MEZZO SECOLO NEL CUORE DELLA CRONACA: GIOVANNI VALENTINI RACCONTA IL ROMANZO DEL GIORNALISMO ITALIANO E NE DELINEA IL FUTURO

testo di Giovanni Valentini* - introduzione di Salvatore Giannella

Cari lettori, dal febbraio 1999 seguo con interesse la rubrica Il sabato del villaggio, un  appuntamento settimanale che Giovanni Valentini, tra i protagonisti della carta stampata dell’ultimo mezzo secolo, ha tenuto prima sulle pagine di Repubblica e poi su quelle del Fatto Quotidiano. Considero quella rubrica (premiata nel 2000 con il Saint Vincent di Giornalismo per la carta stampata) l’antenna più sensibile puntata sul sistema dei media italiani, per tenere sotto controllo il potere dell’informazione.

E Giovanni, figlio d’arte di Oronzo Valentini (LINK), per 40 anni a Repubblica, di cui è stato vicedirettore, e al settimanale L’Espresso, che ha diretto dal 1984 al 1991, un ammirato amico e collega dalla carriera prestigiosa che ha intrecciato  i grandi protagonisti della cultura e dell’editoria, da Eugenio Scalfari a Carlo Caracciolo, da Umberto Eco a Carlo De Benedetti .

Ho sul mio comodino il suo nuovo libro:; Il romanzo del giornalismo italiano, sottotitolo Cinquant’anni di informazione e disinformazione (La Nave di Teseo).

Il libro mantiene la promessa del titolo. Si legge fluidamente come un romanzo, fatto di retroscena inediti, che  illuminano molte vicende oscure della nostra recente storia nazionale vissute da Valentini in prima persona (l’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta, la P2, il caso Tortora, l’assassinio di Marta Russo alla Sapienza di Roma…)  e diventano anche una riflessione importante sul mestiere di cronista, sulle responsabilità di chi raccoglie e porta le notizie ai lettori, con un interrogativo sospeso sul futuro di questo “mestiere più bello del mondo”  (per citare il titolo, evocato nelle ultime righe, della biografia di Antonio Ghirelli). Proprio al futuro del giornalismo è dedicato il testo condensato tratto dal libro di Valentini. E grazie, caro Giovanni, per questo libro appassionato  che tutte le persone innamorate del pluralismo e della libertà d’informazione dovrebbero leggere.  (s. g.)

Faremo a meno dei giornalisti? S’intitolava proprio così, con il punto interrogativo, l’articolo che avevo scritto con qualche velleità premonitrice nella mia rubrica Il Sabato del Villaggio (su “Repubblica”, 15 aprile 2000). Sottotitolo: Forse nell’era di internet non spariranno ma cambierà la loro funzione… E poi: tenderà a ridursi la mediazione giornalistica tra le fonti e i destinatari delle notizie, si modificherà quel ruolo pedagogico che la categoria ha coltivato fin dalle origini”.  Arrivai a sentenziare che “il giornalista dovrà scendere dal suo piedistallo; confrontarsi direttamente con il pubblico; mettersi al suo servizio con maggiore umiltà professionale; accrescere la propria competenza e preparazione”.

Qualche anno dopo, in un capitolo intitolato Giornalismo transgenico del suo libro La scomparsa dei fatti, Marco Travaglio scrisse: “Forse stiamo diventando qualcos’altro. Noi giornalisti, intendo. Perduta la bussola dei fatti, oscilliamo in una zona grigia, anzi in una zona franca dove non c’è più alcuna regola condivisa e si può dire e fare di tutto”.

Il post-giornalista. Cominciai così a elaborare una mia personale teoria sul “post-giornalista” con un articolo pubblicato nel volume Libro bianco sul lavoro nero della Federazione della Stampa, il nostro sindacato nazionale…Era l’idea di una nuova figura professionale più evoluta e complessa di quella tradizionale.

M’ero convinto che è in primo luogo l’interattività a rendere la comunicazione sulla rete più circolare rispetto alla vecchia struttura dell’informazione piramidale. Questa è una caratteristica fondamentale che trasforma non tanto il modo di fare il giornalista, quanto il modo di essere giornalista.

