(FORLÍ)
Venerdí mattina, 24 giugno, mi sono svegliato alle 6 e ho appreso subito l’esito del referendum che sancisce l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Da cittadino inglese, dopo 34 anni di residenza in Italia, è difficile esprimere quello che ho sentito. Ma ci provo. Innanzitutto è scomparsa l’Europa che avevo sognato, l’Europa guidata da un senso di direzione, verso uno spazio cosmopolito (immaginario prima che geografico) con valori condivisi, uno spazio rappresentato dall’unità nella diversità.
Lasciando a parte nostalgie psicologiche e personali, il mio percorso lavorativo (inquadrato come docente di ruolo in un’università statale), politico (assessore in una città media per un mandato amministrativo) e personale (sposato con figlie che crescono e vanno a scuola in Italia) ha avuto come contesto il senso della creazione di uno spazio dove le diversità potessero trovare quell’occasione di dialogo e della crescita che avviene con un rapporto ravvicinato con l’altro. La mattina del 24 giugno, con uno scatto di sostegno a questo sogno, ho risposto alla decisione dei miei compatrioti inglesi con un ascolto a tutto volume del quarto movimento della Nona sinfonia di Beethoven: l’Inno alla gioia (qui eseguita dalla banda di Medicina, in Emilia Romagna, in un concerto nella chiesa del Carmine di quella città dell’Emilia Romagna. Ndr).
Associo quell’Inno in particolare a un altro momento fondamentale nella storia dell’Europa post-bellica: quando l’Orchestra Filarmonica di Berlino (se ricordo bene) sotto la guida di Leonard Bernstein, suonò la sinfonia nel Berlino appena riunificato il giorno di Natale 1989. Sembrava, il 1989, un’altra tappa in un processo diacronico difficile ma regolare, un capitolo nella narrativa del graduale armonizzarsi di esperienze e contesti diversi, proprio quell’ever closer union oggetto del negoziato di Cameron nel febbraio 2016 e tanto osteggiata dalla Gran Bretagna.
Ha vinto una visione diversa, la vecchia visione nazionalista di Margaret Thatcher. Nel suo discorso celebre fatto a Bruges nel 1988, disse: “Let Europe be a family of nations” (“che l’Europa sia una famiglia di nazioni”), dove “family” non significa una comunità di intenti bensì, seguendo i canoni profondi del liberalismo inglese, soltanto un contesto nel quale ogni membro porta avanti i propri interessi negoziandoli con gli altri. Proprio quella visione di un’Europa fatta di stati autonomi celebrata anche da Nigel Farage nel suo discorso del 24 giugno 2016: “A Europe of sovereign nation states, trading together, being friends together, cooperating together”.
Il referendum è un duro colpo ai parametri dell’Unione Europea, quelli della moneta unica, della politica di austerità e delle istituzioni di Bruxelles. Ma segna anche un colpo ancora più duro alla narrativa di un’Europa sempre più unita, un’Europa con un senso di coesione e di identità estesa e plurima. Un’identità che ha trovata la sua espressione più alta a livello simbolico nell’Inno alla Gioia. Il compito di tutti coloro che credono ancora nel sogno europeo sarà quello di tenerlo vivo, anzi, di ricostruirlo e rilanciarlo. •
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I solisti della Banda di Medicina in concerto alla Chiesa del Carmine a Medicina l’11 Maggio 2007.