Un sabato sera passato nell’attualità della memoria grazie a un film, The Post, visto nel cinema preferito, l’Arcadia di Melzo, dove le immagini sul megaschermo si accompagnavano alle pagine dei volumi che ti presentava Giuseppe Colangelo, libraio digitale attento come quelli di una volta.
 
Di attualità perché la storia della pubblicazione dei documenti dei “Quaderni del Pentagono”, avvenuta agli inizi degli anni Settanta sul quotidiano Washington Post dopo uno scontro senza precedenti in nome del diritto di cronaca e della libertà di stampa (l’amministrazione Nixon chiedeva l’occultamento dei documenti segreti sulle strategie del governo statunitense nella guerra contro il Vietnam) è un capitolo ancora aperto, negli Stati Uniti e in altre terre delle democrazie occidentali. Ancora di attualità perché ricorda a noi tutti (giornalisti, editori e lettori) l’importanza ancora oggi, a mezzo secolo di distanza da quei Pentagon Papers, del giornalismo d’inchiesta, del coraggio e dell’etica nella storia dell’informazione, valori incarnati nel film dall’editrice Katharine Graham (splendidamente rappresentata da Meryl Streep) e dal testardo direttore del giornale Ben Bradlee (interpretato da Tom Hanks) che mettono a rischio la loro carriera e la loro stessa libertà pur di portare alla luce quello che quattro Presidenti hanno nascosto e insabbiato per anni.
 
La memoria, dicevo, perché quelle atmosfere del film diretto da Steven Spielberg mi hanno riportato alla mente un incontro che ebbi nell’agosto 1982 con un giovane e creativo direttore di giornali americani (William Broyles jr., Bill per gli amici) e con l’editrice (Katharine Graham, sì proprio lei) che lo chiamò a dirigere uno dei maggiori newsmagazine dell’epoca: Newsweek. Quell’incontro a Los Angeles e quel dialogo finirono nelle pagine del settimanale rizzoliano Europeo, allora diretto da quel maestro del giornalismo italiano che fu Lamberto Sechi (qui un suo inedito che ci ricorda i pilastri di due mestieri da anni in crisi in Italia, il giornalista e l’editore).
 
Mi è piaciuto ritrovare nei brani di quell’intervista a Broyles il profumo di un certo giornalismo romantico e di sorprendente attualità: pensate all’intuizione vincente della stampa locale di qualità, al data journalism come le inchieste e gli approfondimenti che Milena Gabanelli conduce sul Corriere della Sera per spiegare i fatti con l’aiuto di dati e nuove tecnologie, e alla necessità di puntare sulla comprensione invece che sulla quantità di informazioni: “un maggior numero di notizie non significa una maggiore comprensione”). Un giornalismo, un mondo in gran parte dimenticati. (s.g.)

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La mia intervista a William Broyles apriva la sezione Cultura sull’Europeo del 23 agosto 1982.

(Los Angeles, agosto 1982)

Da martedì 7 settembre 1982 Newsweek, il settimanale americano di attualità che con Time ha inventato la formula del newsmagazine diffondendo nel mondo la cultura dell’informazione, sarà firmato da un nuovo direttore: William Broyles jr., 37 anni, ex tenente dei marines nel Vietnam e insegnante di filosofia, approdato al giornalismo nel 1972 e premiato più volte per la creatività editoriale dimostrata dirigendo i mensili locali Texas Monthly (da lui fondato) e California. Affidando a Broyles il prestigioso incarico, Katharine Graham (65 anni, proprietaria – oltre che di Newsweek – anche del quotidiano Washington Post e di varie stazioni radio e televisive considerata la donna più potente d’America) ha colto di sorpresa i suoi collaboratori e il mondo editoriale americano: è la prima volta, nei 49 anni di vita del settimanale, che il direttore non viene scelto all’interno della redazione.