La verità è che internet, attraverso l’accesso gratuito, i bassi costi d’impianto e di esercizio, tende a  ridimensionare la categoria dei giornalisti in quanto casta; ordine sacerdotale che dispensa l’informazione, stabilisce una gerarchia delle notizie, celebra e impone una liturgia quotidiana a cui i lettori, gli ascoltatori o i telespettatori devono assoggettarsi.

Di fatto, la rete tende a ridurre il loro ruolo di mediazione tra le fonti e gli utilizzatori finali delle notizie. Ora chiunque può diventare giornalista on line, nel senso che può diffondere attraverso il web dati, opinioni, commenti, senza chiedere e ricevere autorizzazioni da nessuno. Ma proprio per questo la rivoluzione digitale implica in prospettiva una maggiore concorrenza, una maggiore selezione dei contenuti e in definitiva una maggiore qualità.

Con l’avvento di internet, piaccia o meno, la smaterializzazione della notizia ha causato la svalutazione del lavoro e del prodotto giornalistico. Non è un caso che la gran parte dei siti d’informazione, compresi quelli più frequentati, sia ancora alla ricerca di un’identità, di una formula, di un linguaggio che devono necessariamente rapportarsi alle esigenze e alle aspettative di un pubblico nuovo. In alcuni casi, prevale la scelta di trasferire in blocco sulla rete i contenuti dei giornali di carta: ed è una scelta di retroguardia. In altri casi, si tentano invece strade diverse, si sperimentano soluzioni alternative, più in sintonia con le attese degli internauti. E la multimedialità, attraverso la possibilità di combinare i testi con il video e con l’audio, apre nuove frontiere a un’informazione potenzialmente più ricca e integrata.

In tutto questo, anche la televisione potrebbe (e quella di Stato, anzi, dovrebbe) aumentare il proprio tasso di giornalismo, incrementare la sua capacità di raccontare i fatti e rappresentare la realtà. Assistiamo invece a una progressiva omologazione della tv pubblica a quella commerciale, entrambe ormai in caduta libera, senza paracadute. L’informazione via etere degenera sempre più nella propaganda.

A parte il consueto campionario di film, quiz e giochi a premio, la Rai si rifugia nella programmazione di fiction e talk-show senza riuscire a distinguersi per la qualità della sua offerta; restìa a puntare sull’approfondimento e sul giornalismo d’inchiesta – tranne qualche rara eccezione, come Report di Sigfrido Ranucci o Petrolio di Duilio Giammaria – per poter essere più competitiva nei confronti della tv commerciale. E, appena può, emargina o espelle i migliori professionisti dell’informazione televisiva che è pur sempre il suo core business, la sua stessa ragion d’essere.

Quale verità. Nel frullatore mediatico in funzione 24 ore su 24, la verità tende sempre più a confondersi con la cosiddetta post-verità, le notizie con le fake news, i fatti con le “bufale”. Le fonti vengono inquinate dalla disinformazione. Ormai è vero tutto e il contrario di tutto.

Qual è, dunque, la verità? Come si fa a riconoscerla?Quali sono le fonti a cui attingerla? “La verità è un’illusione,” risponde il semiologo Umberto Eco, in un articolo intitolato Il lavaggio dei lettori apparso nel 1969 sul settimanale “L’Espresso” e ripubblicato in uno dei preziosi volumi di questa Casa editrice che raccolgono i suoi scritti. Quell’intervento aveva suscitato una vivace polemica fra giornalisti, a cui parteciparono niente di meno che Piero Ottone, Indro Montanelli, Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca.

Ma il tema dell’obiettività riguarda tutti, produttori e destinatari dell’informazione, perché regola la formazione dell’opinione pubblica, l’aggregazione del consenso e quindi anche le scelte politiche ed elettorali. Tanto più in una condizione, come quella dell’Italia contemporanea, in cui il sistema mediatico è diventato una “micidiale macchina influenzante”, per citare la definizione coniata da Daniele Luttazzi sul “Fatto Quotidiano”.

Con il gusto per la provocazione intellettuale che lo ispirava, Eco non esita a smontare quello che chiama il“mito ideologico dell’obiettività”. E spiega: “Parlare di mito dell’obiettività significa dire: non si dà una notizia se non interpretandola, se non altro per il fatto di sceglierla”. Per lui, dunque, una buona notizia è quella che distingue fra “testimonianza sui fatti e testimonianza sui valori”. Esempio: “Un uomo ha morso un cane (è il fatto). Punto. ‘La cosa per me è sgradevole’ (giudizio di valore)”. Mentre, per il nostro rinomato semiologo, “una cattiva notizia è quella in cui il giudizio di valore ed esposizione del fatto si mescolano”.

