Il teatro Diego Fabbri di Forlì ha ospitato, nell’ambito degli Experience Colloquia promossi dalla Fondazione Cassa dei Risparmi presieduta dall’ex viceministro Roberto Pinza, un incontro con il premio Nobel per la medicina del 2007, di origine italiana, Mario Capecchi. L’incontro è stato l’occasione per sentire dalla viva voce del protagonista la sua straordinaria vicenda umana, oltre che scientifica.
Capecchi rimase, infatti, presto senza padre, pilota d’aviazione chiamato a combattere in Libia durante il colonialismo fascista. Sua madre, Lucy Ramberg, venne arrestata nel 1941 dalle SS mentre viveva in Alto Adige e venne deportata a Dachau come prigioniera politica. La donna affidò il bambino, che aveva tre anni e mezzo, a una famiglia di contadini sudtirolesi. Ma un anno dopo il piccolo venne allontanato dalla casa e a cinque anni di età cominciò a vagabondare senza meta. Liberata dagli americani nel 1945, la madre lo ritrovò fortunosamente un anno dopo in un ospedale di Reggio Emilia, ammalato e completamente denutrito. Madre e figlio si imbarcarono quindi nel 1946 a Napoli per gli Stati Uniti, dove vennero accolti da un fratello della donna, Edward Ramberg, docente di fisica. All’università il giovane Capecchi seguì i corsi di biologia molecolare dapprima al MIT di Boston e poi a Harvard, con il professor James Watson, il padre del Dna. Si trasferì poi all’università dello Utah, a Salt Lake City, dove lavora tutt’ora e dove ha compiuto le scoperte sul gene-targeting e sulle cellule staminali che gli sono valse il Nobel.
L’incontro è organizzato insieme al CeUB di Bertinoro e all’European Genetic Foundation con i quali il prof. Capecchi collabora continuativamente da molti anni. In coincidenza con questa lodevole (e a lungo da me auspicata) iniziativa, riporopongo la storia di Capecchi, già bambino povero e sciuscià sulle strade tra Bolzano e Verona, così come l’avevo ricostruita per il settimanale Oggi del 12 ottobre 2007. Una storia che sembra una favola ma che è una drammatica, formidabile realtà. (S. Gian.)
Questa è la storia vera di un uomo nato in Italia, orfano del padre e ladruncolo di strada nell’infanzia, emigrato in America con la madre reduce dai lager nazisti in Germania, per mezzo secolo “ingegnere del Dna” ed esploratore delle cellule embrionali dei topi teso a carpirne i loro segreti più nascosti: in Svezia riceverà dalle mani di Carlo XVI Gustavo re di Svezia il premio Nobel 2007 per la medicina.
È una vita da favola quella di Mario Capecchi, classe 1937, fino a ieri noto a un ristretto gruppo di addetti ai lavori, ma ignoto ai più: con un lieto fine che molti sognano di vivere da protagonisti o perlomeno di sentire raccontare o di vedere in un film. E come un film chi vi scrive ha provato a sceneggiarlo, grazie all’aiuto del protagonista e del suo team dell’Università dello Utah. Con l’avvertenza che quella che può sembrare una favola dei nostri giorni è nuda e spesso cruda realtà.
Salt Lake City, interno notte
Nel cottage vicino a uno dei tanti canyon che lacerano la terra dello Utah, il professor Capecchi e la moglie Martine dormono il sonno profondo che da molti anni li accompagna fino al mattino. Nella stanza a fianco riposa la figlia Misha, appena rientrata dall’Italia: ha passato un anno a studiare all’Università di Bologna per imparare l’italiano, la lingua che il padre ha ormai dimenticato. Mario sa dire bene una sola parola, “Ciao!”, perché così, con “Ciao Mariolino!”, lo salutavano quando era bambino in Italia. Le luci della stazione computerizzata che occupa tutta un’altra stanza sono spente: da quel tavolo da comando Mario segue costantemente il lavoro dei suoi collaboratori. Alle tre di notte lo squillo fastidioso e allarmante del telefono interrompe il sonno profondo. I due coniugi si svegliano, lui guarda all’apparecchio con preoccupazione silente, lei concretizza il suo allarme con le parole: “Oh mio Dio, deve essere qualcosa di grave!”.
La chiamata arriva da Stoccolma. È il segretario del comitato Nobel, incurante della differenza di fuso orario:
A nessuno? Come si fa a tacere quell’immensa emozione e gioia alla preoccupata Martine, con la quale il neo-premio Nobel condivide l’impegno di ricerca e di attività clinica? E come si fa a riprendere sonno, con tutta quella adrenalina addosso? Il professore si affaccia alla finestra, guarda la vallata che d’inverno sparisce tra le tormente di neve, proprio come accadeva alla casa in Alto Adige che abita ancora nella sua memoria antica. E cede all’ondata dei ricordi.