Per giustificare questa decisione inaspettata, la Graham ha presentato un alibi affascinante. Per lei, che prima di fare l’editore ha lavorato come giornalista, il giornalismo in generale e il newsmagazine in particolare stanno vivendo un momento di crisi di identità: “Bisogna esplorare, scoprire le nuove frontiere del giornalismo e Broyles, con il lavoro creativo fatto finora nei suoi giornali, è l’uomo che ritengo abbia tutte le carte in regola per gestire questa nuova fase culturale”. Chi è? Come lavora? Come la pensa questo giovane presentato con simili credenziali d’eccezione? Come sta cambiando il giornalismo americano? Dove vanno i newsmagazine? William Broyles (Bill per gli amici), da me raggiunto nella redazione staccato di Newsweek a Los Angeles, ha acconsentito a ricostruire la sua esperienza di questi anni e i suoi progetti per il futuro.

A soli 37 anni direttore di uno dei più prestigiosi giornali del mondo. Bel colpo. Com’è andata, signor Broyles?

“Ah, semplice. A giugno mi chiama al telefono, da Washington, la signora Graham. Voleva scambiare con me alcune opinioni sull’evoluzione dell’editoria americana. Ci siamo incontrati più volte in un albergo di San Francisco. I colloqui sono andati avanti per un mese e mezzo. Lei non si è limitata a fare domande a me. Ha interrogato tutti quelli che mi conoscevano, ha chiesto giudizi sulla mia professionalità, sul mio carattere. È andata anche nel Texas a trovare i miei vecchi collaboratori. Un giorno mi ha appunto telefonato qui a Los Angeles dal Texas, dall’aeroporto di Austin: ‘Scusa, Bill, ti ho fatto un sacco di domande: ne ho un’altra da farti, posso?’. Io: ‘Oh no, ancora!’. E lei: ‘Ti piacerebbe essere il nuovo direttore di “Newsweek”?’. E io, sbalordito ma felice: ‘Sì, certo’ ”.

La storiella è edificante. Lei, però, non dice che qui, sulla costa ovest, la dipingono da tempo come un enfant-prodige del giornalismo. C’è chi, addirittura, sulle colonne di Adweek, è arrivato a definirla un intellettuale dotato di particolare carisma, una sorta di John Kennedy del giornalismo.

“In realtà non ho fatto altro che avere un’intuizione, crederci e andare avanti con ostinazione, lavorando 70 ore alla settimana. E i buoni risultati non sono mancati”.

Quale intuizione?

“Agli inizi degli anni Settanta la stampa americana ha vissuto un periodo terribile. I grandi settimanali illustrati, quelli celebri in tutto il mondo e con diffusione ‘da costa a costa’ come Life, Look e il Saturday Evening Post cadevano sul campo soffocato dalle loro gigantesche dimensioni. Era chiaro che occorrevano strumenti più abili, più mirati. L’America è così differente da un posto all’altro. Chicago ha poco in comune con Los Angeles a Washington, uno che viene da fuori non se ne rende conto”.

Sarebbe come fare a Milano una rivista per l’intera Europa…

“Esatto. Così io e Michael Levy, un amico di 25 anni che aveva maggiore dimestichezza con la finanza, decidemmo di scegliere una parte dell’America con caratteristiche piuttosto marcate e di fare in quella regione una rivista con la stessa alte qualità dei periodici nazionali”.

Che esperienza avevate di giornalismo e di editoria?

“Poca. Io avevo scritto qualche articolo per L’Economist, il New York Times e il settimanale New York. Lui, Michael, si occupava per la prima volta di giornali”

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The Post: Tom Hanks in una scena del film.

Sceglieste il Texas. Per quali motivi?

