Una di queste sere sono tornato a casa arricchito dalla visione, nel cinema Mexico di Milano, di due stimolanti film (Quando i tedeschi non sapevano nuotare e Racconti d’amore, entrambi firmati dalla vulcanica Elisabetta Sgarbi, direttore editoriale della casa editrice Bompiani e ideatrice/direttrice della Milanesiana); di una mostra (La Resistenza nel Polesine, di un fotoreporter testimone della Storia, Mario Dondero); e di un racconto di una protagonista che ha vissuto uno storico evento: l’assalto al municipio di Bondeno (Ferrara), domenica 18 febbraio 1945, da parte delle donne che impedirono la deportazione di figli e mariti con un’azione che aveva come obiettivo la distruzione dei registri di leva. Un racconto che qui di seguito riproduco in parte nelle parole pronunciate da Lidia Bellodi durante la serata, come occasione di ringraziamento (e di riflessione) a queste donne semplici ed eroiche che decisero di stare in prima linea in un momento denso di pericoli. Poche settimane dopo, il 1° ottobre del ’45, nasceva ufficialmente a Roma l’UDI, Unione Donne italiane, movimento di donne partigiane che si era formato a partire dal ’43 a Napoli… (s.g.)
Parla Lidia Bellodi
“Quella mattina convinsi mia madre a lasciarmi uscire, perché purtroppo non voleva che si uscisse, si aveva sempre bisogno di lavorare in casa… Voleva sapere dove si andava, e si doveva mentire ai propri genitori. Quel mattino sono riuscita a convincerla. Sono andata a casa di Silvana perché era nel tragitto andando in là, poi si trovava Vittorina Dondi, e fu così che siamo partite per salire in Comune a Bondeno. Era l’anno 1945, il 18 febbraio, alle ore 10. Avevamo l’appuntamento in piazza. E fu così che trovai le donne.
Fui avvicinata dalla mia amica Silvana Lodi; eravamo già a conoscenza delle cose che si stavano facendo in giro. Mi ha detto: ‘Dobbiamo fare una cosa, noi donne. Se mi dai una mano… Però bisogna avere pazienza e stare attenti con chi si parla, perché lo sai che si rischia troppo: questa cosa deve riuscire’. E fu così che ci dividemmo un po’ i compiti… Silvana mi raccomandò: ‘Avvicina le persone per bene, che sai come la pensano, e chiedi anche a loro di fare un po’ di passaparola, perché la cosa si allarghi, perché dovremo essere in tante’. E fu così che abbiamo cominciato.
Intanto arrivò quel giorno. Con tanta titubanza e tanta paura (era molta, la paura; avevamo paura, tanta), e credo che fosse umano avere paura in quei tempi, perché si rischiava, e si rischiava grosso. Fu così che quel mattino di domenica, il 18 febbraio, avevamo l’appuntamento verso le dieci… e fu anche difficile per me farlo, per il fatto che dovevo raccontar bugie a mia madre, perché in casa non sapeva nessuno che io facevo parte di questa organizzazione. Insomma, quel mattino, in tre, io, Silvana e Vittorina Dondi, che abitavamo a Ospitale sulla strada che porta a San Biagio verso la foce del Po, siam partite. Silvana mi disse: ‘Prendi il bastone, tu che hai il paltò più grande, il cappotto più lungo, perché il bastone non si deve vedere perché devo attaccare un manifesto quando siamo in piazza’.
E fu così: lei con un cartone che aveva scritto sopra: ‘Vogliamo pane, abbiamo fame. Basta con la guerra!’. E siam partite. Quando siamo state verso Ospitale abbiam già visto le donne che si incamminavano. Perché il consiglio che le avevamo dato era appunto di essere in poche. Quando siamo arrivate a Ponte Moto, venendo a San Giovanni, si vedevano le donne, a due, a tre, che venivano a piedi. Ci siamo rincuorate. Abbiam detto: ‘Non siamo sole. Guarda: stanno arrivando anche le altre’. Poi ci consigliamo come entrare in Bondeno per non farci vedere, perché avevamo paura. Abbiamo pensato che invece di scendere dalla discesa del Panaro, dopo il ponte, siamo state sull’argine, poi siamo scese dalla piazzetta, alla destra di via De Amicis. Siam venute su… sembrava che non ci fosse nessuno.
