Conobbi Mimmo Càndito, grande inviato di guerra per la Stampa, ucciso da un tumore tre settimane fa, in un’occasione particolare: Israele 1972, nei giorni successivi alla strage delle Olimpiadi di Monaco costata la vita a undici atleti israeliani. Avevo 23 anni, lavoravo a Genova come free lance e quello spargimento di sangue innocente mi convinse a partire per Tel Aviv, con un biglietto di sola andata per raccontare frammenti di vita, di costume, di scienza nell’anima di quel paese colpito da quell’orribile atto terroristico. (Ci sono tracce dei miei reportage, inclusa un’intervista all’allora giovane leader socialista Shimon Peres, sui quotidiani di Genova e di Napoli, Il Lavoro e Il Mattino).

Nell’albergo di Tel Aviv c’erano i principali reporter di guerra e non solo: Egisto Corradi, Bernardo Valli, Giampaolo Rossetti e lui, Candito, da pochi anni assunto nel quotidiano torinese. La riunione pomeridiana della squadra fu per me, alle prime armi, di grande utilità professionale. Con Càndito, e anche con Rossetti che era lì per il settimanale Oggi, fu l’inizio di una amicizia destinata a rinsaldarsi negli anni a venire, quando nel 1999 divenne presidente di Reporter senza frontiere e pubblicava libri di grande valore sul mestiere di giornalista (come I reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile da Hemingway a Internet, 2009, aggiornato e ripubblicato da Baldini Castoldi Dalai nel 2016, con l’aggiunta a mano di un iniziale ed eloquente “C’erano”, a indicare quella razza in estinzione che sono appunto gli inviati di guerra, con la Lucia Goracci e Lorenzo Cremonesi a tenere alta la bandiera consunta della squadra d’oggi).

Il generale K (con quella consonante lo chiamano i medici, quasi per nascondere l’aggressività della malattia killer) lo aveva addentato ai polmoni e non lo ha mollato fino a quando è venuta meno la resistenza che Mimmo ha opposto (e narrato in 55 vasche. Le guerre, il cancro e quella forza dentro, Rizzoli 2016).

Mimmo era amico di giornalisti comuni, di fama come Antonio Ferrari del Corriere della Sera (qui il suo ricordo) e di fama futura, come la free lance Letizia Magnani, collaboratrice di talento e coraggio per giornali e case editrici e che si è segnalata anche su Giannella Channel per puntuali cronache da lontani luoghi del pianeta, come il Sud Africa del dopo Mandela. Sapendola allieva di quell’amico e maestro scomparso, le ho chiesto un ricordo di Candito e, contemporaneamente, ho ripreso in mano il libro di Letizia (C’era una volta la guerra… e chi la raccontava. Da Iraq a Iraq, storia di un giornalismo difficile, Dbcard Ed. Roma 2008, www.edizioniassociate.it) di cui pubblico la prefazione firmata dal professor Giovanni Gozzini. (s.g.)

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Salvatore Giannella, giornalista che ha ideato e cura con passione questo blog che vuole essere una bussola verso nuovi orizzonti per il futuro, ha diretto il mensile scientifico del Gruppo L’Espresso Genius, il settimanale L’Europeo, il primo mensile di natura e civiltà Airone (1986-1994), BBC History Italia e ha curato le pagine di cultura e scienza del settimanale Oggi (2000-2007). Ha scritto libri (“Un’Italia da salvare”, “L’Arca dell’arte”, “I Nicola”, “Voglia di cambiare”, “Operazione Salvataggio: gli eroi sconosciuti che hanno salvato l’arte dalle guerre”, “Guida ai paesi dipinti di Lombardia”, “In viaggio con i maestri. Come 68 personaggi hanno guidato i grandi del nostro tempo” e, a quattro mani con Maria Rita Parsi, “Manifesto contro il potere distruttivo”, Chiarelettere, 2019), curato volumi di Tonino Guerra ed Enzo Biagi e sceneggiato docu-film per il programma Rai “La storia siamo noi” (clicca qui per approfondire).