È una formula che ricorda lo slogan del primo “Panorama” diretto da Lamberto Sechi (LINK a un articolo di Lamberto Sechi sul blog): “I fatti separati dalle opinioni”. E del resto, anche un vecchio direttore del settimanale americano “Time” sosteneva paradossalmente: “L’obiettività non esiste, anzi in qualche misura non è neppure desiderabile.”

Per dire, insomma, con le parole di Eco, che “il compito del giornalista non è quello di convincere il lettore che egli sta dicendo la verità, bensì di avvertirlo che egli sta dicendo la ‘sua’ verità”.

La post-verità. Bisognerebbe cominciare a bandire questa locuzione dal linguaggio mediatico. La post-verità non esiste, O, meglio, esiste in quanto informazione falsa, distorta e quindi non veritiera. Ma in questo senso non è una novità assoluta: la disinformatia, cioè la tecnica adottata dal regime sovietico per alterare la realtà e sviare i cittadini, gli avversari o i nemici, è sempre esistita a livello di comunicazione politica o militare. E nel tempo, purtroppo, hanno imparato a usarla anche le democrazie occidentali per occultare i propri segreti, i propri errori o le proprie malefatte; per confondere e disorientare l’opinione pubblica; per depistare le indagini della magistratura.

L’aspetto nuovo e più preoccupante, piuttosto, sta nel fatto che la proliferazione dei mass media e l’amplificazione incontrollata della Rete hanno alimentato un boom del fenomeno che ora minaccia di inquinare l’intero sistema dell’informazione professionale, compromettendone l’attendibilità e la credibilità. Nel vortice della comunicazione moderna, non riusciamo più a distinguere il vero dal falso, le notizie autentiche da quelle inventate, spesso costruite artificiosamente per ottenere effetti, reazioni o risultati prestabiliti.

Dai vaccini obbligatori all’emergenza climatica, dalla raccolta dei rifiuti ai termovalorizzatori, dalle avances alle molestie sessuali, tutto finisce nel tritacarne dei mass media. Il “falò delle verità” brucia così l’informazione quotidiana, provocando incertezza, confusione, smarrimento. Ma non è soltanto la cattiva politica ad alimentare il flusso delle scorie e dei veleni.

Una volta si usava dire “l’ha scritto il giornale”. Oppure, “l’ha detto la radio”, “l’ha detto la televisione”. E si riconosceva così ai media tradizionali una credibilità e un’autorevolezza che questi vanno sempre più perdendo. Oggi, piuttosto, accade il contrario e l’opinione pubblica tende a fidarsi più dell’informazione alternativa, spontanea, diffusa dai social network, ritenendola – a torto o a ragione – più autonoma e indipendente.

Crisi di sfiducia. È innanzitutto una crisi di sfiducia, dunque, quella che colpisce il sistema mediatico, prima ancora che economica, commerciale o pubblicitaria. Una crisi che chiama in causa le responsabilità imprenditoriali degli editori. Ma interpella anche la coscienza professionale dei giornalisti, la loro identità e la loro deontologia. Spetta a loro, innanzitutto, salvaguardare quello spirito critico che è la linfa dell’opinione pubblica.

Se un editore fa attaccare o difendere un politico o un premier in funzione dei propri interessi, estranei o addirittura contrari all’attività dei suoi giornali o delle sue televisioni, prima o poi i lettori-telespettatori percepiscono la strumentalizzazione, la rifiutano e sanzionano le testate che la praticano. Se un altro editore, in ragione del suo ruolo e del suo potere mediatico, riceve od ottiene informazioni riservate da qualche incauta fonte privilegiata e poi le usa per fare affari, investimenti o speculazioni finanziarie, è chiaro che – anche indipendentemente da eventuali aspetti giudiziari – questo non può che nuocere all’immagine e all’affidabilità delle sue testate. A parte qualche rara eccezione, ormai quella del cosiddetto “editore puro” è una specie in via di estinzione, da proteggere come il panda del Wwf.

