«How can you mend a broken heart»? Come riparare un cuore infranto? si chiedevano nel lontano 1971 i famosi Bee Gees in un noto brano musicale. L’infarto è la prima causa di morte al mondo: ogni anno nel mondo muoiono oltre 17 milioni di persone. Anche in Italia le malattie ischemiche del cuore sono le cause di morte più frequenti (75.098 casi: fonte Istat 2012), seguite dalle malattie cerebrovascolari (61.255) e da altre malattie del cuore (48.384).
Gabriele D’Uva, 34 anni, originario di Lecce, dottore di ricerca in “Biotecnologie cellulari e molecolari” presso l’Università di Bologna, da sei anni svolge le sue ricerche presso il Weizmann Institute of Science in Israele ed è diventato il coordinatore del team internazionale, ha finalmente scoperto la causa per cui il cuore non è in grado di rigenerarsi dopo un infarto. E anche come potrebbe ripararsi…
Una scoperta sensazionale che i ricercatori dell’Università di Bologna, del Weizmann Institute of Science e dello Sheba Medical Center in Israele e dell’Università del South Wales in Australia hanno ottenuto studiando la proliferazione di cellule cardiache endogene. Lo studio, pubblicato il 6 aprile 2015 sulla rivista Nature Cell Biology sarebbe l’inizio di un percorso per combattere il big killer dei nostri tempi, l’infarto cardiaco.
“Abbiamo compreso che il muscolo del cuore non si rigenera”, mi spiega Gabriele D’Uva, “quando c’è una scarsa presenza di un gene denominato ERBB2. Tale gene è indispensabile per la proliferazione delle cellule muscolari cardiache durante lo sviluppo embrionale ma, dopo la nascita, la sua quantità si riduce drasticamente, limitando di fatto alle cellule del cuore la capacità proliferativa e rigenerativa”.
In passato si era già tentato di rigenerare le cellule del cuore ma la proliferazione era molto bassa, racconta il dottor D’Uva. Il primato della mortalità per malattie cardiache è dovuto in parte proprio al fatto che il nostro organo più importante non è in grado di rigenerarsi.
Durante le ricerche, effettuate nel laboratorio del professor Eldad Tzahor del Weizmann Institute of Science di Rehovot (Israele), uno dei più importanti centri di ricerca al mondo, il team di studiosi ha così pensato (utilizzando quel potente propulsore che è alla base di tutte le grandi scoperte, la creatività? di usare lo “stimolo” responsabile della proliferazione delle cellule tumorali.
“Copiando” dai tumori, si è perciò tentato qualcosa di davvero incredibile… “L’induzione di ERBB2 nel cuore di un topo adulto”, prosegue D’Uva, “grazie a sofisticate tecniche di biologia molecolare, ha infatti determinato il dedifferenziamento delle cellule muscolari cardiache, ossia la loro regressione a uno stadio embrionale, che ne ha permesso la divisione in nuove cellule cardiache. L’effetto è stato così forte che ha portato a far crescere le dimensioni del cuore, più grande del normale di 2-3 volte”.
In seguito i ricercatori hanno riattivato provvisoriamente il gene ERBB2 in alcuni topi che avevano subito un infarto, per il tempo sufficiente a indurre la giusta quantità di proliferazione di cellule muscolari cardiache necessaria per riparare il cuore. Nel giro di poche settimane, il gene era riuscito a rigenerare il muscolo cardiaco. “Secondo questi risultati, i pazienti colpiti da infarto cardiaco potrebbero migliorare le condizioni del cuore, trovando le modalità per aumentare i livelli di ERBB2 nelle cellule muscolari cardiache”.
La fase successiva sarà la sperimentazione su un cuore umano. Sperimentazione che ci auguriamo che il giovane scienziato salentino, come desidererebbe, possa essere chiamato a condurre qui in Italia, magari in quel Sant’Orsola di Bologna che lo vide muovere i suoi primi passi di ricercatore.
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La notizia è molto interessante. Se i risultati venissero confermati sull’uomo, la ricerca andrebbe a rivoluzionare lo scenario futuro con la possibilità di ridurre ulteriormente i decessi per infarto miocardico e di agire in un qualche modo sulla prevenzione degli accidenti cardiovascolari, soprattutto in termini di ricaduta di malattia. Il gene ERBB2 è peraltro già implicato nella terapia “target” di alcuni tumori, quali ad esempio il carcinoma mammario e l’adenocarcinoma gastrico. Per il futuro sarebbe interessante creare una rete tra i vari ricercatori italiani impegnati in Italia e all’estero nei vari settori della medicina al fine di favorire uno scambio di conoscenze e un trasferimento delle stesse finalizzato alla traduzione delle future scoperte nella pratica clinica. Mi complimento pertanto per la notizia e per la bontà del servizio reso.