Umberto Veronesi, nella sua infinita guerra contro l’Uomo Nero chiamato Cancro, l’aveva sognata e preconizzata: una macchina diagnostica capace, col suo occhio hi-tech, di scattare una fotografia meticolosa del nostro organismo. Una sorta di “Polaroid corporea”, in grado d’immortalare in un colpo solo tutti gli organi interni. Con una mission ben precisa: stanare un tumore sul nascere. Come dire: serve perseveranza nel gestire a dovere la propria salute con i classici “sani stili di vita”, ci vuole aderenza agli screening oncologici (per la mammella, l’utero e il colon), ma ben venga anche la possibilità di sottoporsi a un innovativo esame diagnostico progettato per la diagnosi precoce… visiva. Già: si chiama DWB (Diffusion Whole Body) la “scatola magica” sognata da Veronesi e consente di scrutare il corpo nella sua interezza, senza esporre il paziente a radiazioni e a mezzi di contrasto. Sì, perché questa macchina è, in sostanza, una Risonanza magnetica evoluta – quindi una grossa calamita che non emette raggi X –, studiata per fiutare tumori di soli 3-4 millimetri.
Finora era destinata ai malati oncologici
In Italia esisteva un unico centro (nel globo sono una decina) capace di fornire esami in massa di questo tipo (circa mille test nel 2016). Dove? All’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), il polo oncologico fondato dal professor Veronesi alle porte di Milano. Qui l’esperienza sul campo della macchina è cresciuta vagliando, per sette anni, la schiera dei malati oncologici, in special modo i pazienti ad alto rischio di ricadute, per visualizzare eventuali metastasi. Anche per addestrare il giusto “sguardo”, cioè la capacità clinica di distinguere il maligno dalla norma.
Dopo le rigorose conferme sulla popolazione dei malati, il grande salto, ovvero: perché non sfruttare le performance del dispositivo pure per la diagnosi precoce negli individui sani? Perché si sa: più il “nemico” è piccolo, maggiori sono le chance di annientarlo. Come sintetizza il dottor Giuseppe Petralia, radiologo dello IEO, che ha lavorato alla messa a punto dell’esame,
Cordata di imprenditori senza scopo di lucro
Grazie a una cordata di imprenditori (da anni impegnata nella lotta ai tumori), la DWB è ora disponibile presso un Centro diagnostico privato. Si chiama ASC, Advanced Screening Centers, e ha aperto i battenti sei mesi fa, a Castelli Calepio, in provincia di Bergamo. Chi desidera sottoporsi all’esame (che costa 1.000 euro; 200 per i meno abbienti, con l’istituzione di una lista d’attesa) potrà poi contare, risultati alla mano, sulla supervisione dello stesso team di medici che ha provveduto a sviluppare la nuova tecnologia.
Il Centro ha collezionato finora già 400 esami e prevede, nei suoi palinsesti anticancro, lo spazio per altre due apparecchiature (la ASC, infatti, non ha scopo di lucro: per statuto, gli eventuali utili potranno essere soltanto reinvestiti sia nell’ampliamento della sede, sia per finanziare l’accesso, a prezzo basso, alle fasce meno facoltose della popolazione).
Si affianca ai classici screening
Domanda: ma questo esame sostituisce in qualche modo gli altri tradizionali test per la prevenzione oncologica? Per intendersi: mammografia, Pap-test, colonscopia, controlli della prostata… Con la DWB, in pratica, è come effettuarli tutti in una volta? No, rispondono i medici dello IEO. L’importanza dei classici screening oncologici offerti dalla Sanità pubblica non si tocca. Diciamo piuttosto che adesso esiste l’opportunità di affiancarli con una sofisticata strumentazione diagnostica che va a sondare anche le restanti cruciali aree corporee, come fegato, ossa, reni e pancreas. Rischi di «falsi positivi», cioè che si evidenzino “ombre” in realtà innocenti? «Nella nostra esperienza allo IEO», risponde il dottor Petralia, «la percentuale è bassissima, sovrapponibile ai risultati della PET: inferiore al 10 per cento».