Anche noi giornalisti, naturalmente, abbiamo i nostri difetti e le nostre colpe. E dobbiamo farne ammenda, per il rispetto dovuto ai lettori o telespettatori e ai colleghi più giovani che hanno tutto il diritto di rivendicare il proprio futuro.

Protagonismo, opportunismo, narcisismo più o meno senile, mancanza di autonomia e indipendenza di giudizio: così diventiamo complici degli editori “impuri” piegando spesso l’informazione alle loro esigenze e alle loro richieste, perfino a quelle implicite o inespresse. Il peggio che potesse capitare alla nostra categoria professionale è quello di essere considerati embedded, arruolati; o addirittura di essere assimilati alla famigerata casta dei politici, identificati con l’establishment.

Un ciclone s’è abbattuto così su giornali, determinando tagli ai costi e in particolare alle cosiddette “risorse umane”. Di fronte a un tale cataclisma, l’industria editoriale s’è come rassegnata a subire e contare i danni, limitandosi a ridurre drasticamente le voci di spesa: a cominciare proprio dai giornalisti, con il rischio di impoverire le redazioni e mortificare giornali e telegiornali.

Gli editori o i loro top-manager, ricompensati con lauti stipendi e super bonus alla chiusura dei bilanci annuali, hanno risparmiato sull’acqua da dare alle piante, sul concime o sui fertilizzanti, ma alla fine le piante si sono indebolite, hanno perso le foglie e si stanno seccando. E forse questo atteggiamento deriva proprio dalla circostanza che ormai si tratta per la maggior parte di imprenditori o finanzieri, attenti più agli affari da realizzare attraverso il controllo dei media che agli obiettivi e agli interessi editoriali, al servizio dei cittadini.

A pensarci bene, la questione si può far risalire ai tempi in cui gli amanuensi, gli schiavi impiegati per diffondere la cultura del Cristianesimo ricopiando gli antichi manoscritti, furono soppiantati nel Quattrocento dal tipografo tedesco Johannes Gutenberg con l’invenzione della stampa a caratteri mobili e la conseguente possibilità di riprodurre in serie libri, testi e documenti. Gli scribi di quell’epoca persero il loro potere mediatico come noi scribi contemporanei – giornalisti e scrittori – rischiamo di perdere il nostro nell’era di internet.

Eppure, l’esigenza di una buona informazione, rigorosa e attendibile, resta tuttora di grande rilevanza e attualità. L’antidoto più efficace contro la deriva mediatica, dunque, può essere la “controinformazione diffusa”: vale a dire il pluralismo delle voci, l’incrocio delle fonti, il libero confronto. In questa babele delle lingue, un compito e un ruolo fondamentale spettano ancora all’informazione professionale, cartacea o elettronica: a patto che sia veritiera e corretta, documentata, attendibile e se possibile autorevole. Ma soprattutto, autonoma e indipendente. Ecco perché, all’interno di un sistema dominato dall’omologazione della stampa padronale, sarebbe opportuno introdurre per legge uno Statuto dell’Editoria per limitare le quote delle partecipazioni finanziarie nelle imprese editoriali. E, allo stesso tempo, riservare le provvidenze pubbliche alle cooperative di giornalisti, piuttosto che disperderle a favore di false cooperative, travestite da “organi ufficiali” di partiti o movimenti politici: testate che magari appartengono a “editori impuri” e accedono anche ai contributi statali.

Oltre al caso del Gruppo Gedi che controlla “la Repubblica”, “La Stampa” e “Il Secolo XIX” sotto le insegne dell’ex Fiat, il panorama editoriale dei quotidiani italiani è un mercato chiuso con diverse concentrazioni in mano ad altrettanti padroni: quella del “palazzinaro” Francesco Gaetano Caltagirone, con “Il Messaggero” a Roma, “Il Mattino” a Napoli, “Il Gazzettino” a Venezia, il “Corriere adriatico” nelle Marche e il “Nuovo quotidiano di Puglia” con le due edizioni locali di Lecce e Bari; quella del Gruppo di origine petrolifera Monti -Riffeser, con “Il Giorno” a Milano e in Lombardia, “Il resto del Carlino” a Bologna e “La Nazione” a Firenze; e ancora la “catena” di Antonio Angelucci, imprenditore della sanità e parlamentare del centrodestra, con “Il Giornale” acquisito recentemente dalla famiglia Berlusconi, “Libero” affidato alla direzione di Mario Sechi, già portavoce di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, e infine “Il Tempo” di Roma.

