In occasione della partenza su Canale 5 del suo nuovo programma The Winner is, Gerry Scotti è tornato negli studi di Radio Deejay ospite di Linus e Nicola Savino. Tra gli argomenti trattati durante l’intervista anche l’impegno sociale del presentatore.

Si scopre così un particolare che pochi italiani conoscono: Gerry Scotti da sette anni finanzia con delle borse di studio quattro ricercatori ogni 12 mesi. Sono giovani medici dell’Humanitas Research Hospital di Milano che grazie al conduttore possono portare avanti i loro progetti di ricerca.

Un mondo per sostenere i ‘nostri’ giovani di talento, la ricerca e l’acceso egualitario ai trattamenti di alta specializzazione, “un miliardario e un poveraccio devono ricevere le stesse cure”: ha detto in un’intervista in diretta il presentatore. Qui il link al filmato:

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Fonte: Radio Deejay, redazione web, 15 giugno 2017.

 

L’ORIGINE DELLE COSE

L’Humanitas di Rozzano, gioiello

della ricerca nato in casa

di un grande medico: Dioguardi

Un famoso epatologo sognava di dare a Milano un ospedale moderno

per struttura e impostazione. Un giorno, trent’anni fa, incontrò

un assicuratore dai vasti orizzonti mentali. Fu l’inizio di una splendida Storia

narrata in una bella biografia: “Ci vuole fegato a chiamarsi Nicola Dioguardi”

LIBRI CHE MI FANNO COMPAGNIA / DIALOGO DI NICOLA DIOGUARDI* CON FIORENZA PRESBITERO**

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L’Istituto Clinico Humanitas è sito nel comune di Rozzano, 8 km a sud di Milano. L’ospedale è un I.R.C.C.S. (istituto di ricovero e cura a carattere scientifico) nel campo delle malattie immunodegenerative ed è certificato dalla Joint Commission International dal 2002 Indirizzo: Via Manzoni, 56, 20089 Rozzano MI.: Telefono 02 8224 8282.

Com’è nato l’Humanitas. Quali i protagonisti? E quali le energie messe in campo?

“Verso la fine degli anni ’80 lo stato fatiscente degli ospedali italiani, non solo milanesi, mi portò a concepire il disegno di un ospedale moderno per struttura e impostazione. In questo panorama, nell’anno di grazia 1988, Piero Romagnoli, personaggio di altissimo livello culturale e di vedute e aperture mentali ampie, era presidente della Associazione delle Compagnie Assicurative Italiane. Mia moglie Magda sognava una casa in montagna e seppe che il dottor Romagnoli stava realizzando appartamenti a Courmayeur. E Magda pensò di realizzare il suo sogno! Così Romagnoli fu invitato a casa Dioguardi e il contratto per l’acquisto della casa firmato. Da quel momento sorse tra noi due una calda amicizia.

Una domenica di fine agosto, seduti su una panchina davanti al Monte Bianco, Romagnoli e io parlammo della crisi degli ospedali e discutemmo della necessità di stendere il piano di un ospedale modello che potesse costituire la base di un nascente rinnovamento della Medicina in Italia e non solo.

Le Compagnie di Assicurazione avevano l’obbligo istituzionale di investire in case e fabbricati. Romagnoli mi chiese una soluzione. La mia risposta fu: «La vostra Compagnia potrebbe finanziare la costruzione di un ospedale nuovo e affittarlo, così invece di avere un centinaio di inquilini con cui discutere, ne avreste solo uno». La conversazione per il momento finì lì. Il periodo di vacanza dei coniugi Dioguardi era, nel frattempo, terminato, e il rientro a Milano avvenne la sera stessa. Il lunedì seguente ricevetti una telefonata in Policlinico da parte di Romagnoli: mi chiedeva di preparare una proposta per la costruzione di un ospedale, concepito su criteri di rapporto umano, di equità degli stipendi, di austerità senza avarizia e di sobrietà piena di discrezione.

Fu fatto anche il nome di mio fratello Gianfranco, esperto costruttore, sottolineando che sarebbe stato gradito che fosse lui a occuparsi della parte progettuale. Decidemmo di non procedere in questa direzione, cioè di un ospedale che diventasse inevitabilmente una sorta di gioiello di famiglia: il nostro sogno era solo far sì che il nome Dioguardi fosse legato alla realizzazione di una struttura a carattere sociale.

Con Piero Romagnoli, che fin dal primo momento ho considerato come un vero fratello maggiore (aveva circa quattro anni più di me), discutemmo a lungo sull’impostazione. Preparai una sorta di ‘libro bianco’ che raccoglieva il progetto con finalità e scopi. L’accettazione della mia, nostra, proposta fu seguita dalla assegnazione da parte delle Compagnie Assicurative di una cospicua somma di denaro. Il compito era costruire quell’ospedale.

