È stata prorogata fino all’8 aprile la mostra fotografica e documentale La Guerra dell’Arte, a Palermo presso il Convento della Real Magione. Il titolo, che parafrasa L’arte della guerra di Sun Tzu, stigmatizza come le opere d’arte abbiano da sempre combattuto per poter giungere, illese, sino ai giorni nostri. Come scrive il curatore Attilio Albergoni, “le fotografie esposte provengono da vari archivi esteri e nazionali ma sembrano immagini scattate da un solo uomo, quasi che la guerra a Palermo fosse vissuta da un essere solo”.
Ed è davvero toccante ciò che si presenta agli occhi del visitatore e che resta impresso nel ‘catalogo’ (fuori commercio) realizzato dalla Regione Siciliana, per i tipi di Navarra Editore. Il capoluogo isolano fu particolarmente martoriato dalle incursioni aeree avvenute nel corso del 1943, e se il ‘tributo’ in termini di vite umane e più in generale per la città fu ingente, molte opere d’arte poterono d’altro canto salvarsi grazie a una lungimirante operazione di prevenzione. Esemplare è la foto dell’oratorio del Rosario in San Domenico, dove si vede la ben collaudata opera di puntellamento, consolidamento e messa in sicurezza di statue e pavimentazione attraverso assi di legno e sacchi di sabbia. La pala d’altare del Van Dyck risulta assente; così come altri dipinti, sculture e vari oggetti di pregio provenienti dal territorio e che furono portati in un ricovero – i più in località San Martino delle Scale, alle pendici dei monti che circondano la città.
Questa foto mi ha riportato alla mente una lettera consultata giusto un anno fa, custodita presso l’Archivio Storico della Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Palermo (class. II D.75, prot. 217 del 5-2-1948). A scrivere, all’allora soprintendente alle Gallerie della Sicilia Filippo Di Pietro, è il rettore dell’oratorio di San Lorenzo, don Filippo Meli. Eccone il contenuto:
Palermo, 3 febbr. 1948
Egr. Prof. Di Pietro,
Le comunico che da parte di Sua Em. il Sig. Cardinale Ruffini è stato restituito il dipinto del Caravaggio a questo Oratorio di San Lorenzo. La prego quindi di esser gentile ad inviare due persone capaci per potere rimettere a posto dovuto il suddetto prezioso dipinto – perché non voglio responsabilità.
Con molti distinti ossequi
Suo devmo Sac. Filippo Meli
Mi sono sempre chiesto il motivo per cui la Natività, come si deduce, era stata temporaneamente fuori dalla sua dimora abituale, dove vi faceva rientro in quei primi mesi del 1948. Una mostra? Non poteva essere: il quadro fu esposto soltanto a Milano nel 1951 e a Parigi nel 1965. Ecco ora che, ricollegando i dati disponibili e approfondendo il tema (vedi La protezione del patrimonio artistico nazionale dalle offese della guerra aerea, Firenze 1942, p. 339), tutto diventa più chiaro. La tela, durante la guerra, fu spostata in luogo più sicuro e non senza difficoltà, legate al suo alloggiamento nella cornice con angeli in stucco del Serpotta (da cui, come visto, la richiesta di “persone capaci”). Sarebbe poi tornata in situ – dopo un passaggio presso l’Arcivescovado – una volta terminati i restauri dell’oratorio (che subì danni nel bombardamento del 15 febbraio 1943). Restauri, che dovevano fare i conti con la lunga e più generale ricostruzione del centro cittadino.
Tornando alla lettera, da essa emerge tutta la premura da parte di Meli per il “prezioso dipinto” che, come rettore di San Lorenzo, in lui trovò un geloso custode (fino alla morte avvenuta nel 1965). Meli, è ricordato anche come infaticabile studioso e ricercatore – fu lui peraltro a ritrovare il documento con cui Paolo Geraci si impegnava a dipingere una copia della Natività, identificata molti anni dopo nell’ufficio del prefetto a Catania (e cui ora si aggiunge un’altra copia: se ne parla nel fascicolo 9 della rivista “Valori Tattili”).