Non importa qui tanto il mezzo, quanto piuttosto il fine. Oggi, per lo più, non si fa informazione per informare il cittadino, bensì per difendere interessi estranei a quelli strettamente editoriali. Per fare business, ottenere favori, concessioni o licenze. E più si rafforzano le concentrazioni, in questo campo, sempre meno si salvaguardano la conoscenza, il confronto, la libertà d’opinione e quindi la democrazia.

Lo “tsunami” della carta stampata.Quell’interrogativo di vent’anni fa, “Faremo a meno dei giornalisti?”, è diventato purtroppo sempre più attuale. La crisi dell’editoria ha investito la stampa con la forza di uno tsunami. Per molte aziende del settore, la materia prima – cioè la carta – è arrivata a costare più del lavoro giornalistico. La pubblicità diminuisce a vista d’occhio, assorbita dalle televisioni, da internet e soprattutto dagli Ott, i cosiddetti “Over the top”: vale a dire le piattaforme dei colossi del web come Google, Facebook e Amazon che, per mezzo degli algoritmi, catturano i contenuti in rete sfruttando a fini commerciali l’informazione prodotta dai giornali e dai giornalisti, senza neppure riconoscere i diritti agli editori. Un saccheggio su scala planetaria che va regolato a livello sovranazionale, per contenere una pericolosa concentrazione di potere mediatico in capo a pochi soggetti.

Scrive Paolo Panerai nel suo libro Le mani sull’informazione: “Continuo però a pensare, e per fortuna non sono il solo, che qualsiasi forma di democrazia tesa a migliorare la vita e a rispettare gli esseri viventi non possa prescindere da un’informazione indipendente. Per decidere bisogna sapere e, se si ricevono in prevalenza notizie false, deformate o finalizzate a fare l’interesse di pochi, non si potrà mai decidere e scegliere con libertà, in modo da migliorare la vita di tutti.”,  E poi avverte: “Gli Ott sono gli editori più impuri di tutti”.

L’incognita IA.  All’orizzonte, carico di nuvole cupe e ostili, incombe ora lo spettro dell’Intelligenza Artificiale che pretende di scrivere gli articoli o di compilare i giornali in automatico; senza l’intervento degli occhi, delle mani e magari del cervello umano. Se, oltre a programmare i robot, a produrre pc e telefonini sempre più sofisticati, insegneremo ai computer a “imparare a imparare” e quindi a evolvere attraverso gli algoritmi, l’umanità e con lei l’informazione compiranno un pericoloso salto all’indietro, rischiando di cadere sotto la “dittatura delle macchine”. Uno scenario inquietante per chi continua a credere, invece, nel ruolo e nella funzione della comunicazione come fondamento e garanzia della democrazia. E intanto prosegue l’ondata di licenziamenti nel settore tecnologico: la Ericsson, il colosso svedese delle telecomunicazioni, ne ha annunciati 8.500 fra i suoi dipendenti a livello globale.

Nella bulimia mediatica della società contemporanea, il paradosso è che la domanda di informazione cresce, nel senso che aumenta sempre più la richiesta, mentre l’offerta diminuisce. O, meglio, diminuisce il numero di coloro che sono in grado di produrla in modo professionale.

Sta di fatto che ormai ciascuno tende a cercare le notizie da sé, sulla rete o fuori della rete, in base a una “dieta”personale – anch’essa mediatica – che non sempre riesce a soddisfare però le esigenze individuali in modo adeguato.

Vale a dire con tempestività, continuità, completezza, rigore e precisione. E soprattutto, con quell’attendibilità, credibilità e magari autorevolezza che soltanto un brand, un marchio di fabbrica come una testata di carta stampata, radiotelevisiva o digitale può offrire, attraverso una selezione e una gerarchia delle notizie, la loro analisi e interpretazione.

Un futuro possibile. È per queste ragioni che, personalmente, penso o spero che nonostante tutto il giornalismo abbia ancora un futuro davanti a sé. Non più certamente nelle forme e nei modi del passato, ma in una versione più moderna, dinamica, flessibile, per adeguarsi agli interessi e alle aspettative di un pubblico in continua evoluzione, sempre più vorace ed esigente.