Pensai che dovevo rivolgermi ai migliori nomi dell’imprenditoria milanese e lombarda per avere le garanzie che il progetto sarebbe stato di sicuro successo. Interpellai così Gianmarco Moratti, che mi diede il suo consenso, il giovane Jody Vender e Roberto Tronchetti Provera che suggerì di coinvolgere la famiglia Rocca, imprenditori italo-argentini del gruppo industriale Techint. Fu così che nacque Humanitas, che ha accolto il primo ammalato nel settembre 1996. La costruzione, iniziata nel 1992, è durata circa quattro anni ed è stata eseguita seguendo in buona parte i princìpi che io avevo indicato. E alla fine l’opera è risultata straordinaria”.

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Nicola Dioguardi (Bari, 1921), direttore scientifico emerito dell’Humanitas di Rozzano, autorità mondiale nel campo delle malattie del fegato.

Vinse la gara internazionale per la costruzione dell’ospedale lo studio di architettura inglese James Gowan. Che cosa La colpì di quel progetto?

“Anche il progetto di fattibilità fu realizzato da un’impresa inglese ed eseguito in modo egregio. Nella fase di progettazione dell’erigendo ospedale fornii una serie di informazioni sulle caratteristiche funzionali, sempre da un punto di vista medico, sulla base della mia lunga esperienza. Negli anni a seguire la responsabilità delle scelte organizzative e gestionali dell’ospedale è passata quasi interamente a Gianfelice Rocca, che è tuttora il presidente di Humanitas.

Mi fu assegnata la direzione scientifica di Humanitas, della quale sono tuttora Sovrintendente Scientifico, affiancato da una eccellente segretaria, Antonella Pisano, che mi ha molto aiutato nella stesura dei risultati della mia ricerca e mi ha assistito in momenti delicati per la mia salute. Con questo incarico ho ottenuto e mantenuto libertà di pensiero”.

In questi venti anni di Humanitas come è proseguita la Sua ricerca?

“Avevo cominciato a lavorare sulla dinamica applicata in area medica. Inizialmente l’organo interessato fu il fegato. Si trattava di trasportare i contenuti da un piano teoretico, descritto rispettivamente in:

  1. “L’insufficienza epatica” (Congresso della Società di Medicina Interna, Roma 1982;
  2. “Il fegato sistema aperto”, “Il fegato a più dimensioni”;
  3. “Prolegomeni alla conoscenza delle malattie del fegato”, a uno pratico.

In questo ordine costruii così il metrizer, una macchina che misura gli elementi calcolabili nella biopsia epatica, che consentono di definire lo stato istantaneo del malato in studio.

La macchina è in grado di leggere 11 parametri nuovi che nessuno ha mai studiato. È stata anche brevettata, ma non ancora utilizzata pienamente nella pratica clinica in Italia. È stata invece reinventata di recente in Giappone, studiando i colori come parametri di osservazione. Il metrizer appartiene a una metodologia, basata sui criteri della meccanica; mi sarebbe piaciuto crearne uno in versione informatica. Persino Bill Gates, il fondatore di Microsoft, si interessò alla mia scoperta, e io ne fui entusiasta: si arrivò a ipotizzare di poter creare in Humanitas un laboratorio che si occupasse dello sviluppo informatico di queste conoscenze, evento che purtroppo, per diversi motivi, per ora non si è ancora concretizzato”.

Medici, ricercatori, studenti, personale sanitario e non. Come è cambiato negli anni il rapporto tra questi protagonisti di Humanitas?

“Come in ogni ospedale è difficile tenere insieme, senza conflitti, le varie componenti, in particolare quella amministrativa e quella tecnico-sanitaria. Con i medici continuo a essere in un rapporto più che amichevole. Con il personale infermieristico e non, costituito da oltre 2000 persone, ho coltivato sempre un rapporto di grande rispetto per loro e il loro lavoro, nutrito e contraccambiato con dimostrazioni di sincero affetto. Sono particolarmente grato agli uomini del laboratorio di informatica della sede centrale di Humanitas che hanno sempre manifestato nei miei confronti una paziente disponibilità.

L’Humanitas è uno dei pochi ospedali in Italia che riesce ad autofinanziarsi. E tutto ciò viene raggiunto attraverso un equilibrio, a volte non facile, tra la necessità di ottenere una contabilità positiva e quella di fornire cure lunghe e costose, non sempre pienamente supportate dal Servizio sanitario nazionale. L’Humanitas ha fatto un grosso sforzo in questa direzione, creando un apparato amministrativo e organizzativo che è da supporto a quello medico e infermieristico, ma a volte la necessità del bilancio e l’urgenza di spese maggiori per trattamenti più avanzati, non vanno nella stessa direzione e il mantenimento di questo equilibrio rimane un problema delicato e aperto. A volte si creano conflitti tra il personale sanitario migliore, che tende alla cura esasperata dei malati, e il personale amministrativo che deve rispettare le esigenze di bilancio.

