e l’accettazione comune delle priorità in fabbrica: al primo posto la sicurezza e l’ambiente, seguiti dalla qualità del prodotto, dalla puntualità nella consegna e, infine, dai profitti che non mancano proprio perché sono stati rispettati sicurezza, tempi e qualità. Quattro anni dopo, ripropongo quella lettera aperta a Sergio Mattarella, presidente della nostra Repubblica che ha come valore fondante il lavoro e nella quale il lavoro continua a uccidere.

L'ATTUALITA' DELLA MEMORIA | REPRINT

testo di Salvatore Giannella*

Dati Inail del primo semestre 2023. Drammatico il bilancio da gennaio a luglio: 559 le vittime di cui 430 in occasione di lavoro e 129 in itinere), con una media di 80 decessi al mese. Aumentate del 4,4% rispetto a luglio 2022. La regione con il maggio numero di vittime in occasione di lavoro è la Lombardia (74). Seguono Veneto (40), Lazio (36), Campania e Piemonte (33), Emilia Romagna (31), Puglia (29), Sicilia (26), Toscana (21), Abruzzo (16), Marche (14), Umbria e Calabria (13), Friuli Venezia Giulia (12), Trentino Alto Adige e Liguria (11), Sardegna (10), Basilicata (5) e Valle d’Aosta e Molise (1).

Caro presidente Mattarella, mio ammirato presidente, ho molto apprezzato che, dal Suo più alto pulpito istituzionale, Lei abbia voluto ricordare i nomi di quegli operai martiri del lavoro (Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò, Giuseppe Demasi) che dieci anni fa, nella notte del 5 dicembre 2007, morirono nel rogo dell’acciaieria della Thyssenkrupp a Torino e che abbia voluto sottolineare che “in questi dieci anni nella prevenzione degli incidenti e nel supporto agli infortunati sul lavoro sono stati fatti passi avanti, ma resta ancora molto da fare”. In quelle ultime parole (“resta ancora molto da fare”) si nasconde un’amara verità: che nelle nostre fabbriche, nei cantieri edili e sui trattori agricoli, alla guida di un autotreno, sulle strade ecc., ci si continua ancora a infortunare e a morire. Per dirla con le parole di Franco Bettoni, presidente nazionale della benemerita ANMIL, “ovunque, in ogni posto di lavoro il rischio di subire un infortunio è sempre lì in agguato; la mancanza di sicurezza ci propone quotidianamente drammi di questo genere”.

Eppure in altri Paesi un lavoro più sicuro è da anni una realtà. «In Italia si verificano circa 2,6 incidenti con esito mortale ogni 100 mila lavoratori, un indice che ci pone nettamente al di sopra della media dei Paesi dell’Unione Europea. Se poi si prendono in considerazione le nazioni più virtuose da questo punto di vista, ad esempio l’Olanda, la Svezia o la Finlandia, il paragone è impietoso: in Italia si conta in pratica un numero doppio di morti sul lavoro», ci ricorda in un recente testo Sandro Simoncini, docente di Legislazione ambientale presso l’Università Sapienza di Roma.

L’imprenditore italo-svedese Salvatore Grimaldi (bici, è titolare dei marchi storici Bianchi e Legnano; ed Eatatly Stoccolma, varato in società con Oscar Farinetti.

L’imprenditore italo-svedese Salvatore Grimaldi (bici, è titolare dei marchi storici Bianchi e Legnano; ed Eatatly Stoccolma, varato in società con Oscar Farinetti.