Un giornalismo delle competenze in luogo di un giornalismo delle appartenenze. Meno ideologico e politicizzato, più concreto e pragmatico.

Un giornalismo d’opinione, capace di interpretare la realtà e presentare onestamente un punto di vista per confrontarsi a distanza con i propri lettori.

Un giornalismo d’intervento, disposto ad assumere il ruolo del watch dog, il cane da guardia come dicono gli inglesi, nei confronti del potere o dei poteri costituiti per difendere i diritti del cittadino.

E, infine, un giornalismo di servizio, in grado di offrire alle persone anche notizie più utili, quelle che servono per affrontare la vita quotidiana; risolvere i problemi individuali o collettivi; proporre soluzioni praticabili in funzione dell’interesse generale.

Tra l’homo sapiens e l’homo videns, cioè tra l’intelligenza della ragione e la dipendenza indotta prima dalla tv, poi da Internet e ora dai social network, il post-giornalista ha il compito di connettere informazione e conoscenza. È una responsabilità civile e sociale, che può restituire dignità a questa professione. Ed è anche un impegno da condividere con l’opinione pubblica, nella ricerca del bene comune. Alla fine, questo rimane pur sempre “il mestiere più bello del mondo”, come s’intitola una biografia di Antonio Ghirelli – da giornalista sportivo a giornalista politico – a cura dei figli Guido e Massimo. Il romanzo continua. ()

*Giovanni Valentini nasce a Bari il 6 febbraio 1948 da Rita e Oronzo Valentini, storico direttore della Gazzetta del Mezzogiorno. E’ iscritto all’Ordine dei giornaliosti del Lazio dal 1971. Mezzo secolo della sua brillante carriera professionale sono raccontate nelle 336 pagine del nuovo libro, così come scandite dal sommario.  Questi i capitoli: Figlio d’arte. Spunta Il Giorno. Piazza Indipendenza. L’Europeo, la Rizzoli e la P2. I quotidiani del Principe rosso. L’avamposto lombardo. L’Espresso amaro. Il fortino di via Po. Venduti e comprati. La nuova Repubblica. Il marchio della Fiat. “Mani ferite”. Alla corte di re Soru. Ritorno a casa. Il mistero della Sapienza.  Giornalismo online. Dalla parte dei consumatori. La Repubblica tradita. Una vita con Barbapapà. Faremo a meno dei giornalisti?. Questo il link agli altri suoi libri: https://www.ibs.it/libri/autori/giovanni-valentini

A PROPOSITO / di Salvatore Giannella

Quando nel nostro Europeo denunciammo il Malpaese

Nelle pagine del libro di Valentini trovo anche il mio nome, nel capitolo dedicato a L’Europeo, altra testata che dal 1977 al 1979 fu chiamato a dirigere dalla Rizzoli (aveva soli 29 anni e, ricorda Wikipedia, può essere ricordato come il più giovane direttore d’Italia).  Qui la citazione:

“Nel tentativo di rilanciare un giornale austero e sofisti-cato come L’Europeo, un po’ rarefatto e distaccato dalla realtà, varai alcune inchieste focalizzate sull’ambiente e sulla società. La prima, pubblicata in dodici puntate come un inserto al centro del giornale e coordinata da Salvatore Giannella, s’intitolava Il Malpaese: l’intento era quello di denunciare i guasti e i danni che già allora l’incuria infliggeva al territorio italiano…”.

Con quella serie di inchieste mettemmo in luce lo scempio del territorio a cui ancora assistiamo e che è alla base di ancora attuali tragedie.  In quel 1977 io e Paolo Ojetti, Claudio Serra, Paolo Berti e Franco Bordieri attraversammo le regioni del sacco, dando puntualmente conto delle devastazioni dovute alla speculazione edilizia e alle opere compiute in spregio della sicurezza e della bellezza del panorama. E, soprattutto, a vantaggio di pochi .

L’essenziale di quella lunga inchiesta, rimasta unica nel suo genere e che mi favorì il premio Zanotti Bianco da Italia Nostra (consegnatomi al Quirinale da Sandro Pertini), fu raccolto due anni dopo nel libro “Un’Italia da salvare“, Edizioni Atlas, Bergamo.

Il volume di Salvatore Giannella e Paolo Ojetti “Un’Italia da salvare”, Edizioni Atlas, Bergamo, 1979

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