“Primo, perché già c’eravamo. Io sono nato a Houston, poi ho lasciato gli Stati Uniti, ho studiato a Oxford in Inghilterra sono rientrato per essere arruolato nella Prima divisione marines e partire per il Vietnam. Nel Settanta ero nella penisola di Go Noi, impegnato nella costruzione di un villaggio per rifugiati. Allora avevo due obiettivi essenziali per il futuro, restare vivo e tornare a casa. Dopo la guerra sono tornato a Houston e ho trovato lavoro a scuola, insegnavo filosofia. Soprattutto io e Michael abbiamo deciso di fondare un mensile nel Texas perché il Texas, 12 milioni e mezzo di abitanti con tre tra le dieci più grandi città d’America, stava vivendo un’interessante fase di passaggio. Tradizionalmente arretrato e agricolo, legato all’immagine sorpassata del cowboy, questo Stato si stava imponendo come l’Arabia Saudita americana: l’industria petrolifera si espandeva a macchia d’olio, trainando anche le altre industrie, la chimica, l’elettronica, e facilitando l’arrivo da altri Stati di oltre un milione di emigrati che potevano snaturare completamente l’identità culturale della regione. Una crescita, quindi, che avveniva tra mille contraddizioni, tra esplosioni di violenza e di ricchezza: per la prima volta i negozi di Dallas, Houston e Austin non avevano nulla da invidiare a quelli di Manhattan. In frangenti come questi un giornale che affronti in maniera chiara e documentata i vari problemi (dalla salute all’inquinamento, dalla politica alla giustizia) diventa uno strumento culturale essenziale per aiutare a capire, per contribuire a dare un’identità alla gente che non l’ha più”.

Nacque così Texas Monthly con lo slogan “Far capire il Texas ai texani”. Quanto vendevate all’inizio?

“Trentamila copie. Dopo 18 mesi avevamo però ben 84 mila abbonati. Oggi, dieci anni dopo, se ne vendono 280 mila e si fatturano 1.200 pagine di pubblicità all’anno”.

La chiave del successo?

“Scrittura e grafica di alta qualità (per tre anni abbiamo vinto il National Magazine Award, una specie di premio Pulitzer per il giornalismo periodico). Prima di allora queste caratteristiche erano solo dei giornali di New York. È importante capire qual era la situazione del Texas rispetto all’America. Questo Stato era sempre stato considerato alla stregua di una colonia, qualcosa come la Sicilia nei confronti di Roma. I coloni hanno sempre un senso di orgoglio e di tensione culturale nei confronti della confederazione. In casi come questi, un giornalismo locale valorizza il senso di orgoglio dei coloni, gli dà concretezza culturale”.

Come riuscivate a ottenere un prodotto di alta qualità pur essendo ai primi passi nel giornalismo?

“È stata una delle esperienze più eccitanti. Non ci siamo affidati a giornalisti professionisti o a scrittori qualificati. I nostri migliori giornalisti erano avvocati, medici, uomini d’affari, persino un ex agente della Cia e un giardiniere: tutta gente che aveva una visione fresca del mondo, sui cui problemi scriveva articoli. Per la grafica ho avuto la fortuna di lavorare con un’art director formidabile: Sybil, una che non mi lascia mai, nemmeno di notte. È mia moglie”.

Nell’80 vi imbarcate su un aereo, destinazione California, decisi a ripetere l’esperienza del Texas…

“A Los Angeles c’era già un mensile locale su cui avevamo puntato gli occhi. Era New West, di proprietà del petroliere australiano Rupert Murdoch. Era in cattive acque: vendeva poco, perdeva molti soldi, in più non funzionavano le macchine da scrivere e quelle del caffè”.

Anche la California stava vivendo un momento di profonda trasformazione?

“Cento anni fa in questo Stato non c’era niente, 40 anni fa s’erano stabilite 5 milioni di persone, adesso ce ne sono oltre 24 milioni, quasi quanto la metà degli italiani e stiamo assistendo a un cambiamento molto rapido nell’economia, nella cultura, nel costume. Abbiamo apportato qualche modifica, cambiato la testata nel nome più semplice e immediato: California (San Francisco si chiamava prima Yerba Buena, John Wayne esordì come Marion Morrison, perché avremmo dovuto temere di modificare il nome di un giornale?) e, nel giro di due anni, la diffusione è aumentata: 32 per cento in più all’anno, ora supera le 250 mila copie. È aumentata anche la pubblicità. Le macchine da scrivere e quelle del caffè funzionano”.