A PROPOSITO/ L’ORIGINE DELLE COSE
1943: la Pearl Harbor pugliese che fece scoprire la chemioterapia
Il risvolto inatteso di un disastro navale nel porto di Bari: il bombardamento tedesco di navi che trasportavano un carico di armi chimiche portò alla messa a punto dei primi farmaci capaci di contrastare il cancro
Non c’è malato di cancro che non abbia pronunciato la parola chemioterapia con un misto di timore e di speranza: timore per gli inevitabili effetti collaterali ma anche speranza per le potenzialità curative. Pochi sanno, però, che la scoperta alla base della moderna chemioterapia antitumorale (basata sul principio che alcune sostanze chimiche sono capaci di bloccare la replicazione di cellule in rapida crescita e divisione) fu fatta a Bari durante la Seconda guerra mondiale e fu una conseguenza indiretta del devastante attacco aereo che colpì il porto della città. In quell’occasione si diffusero nell’aria e nell’acqua grandi quantità di armi chimiche che causarono circa duemila vittime, per metà tra i civili. I particolari li ricostruimmo nel numero zero di “Vincere il cancro SI PUÒ”, rivista della Sprea editori da me ideata nel 2010: voleva essere un’arma coraggiosa e informata contro la paura ma non arrivò nelle edicole per la mancanza di aziende disponibili a essere compagne di viaggio del progetto editoriale). Tra loro, vinse la paura. (s. gian.)
Malgrado le importanti conseguenze scientifiche, la storia del bombardamento del porto di Bari è un episodio poco noto, avvenuto sul finire del 1943 e che sarebbe stato ribattezzato più tardi la “seconda Pearl Harbor”. C’era stato da poco l’armistizio dell’8 settembre, firmato dal generale Badoglio, e l’esercito nazista occupava militarmente l’Italia, con l’esclusione delle regioni meridionali liberate che facevano parte del cosiddetto “Regno del Sud”.
In quel periodo gli anglo-americani temevano un attacco da parte dei tedeschi a base di armi chimiche, bandite da due accordi internazionali nel 1921 e nel 1925, ma accumulate a scopo deterrente da tutte le parti in conflitto. Per questo gli Alleati anglo-americani si erano preparati segretamente per poter rispondere subito all’eventuale attacco, trasferendo nel porto pugliese migliaia di barili di iprite, un gas nervino: consideravano sicuro il luogo, fuori dal raggio d’azione dei bombardieri tedeschi.
LA FESTA PATRONALE
Il porto era però diventato sempre più importante sul piano strategico perché da lì transitavano armi e rifornimenti. La Lutwaffe, l’aviazione tedesca, decise di far decollare tre squadriglie di bombardieri dai campi di volo Nord Italia. Solo per un caso la città di Bari fu l’unica in tutta Europa a essere colpita da armi chimiche, per di più per “colpa” (seppure indiretta) degli Alleati anglo-americani.
L’attacco, imprevisto e improvviso, fu sferrato alle 19 e 25 del 2 dicembre, mentre nella città, che all’epoca contava circa 200 mila abitanti, fervevano i preparativi per le imminenti feste per il santo patrono, San Nicola. Oltre cento bombardieri bimotori Junkers 88 si avvicinarono al porto da nord, volando indisturbati, dato che non c’era nessuna postazione contraerea. Una volta su Bari, in un attacco durato circa un’ora, sganciarono il loro carico di bombe sulle navi che si affollavano presso il molo foraneo. Tra di esse vi era il mercantile “John Harvey”, di costruzione americana, lungo 135 metri, con oltre 500 soldati, arrivato da pochi giorni dall’Algeria con 15 mila bombe chimiche (come ricostruito dal biologo marino che ha indagato sulla vicenda, il romano Ezio Amato).
Ciascuna delle bombe, che attendevano di essere scaricate, conteneva circa 30 chili di iprite, come venivano chiamate le mostarde azotate. Il capitano del mercantile, consapevole dei rischi, avrebbe voluto chiedere alle autorità portuali una procedura particolare per portare rapidamente a terra le sostanze pericolose, ma la segretezza gli aveva impedito di farlo, non potendo menzionare la natura del carico nascosto nella stiva.