Il governare e sanare questo tipo di conflitti per raggiungere un giusto equilibrio è la vera sfida di ospedali come Humanitas, ed è una sfida tuttora in corso. Ci sono momenti in cui la manifestazione di questi conflitti è più intensa e altri in cui viene superata; dei momenti in cui i costi di certe scelte mediche e farmaceutiche di avanzamento tecnico diventano difficilmente compatibili con il pareggio di bilancio.

Nell’augurio che ho rivolto a Gianfelice Rocca in occasione del ventesimo anniversario della fondazione di Humanitas, ho cercato di sottolineare ciò che mi sta più a cuore:

Sono venti anni, gli ultimi della mia vita: quasi un secolo. Ne ho visti tanti. Ne ho viste tante. E in questo momento credo che posso dirvi di poter concludere contento.

Quello che vorrei è lasciare qualcosa a Te, Gianfelice, che mi ricordi: ti ho sentito nominare due volte la parola ‘uomo’. Credo che in quello che tu hai pensato, c’è il sogno di noi tutti: occuparci di uomini.

Io credo che questo sogno dovrà esser concretizzato e dovrà essere continuato, ricordandoci che abbiamo scelto il compito non di fare, ma di essere medici, di occuparci non di malattie ma di uomini e donne malati. Resistiamo alla tentazione di curare soltanto la malattia, dimenticandoci dell’uomo; di studiare sintomi e prescrivere esami e farmaci, limitandoci a considerare una realtà così come appare senza approfondire come essa è, scelta non utile per il paziente.

Io sono figlio di architetti: mio padre era architetto, mia madre non lo è diventata perché sono nato io. In casa nostra, mio padre scolpiva ‘pezzi d’opera’ per i suoi progetti architettonici. Creava anche figure riproducenti esseri del genere umano. Trasformava immagini di uomini in messaggi per gli uomini. Io non so se ho saputo fare cose del genere. Ma voglio darti una figura che chiamerò ‘modello operazionale’. Ha l’intento di mantenere una memoria. È il modello, ligneo e snodabile, che utilizzano tutti coloro che si occupano di raffigurare l’uomo. Ti prego, accettalo e conservalo perché non è mai superfluo ricordare alla memoria di un uomo che ricordi a ciascuno dei suoi uomini di essere un uomo che si occupa di uomini. Uomini ammalati.

Come si sposa questa concezione del medico umanista con il progetto di Humanitas, in particolare, e di ogni ospedale che nasca oggi?

“In queste fasi di evoluzione della scienza e della prassi la figura del medico, ma non solo quella, ogni volta va ad assumere, nelle società in cambiamento culturale ed economico, nuovi limiti operativi, travestiti da espansioni professionali in altri ambiti, oppure più spesso fatti passare per progresso. Per esempio è stata attribuita al medico la qualifica di ‘medico manager’ per assoggettarlo a norme che potrebbero anche, all’estremo, diventare conflittuali con la sua etica. Difficile è capire se, invece, questa espressione linguistica sottenda il concetto di ‘operatore economico’. Un modo sub specie lirica per presentare il nuovo stato ‘servile’ della professione, laddove questa arte nella sua configurazione vera è altrove”.

Un pericolo evitabile?

Aristotele ha descritto in tre fasi l’evoluzione di qualunque evento. Il momento della creazione, il momento di quella che egli definisce “fastigio”, cioè la fase di massima brillantezza, e per finire la terza fase, quella della degenerazione che precede l’estinzione. Noi viviamo in quest’ultima fase”.

Immagino che, come avviene spesso nei matrimoni, abbia avuto qualche volta la tentazione di divorziare. È così?

“Dieci giorni prima di morire Piero Romagnoli mi chiamò e mi fece giurare per la seconda volta che non avrei mai lasciato l’Humanitas. Negli anni passati per ben due volte stavo per rompere questo giuramento: avevo già caricato un camion con tutti i miei effetti quando lo stesso Romagnoli si precipitò per fermarmi e impedirmi di andarmene. Forse la causa era la mia insofferenza nel vedere che il progetto scientifico iniziale rischiava di perdere lo smalto e lo splendore dei primi tempi. Però, citando il termine da Lei usato, quando in un matrimonio si riesce a superare la crisi, spesso il legame ne esce rafforzato. E così è avvenuto anche tra me e Humanitas. Tante altre cose potrei dire su Humanitas circa rapporti umani e tecnici, ma sono solo l’espressione, il risultato di sogni, di battaglie scientifiche e cliniche, di vittorie e di sconfitte, e a volte di incomprensioni nonché di umiliazioni. Ma Humanitas resta Humanitas e a mio avviso rappresenta forse la ragione per cui il Padreterno mi ha fatto venire al mondo”.

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“Ci vuole fegato per chiamarsi Dioguardi”, di Fiorenza Presbiterio.

** Fiorenza Presbitero lavora come freelance nel ricostruire biografie. Per procurarsi una copia del suo volume “Ci vuole fegato per chiamarsi Dioguardi” contattare ALT (Associazione Lotta alla Trombosi), via Ludovico da Viadana n.5. 20122 Milano, tel. 02.58325028.