È aumentata anche l’influenza della California sulla vita politica degli Stati Uniti. Alla Casa Bianca, ormai, vengono tutti da Los Angeles, San Francisco e dintorni: Reagan, Schultz, Weinberger, Habib…

“Non lo ritengo un caso. I risultati del censimento fatto due anni fa dimostrano che è cambiata radicalmente la geografia sociale e politica dell’America. Gli americani si stanno spostando dal Nord-est industriale (Boston, New York e Washington) verso il Sud, soprattutto verso il Sud-ovest (Las Vegas, San Francisco, Los Angeles). Rispetto al 1970 la popolazione americana è aumentata da 203 milioni a 227 milioni di abitanti. Una buona metà dell’aumento è avvenuto nei tre Stati di maggiore espansione: California, Texas e Florida.
“L’America è di nuovo in cammino verso il Far West, verso la fascia del sole, perché c’è un clima più caldo, per il minor costo della vita, per il boom delle industrie più moderne, dall’elettronica all’aeronautica. Se la storia dell’America fosse una commedia teatrale, la costa est rappresenterebbe il primo atto, quella ovest l’atto terzo. E se, per paradosso, la statua della Libertà fosse costruita oggi, non sarebbe piazzata nel porto di New York: gli aeroporti di Los Angeles o San Francisco sarebbero posti più appropriati. È molto difficile, per chi vive a New York, capire in pieno i problemi di chi vive a ovest del fiume Mississippi. Questo cambiamento, che é insieme demografico, politico e culturale, potrebbe giustificare la scelta che la signora Graham ha fatto per Newsweek”.

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L’editrice Katharine Graham (New York, 1917- Boise, Idaho, 2001).

Signor Broyles, non c’è dubbio che nel campo di mensili locali ha dimostrato di saperci fare. Ma Newsweek non è un mensile, né un giornale locale. E le vendite, stando alle cifre ufficiali, non sono calate. È sufficiente questo scenario per giustificare l’incarico che le è stato affidato?

“Una premessa. Newsweek va bene, è bello. Ha un’ottima redazione e un bravo direttore in Lester Bernstein. L’editore però mi è parso preoccupato non per la situazione di oggi, ma per quello che potrà succedere in futuro, diciamo tra cinque anni. La filosofia editoriale del tipo le-notizie-ogni-settimana è vecchia di 60 anni. Da sempre i direttori di Time e Newsweek venivano scelti all’interno della redazione proprio perché allineati a questa filosofia, ma evidentemente la signora Graham ha pensato che è venuto il momento di voltare pagina, che occorra una visione nuova per un newsmagazine del futuro”.

Sarà pure vecchia, questa filosofia editoriale, ma finora ha dato grandissime soddisfazioni in tutto il mondo. Come intende modificarla?

“Intanto penso all’uso più sapiente della grafica e delle fotografie, perché gli americani oggi sono più sofisticati di quanto non lo fossero dieci anni fa, i loro occhi hanno preso più confidenza col bello. Per il resto, sul newsmagazine ho alcune idee su cui bisognerà lavorare. Esso, a mio parere, deve poter offrire uno scenario completo per far capire alla gente la massa di dati che riceve da radio, televisione e giornali. L’America, il mondo vengono bombardati da tante notizie provenienti da tante fonti. Il maggior numero di notizie non significa una maggiore comprensione di esse. Un newsmagazine moderno deve innalzare il grado di comprensione delle notizie”.

Faccia un esempio concreto.