Primo flashback: uno stanzone dell’ospedale di Reggio Emilia, dopoguerra, interno giorno
È il volto della madre, Lucy Ramberg, che gli affiora nella mente. Non quello degli ultimi anni Ottanta, quando i suoi occhi un tempo vivaci fissavano il vuoto prima di spegnersi del tutto, in Arizona nel 1989. No, il volto che gli affiora è quello della giovane donna che, nella sorpresa generale, irrompe nell’ospedale di Reggio Emilia per abbracciare il figlio, Mario appunto, che era ammalato e denutrito. Un ritrovamento che sa di miracolo. Ha cercato quel figlio perduto per un anno, in tutto il Nord Italia, dopo che è stata liberata dagli americani dal lager nazista di Dachau. Finalmente la “dritta” giusta: “È ammalato, lo trovi a Reggio”. Quel volto che gli si fa incontro con lacrime di gioia non lo dimenticherà mai, Mario: perché anche per lui quel viso, familiare anche se mai incontrato nei sei anni precedenti, significa la fine di un incubo.
Nato a Verona, aveva perso nel 1940 (quando lui aveva appena tre anni) il papà Luciano, morto in guerra come pilota d’aviazione. Due anni dopo sua madre, poetessa bohémien, figlia di una pittrice americana e di un archeologo tedesco, antifascista, viene arrestata dalle SS mentre vive in Alto Adige e deportata nei lager come prigioniera politica. Prima della partenza, la donna affida quel suo figlio a una famiglia di contadini sudtirolesi, consegnando anche una piccola somma ricavata dalla vendita dei pochi beni personali. Ma passa poco e Mario, di soli quattro anni, viene cacciato di casa: una sola bocca in più da sfamare è un problema a quei tempi.
Povero e abbandonato, Mario comincia a vagabondare verso sud. In una strada di campagna tra Bolzano e Verona incontra ragazzini sbandati come lui. E inizia a vagare con loro: “sciuscià”, bambini di strada, ogni mattina un saluto (“Ciao, Mariolino!”) e via a trovare mille soluzioni per sopravvivere.
Chiedono l’elemosina, frugano nelle immondizie, rubano nei negozi di alimentari, si nascondono nel retro delle cucine dei ristoranti dopo la chiusura, accettano i pochi avanzi delle famiglie più fortunate e generose. Poi, a 8 anni, “sciuscià” Mario si ammala: il tifo, la tubercolosi e la fame lo portano nell’ospedale di Reggio Emilia, grazie all’aiuto di un samaritano rimasto ignoto (c’è materia per un appello televisivo di Chi l’ha visto?). Nelle corsie dell’ospedale emiliano mamma Lucy, vincendo la disperazione nell’apprendere dalla famiglia di Bolzano che Mario non è più con loro, lo ritrova il 6 ottobre 1945, se lo riprende e senza pensarci parte con lui in nave, da Napoli verso l’America.
Secondo flashback: porto di New York, esterno giorno
Ecco la Statua della Libertà progettata dall’ingegnere francese Gustave Eiffel con quei versi della poetessa newyorkese Emma Lazarus incisi nel basamento:
Quando sbarca a Ellis Island, il piccolo Mario non sa una parola di inglese, parla a stento l’italiano ma è sveglio. C’è uno zio (Edward Ramberg, docente di fisica) che li aspetta alla stazione di Princeton, nelle cui strade gli capita di incontrare Albert Einstein. E così va a scuola, a 9 anni, per la prima volta. In America. Le elementari, il liceo, poi l’Antioch College dell’Ohio dove Mario si laurea in Chimica e fisica nel 1961, a 24 anni. Poi la scoperta della biologia molecolare e l’ammissione in Harvard dove si specializza in biofisica. Anni dopo, l’incontro con James Watson, padre della genetica moderna, gli studi e le ricerche sulle cellule staminali, il progetto di estendere queste ricerche dai topi agli uomini per illuminare meglio (e forse un domani guarire) gravi morbi come il diabete, le malattie neurologiche e quelle cardiovascolari.
Università dello Utah, interno giorno
Mario ha tenuto il segreto raccomandatogli da Stoccolma solo per mezz’ora, poi si scatena. E nel giro di pochi minuti tutto il suo team, e poi tutta l’America, e poi tutto il mondo sa. Sa che l’ex “sciuscià” ha vinto il più prestigioso riconoscimento. E che dalle sue scoperte potrebbe venire un giorno un aiuto decisivo per sconfiggere le malattie che l’hanno segnato nell’infanzia e che oggi affronta con studiosa attenzione.
Nell’aula magna il rettore ha preparato un’improvvisata conferenza stampa e un rinfresco. Mario parla, ringrazia e abbraccia tutti. Ha gli occhi lucidi. Che cominciano a lacrimare quando vede, tra i tanti striscioni, un cartello (che lui riconduce al suo unico allievo italiano, Eugenio Sangiorgi) che lo riporta ad anni addietro:
Titoli di coda. Ogni riferimento alla vita di Mario Capecchi è reale, dalla drammatica situazione dell’Italia di solo mezzo secolo fa all’importanza della scuola e di buoni maestri.
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