Mi capita di essere chiamato negli studi della Rai a Roma da Marco Melega, una delle colonne della serie di successo “La storia siamo noi”, per essere intervistato in una trasmissione in cui è anche sentita Diana Bracco, presidente e amministratore delegato del gruppo chimico Bracco, più conosciuta ultimamente come presidente di Expo 2015 Spa. A lei, laureata in chimica all’Università di Pavia, e a tutti i milanesi curiosi per natura voglio raccontare, con le parole del merceologo Giorgio Nebbia, una storia sulla nascita dell’industria chimica a Milano nell’avvio dell’Ottocento a opera di Francesco Bossi e anche sulle prime contestazioni ecologiche d’Italia: storia che meriterebbe di essere ricordata almeno da una targa commemorativa (se nell’ufficio tecnico del Comune di Milano ci fosse posto anche per un poeta o un divulgatore) sg

Il viandante che percorre, a Milano, via Carducci si fermi all’angolo con corso Magenta; se guarda verso S. Maria delle Grazie e il Palazzo delle Stelline si trova di fronte al sito in cui si è svolta una delle prime contestazioni ecologiche italiane. L’interessante storia è stata raccontata molti anni fa da Valerio Broglia, professore di chimica e storico appassionato, purtroppo scomparso, in due articoli dimenticati pubblicati nella rivista “Chimica”, anch’essa ormai scomparsa, e merita di essere dissepolta dall’oblio.

Alla fine del 1700 una fiorente industria chimica esisteva già in Inghilterra, Francia, Germania. Il più importante prodotto era l’acido solforico, fabbricato per reazione dello zolfo con il salnitro secondo un processo applicato su scala industriale già intorno al 1750 in Inghilterra e ben presto utilizzato in simili fabbriche in altri paesi europei. L’acido solforico era la materia essenziale per la produzione delle altre merci chimiche importanti. Trattando con acido solforico il sale era possibile ottenere il solfato sodico e l’acido cloridrico; dal solfato sodico, per reazione con la calce (idrato di calcio), si otteneva l’idrato sodico; ossidando l’acido cloridrico si otteneva cloro, tutte materie richieste dall’industria tessile e della carta, per il trattamento dei metalli, per la fabbricazione del vetro e del sapone.

Nel 1781 gli industriali inglesi avevano ottenuto l’abolizione dell’imposta sul sale, una pratica fiscale che poteva avere senso in una società agricola e arretrata, ma che ostacolava l’industria chimica che aveva bisogno del sale a basso prezzo come materia prima. Negli altri paesi europei l’imposta sul sale fu abolita poco dopo.

In questo fervore produttivo internazionale l’Italia doveva acquistare all’estero i prodotti chimici di cui aveva bisogno e ciò spinse un certo Francesco Bossi a chiedere al governo, nel maggio 1799, l’autorizzazione a installare una fabbrica di acido solforico e di altri prodotti chimici. In quell’anno Milano e la Lombardia, dopo una temporanea occupazione da parte di Napoleone, erano stati restituiti all’impero austriaco che li occupava dal 1748.

Il procedimento proposto dal Bossi consisteva nel bruciare, in un apposito fornello, una miscela di zolfo e salnitro: i gas sviluppati dalla combustione venivano portati a contatto con acqua in una “camera”, una specie di recipiente, di piombo. In un documento del 13 maggio 1800 Bossi descrisse il processo chiedendo anche un monopolio per venti anni per i prodotti ottenuti. La richiesta fu esaminata dal padre Ermenegildo Pini, regio delegato alle miniere, che espresse un parere favorevole in data 30 maggio 1800.

Pochi giorni dopo, il 14 giugno, in seguito alla battaglia di Marengo, al governo austriaco successe la Repubblica Italiana. La pratica andò avanti col nuovo governo che nominò come perito Antonio Porati; questi riferì di aver visitato il laboratorio di Bossi e di averlo trovato conforme a quanto descritto “nelle più recenti opere di chimica”.

Il vicepresidente della Repubblica Italiana rifiutò però al Bossi il monopolio richiesto, probabilmente per non danneggiare gli interessi dell’industria francese. Bossi allora chiese un dazio doganale sull’acido solforico importato dalla Francia e un prestito; non ottenne né l’uno né l’altro, ma solo la concessione dell’uso gratuito di alcuni locali dell’ex-convento di San Girolamo, confiscato dallo stato repubblicano e adibito a caserma e ad abitazione.

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Milano, il Naviglio di San Gerolamo (oggi via Carducci).

Questo convento di San Girolamo si trovava nei pressi della porta Vercellina (l’attuale incrocio fra via Carducci e corso Magenta) lungo il naviglio oggi coperto e dava il nome alla attuale via Carducci. Prima dell’ingresso dei francesi l’edificio era stato un collegio o un seminario dei gesuiti ed è stato distrutto all’inizio del 1900. In San Girolamo, quindi, si può dire che sia nata la prima industria chimica italiana.