Ebbene, in quell’anno 2007 (che era stato segnato il 1° agosto da una giornata altrettanto funesta: sei morti sul lavoro in appena 24 ore, quattro vite stroncate nella sola mia nativa Puglia, ricordo i loro nomi: Domenico Occhinegro, Andrea D’Alessano, Andrea Sindaco e Cosimo Perrini) da cronista che, più che le statistiche e le analisi sociologiche, privilegia le storie, dopo l’inchiesta a Torino per il settimanale Oggi (su indicazione dell’Organizzazione internazionale del lavoro, con sede a Ginevra) andai in Svezia proprio per ricostruire come loro, lassù, hanno conquistato il primato del lavoro sicuro. È una lezione di grande utilità e attualità che raccontai approfonditamente in un libro per Chiarelettere, “Voglia di cambiare” (non pubblico la copertina per evitare inappropriata pubblicità) e che sfociò in un invito a politici, industriali e sindacalisti italiani, da parte dell’allora dirigente dei giovani della Confindustria svedese, l’imprenditore delle biciclette e di Eataly Stoccolma Salvatore Grimaldi (pensi, nativo di Taranto, di quella città che è nella parte alta della classifica delle cosiddette “morti bianche”) a un viaggio di aggiornamento professionale in Svezia: invito che purtroppo, pur avendo avuto una visibile ricaduta sui principali quotidiani, Corriere della Sera in testa, non fu preso in considerazione.

La Svezia del buon lavoro, scrivevo in quel diario di viaggio nella meglio Europa, ha la storia e il volto dell’operaio che mi viene incontro in una fabbrica di Soedertaelje, a mezz’ora d’auto da Stoccolma. Tommy Baecklund, 58 anni, è uno dei più anziani ombudsman dei lavoratori operante al nord, responsabile della sicurezza alla Scania, la principale azienda di veicoli industriali. A lui approdano i reclami di ognuno dei 3.400 dipendenti filtrati da 120 altri ombudsman (si chiamano così i delegati alla sicurezza, ombudsman in svedese significa «persona che fa da tramite») che lavorano tra queste mura: ispettori interni, invece che rari ispettori dall’esterno e a supporto della decina di organi di vigilanza purtroppo senza coordinamento tra di loro. La partecipazione dei lavoratori alla politica di prevenzione qui è più sviluppata che altrove in Europa. Sono circa 200 mila i delegati alla sicurezza. La nomina di un delegato alla sicurezza è obbligatoria per tutte le imprese con almeno cinque dipendenti. I delegati regionali sono invece circa 1.500 e coprono 170 mila piccole e piccolissime imprese.

Tommy è entrato in fabbrica a 23 anni come collaudatore. Ricevette per la prima volta questo incarico nel 1978. L’incarico valeva per tre anni, ma da allora è sempre stato riconfermato: la fiducia dei suoi colleghi ha premiato il costante calo degli incidenti in fabbrica.

Dal suo computer, sovrastato da un piccolo casco giallo simbolo della sicurezza, estrae le cifre puntuali: l’ultimo incidente mortale c’è stato 15 anni fa. Da allora alla Scania hanno registrato meno infortuni e sempre più lievi. Nel 1989 per un milione di ore lavorative ci sono stati 45 incidenti. Nel 1990 gli incidenti sono scesi a 37; un anno dopo a 24; poi a 20, poi a 12. Nel 2007, anno della mia visita, hanno toccato la punta più bassa finora: 10. «E ci battiamo per cancellare anche questa piccola cifra residua», sottolinea orgoglioso Tommy.

Nel suo ufficio angusto, in cui si fatica a stare in tre (io, lui e il fotografo Toni Sica), Tommy ricostruisce una giornata tipo nella sua vita.

Ogni mattina all’arrivo in fabbrica trova nel computer segnalazioni di eventuali inconvenienti che richiedono il suo intervento risolutivo. Un operaio ha avuto il dito del piede fratturato da una lamiera scivolata di mano? Uno «scudo» d’acciaio proteggerà d’ora in poi la parte superiore delle scarpe di chi lavora in quel reparto.

Una fiammata della fornace ha sfiorato un lavoratore che si è avvicinato troppo al fuoco? Viene posizionato un raggio laser a pochi metri dalla fornace: se qualcuno lo supera, automaticamente cala un portellone per chiudere la bocca della fornace e renderla così inoffensiva.