Quando siamo arrivate in piazza c’erano già tante donne, e si vedeva da lontano, perché la piazza è grande, da là in fondo, si vedeva che la gente arrivava, arrivava dai vicoli come abbiamo fatto noi, che c’è un’altra discesa in piazza. Da un vicolo vedevamo le donne arrivare. Hanno sempre detto che eravamo in 100, 150. No no: eravamo tante di più. A un certo punto non so come hanno fatto a essere così d’accordo. Si vede che era più di una che era informata bene, che dovevamo fare allo stesso tempo lo stesso gesto, per non dare nell’occhio. ‘I cartelli! I cartelli!’ Allora lì sono usciti i bastoni dai paltò, sono usciti i cartelli, in un lampo hanno legato tutto. ‘Forza, facciamo presto, prima che se ne accorgano!’.
Era domenica mattina, c’era solamente un gruppetto di uomini davanti al tabaccaio Gatti, che erano poi i contadini che venivano in piazza. Erano sbalorditi, mi ricordo che erano sbalorditi perché non sapevano cosa stava succedendo. Non so se la porta del Comune era stata manomessa da qualcuno, so solo che siamo riuscite a sfondarla. Certo che se era la porta di adesso non si sarebbe sfondata. E a precipizio su per le scale. Abbiamo riempito il Comune di donne. Mi ricordo che io, Silvana e Vittorina siamo state sempre tutte e tre insieme, per farci coraggio, per non perderci anche con la mente, per paura di fare cose non fatte bene.
So che Silvana (che non c’è più, poverina) era una donna assennata, che sapeva quello che si faceva. Avevo fiducia in lei. Siamo arrivate al terzo piano. Lì c’erano le donne che buttavano fuori dalla finestra tutto quanto, le scrivanie, le carte… c’era il putiferio. Ho detto a Silvana: ‘Silvana, ma se arrivano i fascisti ci chiudono la porta, vengono dentro e ci ammazzano tutte!’. Mi sono affacciata alla finestra: vedo una bicicletta da via De Amicis che viene su. Era un mio paesano, lo conoscevo, un fascista. ‘Silvana! Silvana! Sta andando al Comando. Fra un po’ arrivano! Arrivano dal Comando! Allora, cos’è che dobbiamo fare?’. ‘Scendiamo, che io so dov’è l’Anagrafe’.
Perché a quei tempi non c’era la carta d’identità, la si aveva a 21 anni. Era la mamma che quando c’era bisogno di andare in Comune faceva le cose. Io non lo sapevo neanche, dove fosse, ma lei lo sapeva. Mi ricordo che siamo scese e siamo andate al primo piano dalla parte destra; c’era una porta con un bell’ambiente largo, pieno di scaffali con dei libri, i libroni dell’Anagrafe. E Silvana diceva: ‘Quelli, son quelli! Aprite le finestre, buttateli giù che andiamo giù!’.
Noi tre, come al solito insieme, siamo scese… torno indietro: c’era una scrivania, nel centro, con un impiegato che faceva gli straordinari. Era nascosto, sembrava un gatto impaurito, con due occhi aperti… Nessuno ha detto una parola, nessuno gli ha detto niente, hanno ignorato quel poveretto. Non ce l’avevano con lui. Si cercava di fare le cose che ci avevano suggerito. E fu lì che io, Silvana e Vittorina siamo scese. Giù dal vicolo c’era una scaletta che ora non c’è più, c’è la porticina giù ma ora non c’è più quella scaletta che va giù. C’è una finestrina, che adesso l’hanno chiusa, mi ricordo che era piccola… Buttavano giù i libri che andavano a finire davanti alla porta dove eravamo noi.