Quel giornalismo difficile e il tuo invito, caro Mimmo: “Non smettere mai di andare”

È per quel “giornalismo difficile”, come recitava il sottotitolo del tuo libro più famoso “Reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile da Hemingway ad Internet” che tutti noi ci indigniamo e lottiamo, giorno dopo giorno. Il giornalismo italiano e mondiale adesso sono in lutto per la scomparsa di un amico e di una maestro, Mimmo Candito.

La tua prima guerra fu il Libano, seguita a stretto giro dalle isole Falkland. L’ultima guerra, già combattuta da anni, quella con un male osceno, incurabile, non puoi più raccontarcela, Mimmo. E dire che non hai mai fumato, nemmeno una sigaretta.

Lo ripetevi a ogni telefonata, come ripetevi ogni volta: “Non smettere mai di andare”. Perché, dicevi “Da fuori puoi capire, perfino analizzare e scriverci un libro, ma da dentro vedi quello che accade mentre accade e allora scrivi la vita”.

Era la tua passione smisurata a colpire ogni volta. Un raccontatore nato. Lo sanno bene i tuoi lettori de la Stampa e i tuoi studenti all’Università di Torino, come lo sappiamo bene noi, tutti noi, che sul tuo insegnamento abbiamo mosso i primi passi di questo “giornalismo difficile” e in continuo cambiamento.

Era in particolare la passione per gli ultimi della Terra che ti spingeva ad andare per raccontare, odiando la guerra per tutto ciò che significava “puzza di merda e di morte” e amando la pace. A questo in fondo serviva quel tuo racconto, a ricordare quanto sia importante per tutti noi la voce del cronista che racconta gli ultimi.

Ti eri reso conto prima di tutti che il nostro mondo stava cambiando, che i giornali si sarebbero fatti presto senza giornalisti e che l’inviato speciale era a rischio estinzione, come un panda (e c’è chi evoca gli estinti dinosauri…). Eppure, nonostante questo, mai, in tanti anni ti sei arreso. Non eri di quei giornalisti spocchiosi che al giovane di belle speranze dicono “Non farlo”. No, tu dicevi “Vai”, consapevole però che non possono andare tutti e che, per coprire la parte più difficile, sia questa la guerra, la mafia o la massa di disperati che attraversano l’Europa a piedi, bisogna essere preparati. Ma più di tutto bisogna mettere da parte il proprio ego per riuscire a “capire e a far capire” (quell’insegnamento di Marc Bloch che era ed è valido anche per noi giornalisti). Solo così puoi raccontare, senza retorica, gli occhi della madre siriana che aspetta nel freddo infernale del confine fra la Serbia e l’Ungheria che i militari allentino la loro rabbia, magari di notte, quando la temperatura è impossibile e l’alcol ha fatto effetto.

Avevi portato i colleghi di mezzo mondo dal Pakistan all’Afghanistan (è uno dei miti che rimarranno) e in quell’occasione avevi umiliato i grandi network americani, obbligando tutti, a dire il proprio nome a voce alta, con Vincenzo Dell’Uva che gongolava e conoscevi i vizi (tanti) e le virtù (poche) di quasi tutti, compreso “il vampiro”, compresa la morte tragica di Maria Grazia Cutuli. Ma di fronte alle debolezze umane abbassavi gli occhi, in segno di rispetto.

C’è una intera categoria in piedi ora, orfana di un padre generoso e appassionato. (l.m.)

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* Letizia Magnani è nata a Cervia. È giornalista professionista e consulente per la comunicazione (fra le altre cose è stata a capo dell’ufficio stampa delle Giornate internazionali di studio del Centro Pio Manzù e attualmente cura una collana di libri sulle saline di Cervia). Ha una laurea in scienze della comunicazione (con lode!) all’Università di Siena e un master in giornalismo investigativo in Urbino. Ha pubblicato diversi volumi di ricerca, il primo sul giornalismo di guerra, C’era una volta la guerra… e chi la raccontava; il secondo sulla storia dei 100 anni di Milano Marittima: Milano al Mare. Milano Marittima: 100 anni e il racconto di un sogno (Ravenna 2011).