Oltre all’acido solforico Bossi produceva anche acido cloridrico, acido nitrico, cloruro di ammonio, solfati di sodio, di potassio, di magnesio e di rame. L’acido nitrico era, fra l’altro, usato per la preparazione delle lastre per la stampa delle monete da parte della Zecca.

Ben presto la fabbrica fece sentire la sua presenza con la produzione di fumi e miasmi che provocarono la protesta dei coinquilini e dei gendarmi, ospitati nello stesso convento. E’ uno dei primi casi di protesta popolare e di lotta contro l’inquinamento dovuto a scorie industriale.

Il 13 giugno 1802 fu emessa un’ordinanza che obbligava Bossi a smettere subito la produzione. Bossi cercò di opporsi accusando i concorrenti e gli importatori di acido di aver sobillato la protesta contro di lui. Ancora più arrabbiati, gli abitanti dell’edificio di San Girolamo ricorsero, il 16 giugno 1802, alla Commissione Sanità del Dipartimento dell’Olona (la struttura amministrativa che comprendeva Milano e provincia), qualcosa come l’assessorato regionale alla Sanità.

La Commissione fece fare subito un sopralluogo e il 18 giugno 1802 (a giudicare dalle date i procedimenti amministrativi in difesa della salute pubblica erano più rapidi che adesso) diede al Bossi tre giorni di tempo per murare le finestre verso il cortile “onde togliere ogni comunicazione degli effluvi solforici col caseggiato”.

I guai non erano finiti. Il 10 luglio Bossi e un suo operaio furono “mezzi abbrucciati” dall’acido solforico; i due malcapitati con i vestiti in fiamme si gettarono in un sarcofago di pietra pieno d’acqua e il Bossi dovette stare tre mesi in ospedale.

Con la ripresa del lavoro l’inquinamento e la puzza continuarono fra le proteste dei soldati e dei coinquilini. Nel novembre dello stesso sfortunato anno 1802 il povero Bossi, pieno di debiti, dovette cedere la sua quota nell’impresa al socio Diotto e a un certo Fornara, una specie di impiantista che aveva costruito le apparecchiature. I tre soci litigarono per qualche tempo e Bossi uscì definitivamente di scena proprio nel momento in cui, nonostante l’inquinamento, gli affari cominciavano ad andare meglio.

La produzione della nuova ditta continuò nei locali di San Girolamo, ma l’inquinamento e le nocività continuarono a destare le proteste dei gendarmi e del vicinato. C’e’ un vuoto nei documenti dell’archivio studiati dal prof. Broglia. Risulta però che nel 1807 il prefetto del Dipartimento dell’Olona (la Repubblica italiana si era nel frattempo trasformata in Regno Italico) fece compiere un ennesimo sopralluogo nella fabbrica di acido solforico, ora della ditta Fornara & C.; ancora una volta venne costatata la nocività delle esalazioni gassose irritanti e il Prefetto ordinò il definitivo trasferimento della fabbrica.

Dapprima venne proposto il convento sconsacrato dei Cappuccini (dove più tardi venne installata un’altra fabbrica di acido solforico), ma poi nel 1808, dopo lunghe discussioni, la fabbrica Fornara si trasferì in San Vincenzo in Prato, altra chiesa sconsacrata dalle parti di Porta Genova (esiste ancora oggi via S. Vincenzo), che sorgeva appunto in mezzo ai prati, abbastanza isolata.

Qui la produzione di acido solforico e derivati riprese nella primavera del 1809, sollevando altre proteste dei nuovi vicini. Ma ci fu anche allora un perito compiacente, ancora quel Porati che abbiamo incontrato all’inizio, pronto a testimoniare che non c’era nessun posto migliore per una fabbrica di acido solforico. Se può esserci qualche disturbo per le persone che devono respirare i vapori di acido da vicino (al più, tanto, si trattava degli operai) questi vapori anzi “diventano salubri quando si dilatano e si allontanano dalla loro sorgente”. Il mondo non cambia mai.

Questa pagina della storia minore (ma la storia del lavoro e dell’industria è proprio “minore” ?) di Milano meriterebbe di essere più conosciuta. Chi sa che qualcuno non voglia ricordare con una lapide i luoghi in cui è nata l’industria chimica e si sono sperimentate le prime contraddizioni fra produzione di merci, produzione di scorie e rifiuti e salute dei lavoratori e dei cittadini.

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Giorgio Nebbia, merceologo con una quarantennale attività di docente, pioniere dell’ecologia in Italia. Ha orientato i suoi studi sull’analisi del ciclo delle merci, sull’energia solare, sulla dissalazione delle acque e sulle questioni relative alla risorsa acqua. È stato deputato (dal 1983 al 1987) e senatore (dal 1987 al 1992) della Sinistra indipendente. È noto anche al di fuori dell’Italia per la partecipazione alle prime conferenze mondiali sull’ambiente e lo sviluppo. Per contattarlo: nebbia@quipo.it
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