“Negli Stati Uniti da tempo è aperto un dibattito, su giornali e tv, sulla difesa del paese. Però non ho ancora visto spiegato bene qual è il programma di Reagan, se veramente è necessario questo aumento di spese militari, se l’attuale armamento funziona e fino a che punto è in grado di contrastare quello sovietico. Ma il discorso non si ferma qui. L’America oggi sta vivendo un momento di crisi. Prendiamo, per esempio, il campo tecnologico: i nostri impianti, tranne casi isolati, stanno invecchiando. Nei prossimi 5 o 6 anni una mezza dozzina di nazioni (a cominciare dal Giappone e dalla Germania) potrebbero sorpassarci come produttività. La disoccupazione aumenta, più di un milione di persone nella sola California sono senza lavoro. Le nostre scuole sfornano più avvocati e ragionieri che ingegneri: ogni 10 mila laureati ci sono appena 70 ingegneri contro i 400 in Giappone. Un giornale moderno deve avere un ruolo nel fornire alla gente le informazioni e in più lo scenario necessari per capire la crisi e per superarla”.

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ANCORA UN MOMENTO, PREGO

Newsweek nel mese di ottobre 2012 ha annunciato, dopo 80 anni di carta, la fine della pubblicazione dell’edizione cartacea per passare all’edizione digitale. Il 7 marzo 2014 torna all’edizione cartacea, poiché aveva notato che i suoi lettori erano prevalentemente cartacei. Il Washington Post fu acquistato (e salvato) dal patron di Amazon, Jef Bezos, per 250 milioni di dollari nel 2013. La regina del Post, Katharine Graham, era morta 12 anni prima.

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L’imprenditore Jeffrey Bezos (Albuquerque, 1964), fondatore, presidente e amministratore delegato di Amazon.com, la più grande società di commercio elettronico al mondo.

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William Broyles

William Broyles Jr. (Harris County, Texas, 8 ottobre 1944) oggi è un apprezzato sceneggiatore. Questi alcuni dei titoli dei principali film da lui sceneggiati:

  • Apollo 13, regia di Ron Howard (1995)
  • Entrapment, regia di Jon Amiel (1999)
  • Cast Away, regia di Robert Zemeckis (2000)
  • Planet of the Apes – Il pianeta delle scimmie, regia di Tim Burton (2001)
  • Unfaithful – L’amore infedele, regia di Adrian Lyne (2002)
  • Polar Express, regia di Robert Zemeckis (2004).

Broyles è stato uno dei primi veterani a tornare sui campi di battaglia del Vietnam. Ha interrogato decine di vietnamiti, dai generali che hanno condotto la guerra agli uomini e alle donne che l’hanno combattuta. Ha incontrato i sopravvissuti dei bombardamenti americani e ha pianto con una donna il cui figlio è stato ucciso dal suo stesso plotone. Nel suo libro “Addio, Vietnam” (1984) si interroga sul mistero del perché gli uomini amano la guerra anche se la odiano.

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Salvatore Giannella, giornalista che ha ideato e cura con passione questo blog che vuole essere una bussola verso nuovi orizzonti per il futuro, ha diretto il mensile scientifico del Gruppo L’Espresso Genius, il settimanale L’Europeo, il primo mensile di natura e civiltà Airone (1986-1994), BBC History Italia e ha curato le pagine di cultura e scienza del settimanale Oggi (2000-2007). Ha scritto libri (“Un’Italia da salvare”, “L’Arca dell’arte”, “I Nicola”, “Voglia di cambiare”, “Operazione Salvataggio: gli eroi sconosciuti che hanno salvato l’arte dalle guerre”, “Guida ai paesi dipinti di Lombardia”, “In viaggio con i maestri. Come 68 personaggi hanno guidato i grandi del nostro tempo” e, a quattro mani con Maria Rita Parsi, “Manifesto contro il potere distruttivo”, Chiarelettere, 2019), curato volumi di Tonino Guerra ed Enzo Biagi e sceneggiato docu-film per il programma Rai “La storia siamo noi” (clicca qui per approfondire).