Tommy mi informa che da parte dei dirigenti della Scania c’è la massima collaborazione nel trovare antidoti ai rischi: più che le norme di legge (i codici svedesi prevedono multe salate e anche l’arresto dei responsabili aziendali, evenienza mai successa) in Svezia vale il confronto continuo e l’accettazione comune delle priorità in fabbrica. Che, nel caso specifico della Scania, vedono al primo posto la sicurezza e l’ambiente, seguiti dalla qualità del prodotto, dalla puntualità nella consegna e, infine, dai profitti che non mancano proprio perché sono stati rispettati sicurezza, tempi e qualità. «In Italia, dove pure gli strumenti legislativi sono buoni, mi risulta che queste priorità siano in molti casi rovesciate. E questa esasperata attenzione al profitto e disattenzione verso il decisivo capitale umano spiega quella mostruosità del dato statistico dei tre-quattro morti che voi italiani piangete ogni giorno. Voi italiani dovreste chiedere la tolleranza zero verso chi sbaglia. E dovreste far funzionare al meglio i controlli, dall’interno della fabbrica e dall’esterno, tramite gli ispettori».
«E magari sviluppare il sistema dei premi per le aziende e gli operai che raggiungono obiettivi non solo di fatturato ma anche di sicurezza. Così avverrà quel cambiamento di cultura necessario anche da parte di molti lavoratori che tendono a sottovalutare l’applicazione delle norme di sicurezza»: le parole dell’ombudsman svedese chiariscono meglio di tante ricorrenti esternazioni la nostra dolorosa situazione in materia.

La graduatoria che monitorizza le condizioni di lavoro, a cura dell’Organizzazione internazionale del lavoro con sede a Ginevra, assegna alla Svezia la medaglia d’oro: al secondo posto c’è la Finlandia, seguita da Norvegia, Danimarca, Olanda, Belgio e Francia. Al nono posto è la Germania, al tredicesimo la Spagna, al ventesimo si piazza l’Italia, preceduta da quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale, ma davanti agli Stati Uniti, in venticinquesima posizione. Chiudono la classifica dei novanta Stati monitorati, la Sierra Leone e il Nepal.

La Svezia vince il Nobel dei diritti dopo che sono stati esaminati, oltre alla flessibilità e all’occupazione, anche tutele anti-licenziamento, livello e continuità salariale, accesso delle donne, sicurezza dei lavoratori. Prendiamo quest’ultima voce: nel 2006 in tutta la Svezia ci sono state 67 “morti bianche”, equivalenti a 1,6 morti per centomila occupati. La stessa proporzione (quella «proporzione minima possibile» evocata da Romano Prodi) farebbe abbassare in Italia la media da 1.302 morti in un anno a «soli» 390.

Come ricorda Samuel Engblom, un avvocato specializzato in diritto del lavoro che ha il suo ufficio nel centro storico di Stoccolma, «trent’anni fa il bilancio delle morti in fabbrica in Svezia era tre volte più alto. La maggiore sicurezza da noi rispetto a tanti altri Paesi del mondo è il risultato del dialogo costante tra sindacati e datori di lavoro».

Oggi le migliaia di ombudsman in azione in fabbriche e nei cantieri edili dove elmetti e controlli sono la regola rispettata, in scuole e nell’esercito, insomma in ogni posto dove ci siano più di cinque lavoratori, oltre a trovare soluzioni per prevenire gli incidenti, hanno il potere/dovere di bloccare il lavoro quando c’è un pericolo potenziale.

Al ritorno in Italia incontrai a Milano Enzo Biagi al quale raccontai i risultati del mio viaggio sulle tracce del lavoro sicuro. Quel maestro di giornalismo aveva appena mandato ai convegnisti della Cgil, riuniti a Rimini per il primo centenario di vita di quel sindacato italiano, un video registrato con parole chiare:

“Ho ricevuto una grande lezione da mio padre operaio… Il mio pensiero va ai tanti operai che ho conosciuto nella mia vita… L’Italia è grande non solo per Leonardo da Vinci o Marconi, ma anche per gli operai, e per la loro umanità, quegli operai che oggi sono diventati quasi invisibili e senza voce”.

