Per non restare imprigionati nella fretta e nell’assuefazione alla banalità del male, possiamo provare a mettere in campo tre possibili virtù: lo stupore, l’indignazione e il silenzio.
Lo stupore è lo stupore dei pastori davanti al Bambino nella grotta di Betlemme. Furono loro i primi cronisti di quell’avvenimento che cambiò la storia. Perché comunicarono la buona notizia della speranza data agli uomini, ma prima di essere buona, quella era intanto una notizia: non si era mai visto prima e non si vedrà mai dopo un re, anzi il re dei re, nascere in una stalla e deposto in una mangiatoia.
L’indignazione, la capacità di indignarci, davanti al male, alla violenza, all’ingiustizia, al sopruso. “Per amore del mio popolo non tacerò” dice Isaia. E non sembri azzardato o presuntuoso accostare la figura dei giornalisti a quella dei profeti. Abbiamo un’idea, un concetto sbagliato della parola “profeti”: pensiamo che siano o debbano essere degli oracoli quasi degli indovini che devono prevedere il futuro. In realtà la parola profeta viene dal greco pro-femi, cioè parlare per nome in conto di qualcuno. I giornalisti parlano in nome per conto degli uomini e delle donne del loro tempo e raccontando le loro storie gridano o dovrebbero gridare amare verità ai sordi detentori del potere.
Infine il silenzio. Abbiamo la necessità di ritrovare una quiete interiore, per riscoprire il pensiero, per ricercare e avere stimoli a conoscere, a sapere, a guardare nel cuore degli uomini e delle cose che raccontiamo. Quindi sosta e movimento. Silenzio e parola.
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Condivido appieno quanto affermato nel post, credo che i nuovi giornalisti se non seguono questi consigli produrranno ben poco per la società visto i maestri che hanno avuto.