LO STRANO ODORE DI AGLIO
Fu così che la Harvey fu colpita, insieme ad altre 16 navi, e dalle sue fiancate squarciate si rovesciarono nelle fredde acque del porto grandi quantità di iprite, mentre si sollevava un’alta nube di gas tossico. Sul momento, nessuno comprese la gravità della minaccia, anche perché i membri dell’equipaggio della Harvey, che erano al corrente del segreto, erano morti nel bombardamento.
Risultato: le cure immediate non furono le più adatte a limitare i danni da attacco chimico. Al contrario, molti dei feriti più lievi rimasero a lungo in attesa di trattamento con indosso l’uniforme bagnata, intrisa di carburante e iprite, sotto coperte asciutte che avevano lo scopo di riscaldarli, ma che favorirono anche l’assorbimento per contatto della pericolosa sostanza. Anche molti dei soccorritori furono esposti.
Nessuno, sul momento, aveva fatto caso al forte odore di aglio (un odore caratteristico, che più avanti avrebbe confermato i sospetti sulla presenza di armi chimiche), e per i medici rimasero inizialmente senza spiegazione molti dei sintomi (tipici dell’intossicazione da gas) presentati dagli oltre 600 soldati ricoverati. Di questi, ben 83 morirono nelle settimane seguenti, mentre dei moltissimi civili coinvolti non è stato mai possibile raccogliere notizie certe. Perché da questa casualità si giungesse alla messa a punto dei primi farmaci capaci di contrastare il cancro hanno giocato un ruolo importante altri fattori, tra cui la segretezza militare e l’acume clinico dell’ufficiale medico spedito a occuparsi dei sopravvissuti, il tenente colonnello Stewart Francis Alexander.
IL MEDICO SUGGERÌ UNA CURA
Fu con l’arrivo di Alexander, l’ufficiale medico inviato a Bari per la sua esperienza sulla guerra chimica, che la verità cominciò a emergere, seppure solo nella ristretta cerchia delle gerarchie militari.
Egli praticò molte autopsie e approfonditi esami sui soldati ricoverati, osservando che in molti casi l’esposizione ai gas aveva avuto un effetto importante sul funzionamento del midollo osseo: aveva infatti bloccato la replicazione di alcuni tipi di cellule del sangue che l’organismo sano produce molto rapidamente, e in continuazione, e che a loro volta portano alla produzione dei globuli bianchi. La versione ufficiale dei fatti di Bari continuò ancora per molti anni a nascondere la presenza di iprite e mostarde azotate, ma la relazione medica di Alexander fu da subito chiarissima, al punto da suggerire che questo effetto delle mostarde azotate sulle cellule “a rapida replicazione” poteva risultare utile anche per contrastare altre cellule che si dividono in modo rapido e incontrollato: le cellule cancerose.
Il suo rapporto, insieme a quello di altri esperti britannici, finì sul tavolo del direttore del Memorial Hospital di New York, Cornelius Rhodes, all’epoca ai vertici anche del servizio sanitario militare statunitense. Lì furono studiati i campioni raccolti da Alexander grazie ai pazienti baresi: campioni che fornirono subito risultati interessanti, in particolare grazie al lavoro dei due americani Louis Goodman e Alfred Gilman.
Poi fu avviata la prima sperimentazione di un farmaco derivato dalle mostarde azotate che pose le basi per un tipo di cura che oggi offre ai malati prospettive di guarigione un tempo impensabili.
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(via mail)
Se oggi in Italia il 63% delle donne e il 54% degli uomini colpiti dal cancro sconfiggono la malattia, è grazie alla prevenzione, diagnosi e terapia dei tumori, che include a pieno titolo la chemioterapia. Sui passi avanti compiuti dalla chemioterapia è stato da poco pubblicato un libro accurato. Se si vuol ricevere una copia del libro Chemioterapia, 100 domande 100 risposte. La guida per conoscere una delle armi fondamentali nella lotta al cancro, suggerisco di mandare una mail a: intermedia@intermedianews.it. È una proposta dell’AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), presieduta da Carmine Pinto.