Silvana rompeva le pagine, ma erano dure che facevamo fatica, perché i libri erano pesanti da tenere aperti. Era carta forte, mi ricordo questo particolare. Vittorina prese un mazzo di fogli… ‘Lidia, Lidia, accendi!’. ‘Accendi?’, ho detto. ‘Ma chi mi ha detto di prendere dei fiammiferi? Con che cosa li accendo, adesso? Siamo venute fin qui e cosa facciamo?’. Fu lì che da un vicolo è spuntato un ragazzo, mi arriva una scatolina di cerini. I cerini a quei tempi! Allora abbiamo acceso questi libri.
Intanto che si fa il falò arriva da via De Amicis un fascista di corsa con un fucile impugnato. Siamo scappate. Siamo scappate su alla destra, dalla stradina da dove siamo venute su. Non volevamo scappare a casa, ma vedere, se era possibile, cosa stava succedendo davanti; ma con gli spari, perché lui sparava, abbiamo avuto paura. C’era una porticina in fessura con due persone che stavano guardando cosa stava succedendo. E a tutte le finestre, mi ricorderò sempre questo fatto, c’erano tutte le persiane socchiuse così, con le persone che stavano guardando.
Perché c’era il caos, c’era una gran confusione, degli urli, degli spari, di tutto e di più. Insomma, noi non siamo andate in piazza; ci siamo fermate e abbiamo spinto questa porta socchiusa, che non ci volevano far entrare, siamo riuscite a entrare… Ci volevano mettere fuori. Abbiamo detto: ‘No, siamo in tre. Voi siete in due. Teneteci qua, abbiamo paura!’. ‘Perché siete venute?’. ‘Ne riparleremo poi. Chiuda quella porta, che dopo poi ci pensiamo!’. Abbiamo aspettato che si calmasse tutto quanto, li abbiamo ringraziati; quando abbiamo aperto la porta, ho visto una mia conoscente di Scortichino insieme a un’altra amica, che sorreggevano una ragazza: le avevano sparato a una coscia e sanguinava.
Davanti si sentiva ancora del trambusto, ma non so cos’era perché non siamo andate a vedere, non era da andare a vedere. Siamo tornate a casa da dove siam venute. So che hanno ferito tre donne e arrestate una diecina, che hanno preso botte. E poi mi ricordo che hanno arrestato il podestà…
Quella mia conoscente di Scortichino mi raccontò poi che andando a casa… Siccome era venuta in bicicletta da uomo ha caricato lei la ragazza ferita, e andando a casa a Scortichino si è fermata tre volte a chiedere aiuto nelle famiglie, nelle case: nessuno l’ha accettata, per paura, perché il pericolo era grandissimo. Significava fucilazione, significava prigionia, significava botte, e avevano paura. Tutti avevamo paura. Il bello è che c’erano le scritte ‘State attenti, il nemico vi ascolta’. Per me i nemici erano loro, non noi. Lì, state zitti che i nemici vi ascoltano, altro che loro! Noi eravamo i nemici loro, con quello che stavano facendo in quel periodo, con quello che stava succedendo? Così se la portò a casa in bicicletta. Quando fu a Scortichino hanno interpellato il medico, che ha detto: ‘Io vengo, faccio quello che posso. Però mi raccomando: non fate il mio nome perché altrimenti non so come va a finire’. E fu così. Non hanno mai detto il nome del medico che ha curato la ragazza…
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Mia nonna faceva parte di quel gruppo e sto cercando di ricostruire il suo passato: è mancata da poco ma rimarrà sempre la donna che ho stimato di più al mondo. Loro non devono morire ma rimanere per sempre nella nostra storia. È grazie a loro che oggi possiamo gioire con i nostri figli.