Quel giorno del mio incontro con Biagi, il tributo consueto di vite umane fu dovuto a una frana che seppellì vivi alle porte di Milano due carpentieri che lavoravano per costruire la fogna: un muratore di ben 69 anni e un giovane albanese. Oggi che Biagi non c’è più, rileggo con emozione gli appunti presi durante quell’incontro in cui il grande vecchio del giornalismo si domandava sconcertato se erano concepibili più di un migliaio di funerali di Stato all’anno per i martiri del lavoro. “Ormai si va in molti cantieri italiani come si va in guerra”, sottolineava Biagi. Che fare?, gli chiesi. Mi rispose:

Io mi limito a lanciare un appello al prossimo ministro del Lavoro: introduca la patente a punti per le imprese, sulla scia di quella introdotta per gli automobilisti e che ha provocato la riduzione degli incidenti stradali. Una patente a punti in questo settore a rischio dovrebbe penalizzare le aziende che non rispettano le regole e la sicurezza dei lavoratori, escludendole dagli appalti e addirittura arrivando a ritirare il permesso di lavoro in caso di ripetute irregolarità nel rispetto delle norme infortunistiche e previdenziali. E, ministro del Lavoro prossimo venturo, aumenti e faccia funzionare bene i controlli. Perché quando funziona il controllo finiscono il lavoro nero e gli infortuni”.

Una prova degli effetti benefici dei controlli? Eccola: qualche tempo fa un sindacato, la Filca Cisl, ha avuto l’idea di un documento unico per facilitare il dialogo tra gli enti pubblici e quelli sociali. Un documento comprendente le certificazioni dell’Inps, dell’Inail e delle Casse Edili per attestare i versamenti effettuati da parte delle imprese sia in campo previdenziale sia fiscale. Un esperimento fatto in Umbria, per la ricostruzione delle aree colpite dal terremoto del 1997, ha dato risultati straordinari ed è la prova evidente dell’efficacia dei maggiori controlli. Il bilancio: le imprese del settore sono raddoppiate e non si è verificato nemmeno un incidente mortale nei circa dodicimila cantieri.

Caro presidente, ognuno per la sua professione, deve fare la sua parte per mitigare sino a eliminare la piaga odiosa dei morti sul e per il lavoro. Spero di aver contribuito, nel mio piccolo, da divulgatore. E continuerò a contribuire, segnalando quelle azioni virtuose che vanno nella direzione giusta.

Le stringo la mano, con ammirazione

Salvatore Giannella

Salvatore Giannella, giornalista che ha ideato e cura con passione questo blog, ha diretto il mensile scientifico del Gruppo L’Espresso Genius, il settimanale L’Europeo, il primo mensile di natura e civiltà Airone (1986-1994), BBC History Italia e ha curato le pagine di cultura e scienza del settimanale Oggi (2000-2007). Ha scritto libri (“Un’Italia da salvare”, “L’Arca dell’arte”, “I Nicola”, “Voglia di cambiare”, “Operazione Salvataggio: gli eroi sconosciuti che hanno salvato l’arte dalle guerre”, “Guida ai paesi dipinti di Lombardia”, “In viaggio con i maestri. Come 68 personaggi hanno guidato i grandi del nostro tempo”, “Terra ultima chiamata”, “Acqua ultima chiamata”, “Le vie delle donne” (con Gaetano Gramaglia) e il recente “Michele Ferrero. Condividere valori per creare valore”, Salani), curato volumi di Tonino Guerra ed Enzo Biagi e sceneggiato docu-film per il programma Rai “La storia siamo noi” .

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