Il reporter di guerra: un mestiere pericoloso che sta cambiando

A fare il giornalista di guerra si muore oggi più di ieri. È diventato un mestiere più pericoloso per due ragioni.

La prima è il mutamento di natura delle guerre contemporanee: che sempre meno hanno linee di fronte chiare e determinate, eserciti regolari in uniforme, regole valide di reciprocità nel trattamento dei civili. E che invece sempre più sono guerre civili, all’ultimo sangue, dove la popolazione (e a maggior ragione i giornalisti) è sempre potenziale ostaggio e merce di scambio.

La seconda è la miniaturizzazione delle tecnologie e le inedite possibilità di movimento e connessione che esse aprono a tutti, anche a chi professionista dell’informazione non è. Con il seguito inevitabile di improvvisati avventurismi piccoli e grandi, veniali e mortali, che questa maggiore libertà porta con sé. E sul quale – talvolta andrebbe detto – la corporazione dei giornalisti farebbe meglio a indagare e (se possibile) controllare di più.

Per analizzare queste trasformazioni Letizia Magnani nel suo libro segue un percorso “classico”: interviste a diverse generazioni di inviati, che mettono in luce continuità e rotture, prossimità e distanze. Lo fa con una sua grande, personale passione, che del resto trova riverbero nella passione degli uomini e delle donne del mestiere: una passione straordinaria, nel senso etimologico del termine. C’è sempre il pericolo di cadere nella retorica, ma forse il corrispondente di guerra corrisponde davvero all’immagine di “ultimi avventurieri del nostro tempo”, simili ai missionari e agli esploratori, alla perenne ricerca di un senso nei punti estremi del mondo. Laddove la formula “servizio informativo” acquista un significato più puro, lontano dai palazzi e dagli intrighi di potere.

Poi, certo, c’è anche tanto cinismo e ambizione. Ma anche su questo le pagine del libro sono meno reticenti e ipocrite di tante altre.

Spero che le leggano molti dei tanti ragazzi che – oggi più di ieri – affollano le nostre aule e vogliono fare da grandi i giornalisti. Magari solo perché hanno visto in tivvù la bella giornalista con i capelli al vento, il microfono in mano, un carro armato sullo sfondo. Potranno capire quanta gavetta c’è da fare, quanta polvere da mangiare, quanta intelligenza e preparazione da mettere in campo. Giornalisti (di guerra) non si nasce, ovviamente. E non si smette mai di diventarlo, perché c’è sempre qualcosa da imparare e ogni situazione nasconde rischi (mortali). Ma farlo bene è molto, molto importante. Confusamente i nostri ragazzi avvertono questa potenza e se ne contagiano.

Questo libro raffredderà l’entusiasmo e chiarirà le basi di un mestiere, che è l’esatto contrario di andare dove sparano. Che significa capire, documentarsi, approfondire, non contentarsi delle apparenze né (soprattutto) delle verità ufficiali. Molta fatica, molta solitudine. Molta attenzione, molta sensibilità, molta capacità di ascolto. Ma è uno di quei mestieri senza il quale il nostro mondo sarebbe più povero. (g.g.)

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Giovanni Gozzini (Firenze, 1955) insegna Storia del giornalismo e Storia contemporanea alla facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Siena. È autore di studi su Firenze nell’Ottocento, sulla storia dello sterminio nazista, sulla storia del Pci, sulla storia del giornalismo (Storia del giornalismo, Milano 2000), sulla storia delle migrazioni internazionali e sulla storia della globalizzazione. È membro della direzione della rivista «Passato e presente», dal 2000 al 2007 è stato direttore del Gabinetto Vieusseux di Firenze e dal 2007 al 2008 assessore alla cultura del Comune di Firenze.