A te non interessa che

io sia nato a Parigi

e tu in Germania,

tu sei una povera mucca

e io un povero soldato e

facciamo del nostro meglio

Jean Renoir, La grande illusione

“Dì bianco, ancora, ancora”. incalzavamo. “Bianco, bianco, bianco, bianco…” “Di che colore è il tuorlo?”
“Bianco”. Non è così difficile. Dite che la colpa è dell’Europa, ripetetelo per anni, tanto lei non ha voce. Per il debito, la crisi, il degrado civile, quello che vi passa per la testa. Poi chiedete alla gente chi sia responsabile delle sue pene, se l’euro o chi se n’è approfittato, se l’Italia o la Germania, se noi o “loro”.

“A vùt piò ben a e giavlì o a la madunaza?” suggerivano maliziosi ai bambini i vecchi mangiapreti romagnoli.

Così va il mondo, quando va bene il merito è nostro, quando va male la colpa è degli altri. Quante cose non ci inventiamo per le disgrazie che ci capitano, scriveva Montaigne. Quante menzogne non si dicono per carpire il consenso. Raramente, sosteneva Kant, il favore della moltitudine si ottiene con mezzi leciti e onesti. Non c’è niente di nuovo sotto il sole freddo di quest’Europa al tramonto. L’Unione Europea non è quella che sognavamo. Distante, frenata da ottusi nazionalismi, troppo forte e troppo debole a seconda delle convenienze, madre e matrigna, patria no, non ancora.

Errori, interessi, che i più forti sempre cercano di far valere quando gli altri si indeboliscono e restano senza argomenti, dopo aver sprecato occasioni e risorse, sperperato prestigio, disatteso impegni.

Siamo noi che abbiamo deciso di entrare nell’euro. Per cercarvi la credibilità che non avevamo, per reggere un debito insostenibile. La Germania non voleva nessuno dei due, né l’euro né l’Italia. Forse ricordava che nel 1974 un’Italia in crisi non era più in condizione di comprare dollari e le aveva chiesto un prestito di 2 miliardi di marchi, dando in pegno 1/5 delle risorse auree.

Di certo sapeva quel che noi rimuoviamo: che la nostra crescita rallenta ben prima dell’euro e si distacca dall’area OCSE nel ‘95. La ragione prima dei nostri problemi è domestica, risiede nel deficit di produttività. Le svalutazioni competitive, presentate come una panacea, sono il rifugio dei deboli, possono rallentare la discesa ma non la fermano, non curano la malattia, la celano, non accrescono la produttività, perpetuano l’illusione, impedendoci di diventare forti. Il rischio default, evitato dalle politiche di Mario Draghi, ingigantirebbe quando fossimo soli e nudi nella nostra inaffidabilità.

L’Europa ci deve aiutare a uscire dalla crisi ma noi dobbiamo sapere che non si sta né nell’UE né nel mondo con questi livelli di produttività. E che nessuno ci rimetterà i nostri debiti. Solo degli avventurieri privi di ritegno morale possono assimilare il debito del sesto Paese industrializzato del mondo a quelli dei Paesi africani.

L’Italia non è stata colonizzata, poteva ben progredire coi conti in regola, come nel dopoguerra. Ciampi entrò nell’euro con un programma di riforme e di risanamento. Averlo tradito è la vera ragione dell’aggravarsi delle cose.

L’Europa poteva reagire alla recessione con politiche più duttili, il fiscal compact va reso sostenibile, ma l’euro è il paravento dietro il quale si nascondono una classe politica vecchia, incapace di accollarsi le colpe del passato e una nuova, incapace di assumersi la responsabilità del futuro. Denunciate le colpe, pianta l’ingiustizia, ucciso il padre, poi una generazione deve decidere come costruire il futuro nel quale deve vivere. Anche se l’eredità è fatta di debiti e non di crediti. Soprattutto per questo.

Uscire dall’euro, come, con rischi incalcolabili, è pure possibile, innescherebbe un processo senza ritorno. Sarebbe una resa, l’8 settembre dell’Europa, tutti a casa. L’Italia, da sola, nel mondo globalizzato è niente. Anche la Germania conterebbe meno, ma non è una consolazione. L’Europa è una necessità storica. L’Europa dei popoli, nella definizione dello storico Le Goff, una speranza. Tocca a noi farla vivere. Altrimenti resterà solo un rimpianto.

Tra l’Europa dei banchieri, che nessuno vuole, e il ritorno alle piccole patrie della terra e del sangue, c’è la costruzione tenace della nuova patria comune. Siamo davanti a un bivio, possiamo lottare per il futuro o fuggire nel passato. Oggi chi vuole restare in Europa deve rispondere delle sue contraddizioni.
Ma domani, quando ne uscissimo, chi risponderà davanti ai nostri nipoti del calcio dato al secchio del latte?

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Guido Tampieri (Massa Lombarda, Ravenna, 1948) è un sindacalista e politico italiano. Laureato in giurisprudenza all’Università di Bologna. Eletto nel 1992 consigliere regionale dell’Emilia-Romagna, dove è stato componente delle Commissioni “Bilancio e programmazione” e “Attività produttive”. Della Regione Emilia-Romagna è stato assessore all’agricoltura dal 1993 al 2005 e assessore all’agricoltura, ambiente e sviluppo sostenibile dal 2000 al 2005. Dal maggio 2006 al maggio 2008 ha fatto parte del Governo Prodi II come Sottosegretario di Stato al Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. È stato presidente della consulta nazionale del Partito Democratico per l’agricoltura.