Che Meli fosse intimamente legato al ‘suo’ Caravaggio – di cui sosteneva, anche con un certo piglio polemico che gli era connaturale, l’esecuzione in Sicilia (ma che grazie a nuove ricerche sappiamo essere stato realizzato a Roma) – appare anche da altri carteggi conservati sia a Palermo, che presso l’Archivio Storico dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (II A1, b. 31, fasc. 4). In particolare, proprio in occasione della mostra milanese del 1951 (21 aprile-15 luglio), il quadro vi andò ancora sporco perché le tempistiche non consentivano di sottoporlo a restauro – cosa che fu rimandata a chiusura della retrospettiva. Tale operazione dovette però procedere a rilento e per questo Meli scrisse a più riprese al soprintendente Giorgio Vigni (che succedette a Di Pietro), fino a rivolgersi direttamente al direttore dell’istituto del restauro Giacinto Brandi. Curioso apprendere in particolare quanto scrive a quest’ultimo l’8 marzo 1952, lamentando che
Il “prezioso dipinto”, finalmente, verrà spedito da Roma la settimana successiva, il 14 marzo.
Ma per un Caravaggio messo in salvo – e però poi trafugato nel 1969 e mai più recuperato – il secondo conflitto mondiale ne sottraeva alla collettività altri tre, dispersi a Berlino nel 1945 a seguito dell’incendio divampato nel deposito dove, paradossalmente, sarebbero stati messi in sicurezza dal museo di appartenenza, assieme ad altri quattrocento quadri.
La barbarie della guerra, nel far riaffiorare il lato più esecrabile della mente umana, lascia sempre cicatrici profonde e insanabili per tutti. Anche una mostra come quella in oggetto invita a riflettervi, non senza un conclusivo, implicito messaggio di speranza. Non tutto è irrimediabilmente perduto e in qualche modo è sempre possibile ricominciare.
Per aver agevolato la consultazione e la pubblicazione di lettere e fotografie, si ringraziano: Attilio Albergoni; Soprintendenza BB.CC.AA. di Palermo e in particolare Evelina De Castro; Archivio Storico ISCR nella persona di Laura D’Agostino; Maria Urso e tutta l’Associazione Culturale “Genesis Ciminna”; Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (da segnalare la didascalia originale errata per l’immagine tratta da “La protezione del patrimonio artistico nazionale dalle offese della guerra aerea”, p. 347).
* Fonte: finestresullarte.info
A PROPOSITO
Il giallo del Caravaggio
che fu venduto a pezzi
Arte trafugata: il boss Badalamenti e il quadro diviso in sei parti,
secondo l’ultima ricostruzione di un mafioso pentito all’Antimafia
testo di Salvo Palazzolo per Repubblica.it*
PALERMO. Il capolavoro del Caravaggio, la “Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi”, non è andato distrutto dopo il furto del 1969, a Palermo. Come aveva detto il pentito Francesco Marino Mannoia al giudice Falcone, come ha ribadito di recente uno degli ultimi pentiti di mafia, Gaspare Spatuzza. La Natività è ancora nascosta da qualche parte, all’estero. Però, forse, è stata scomposta in sei o otto pezzi. È una verità che ridà speranza, ma allo stesso tempo angoscia, quella messa a verbale da un vecchio mafioso pentito, Gaetano Grado, che ha fatto un lungo racconto alla commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi. E, oggi, quel verbale si può leggere per la prima volta, le rivelazioni del collaboratore sono nella relazione finale dell’Antimafia.
Grado racconta che “già nel 1970 il capo della Cupola, Gaetano Badalamenti, curò il trasferimento del quadro all’estero, verosimilmente in Svizzera, dietro il pagamento di una grossa somma in franchi”. Don Tano Badalamenti, il padrino dei “cento passi” di Cinisi, che anni dopo decretò la morte di Peppino Impastato, il giovane attivista che lanciava le sue denunce dai microfoni di Radio Aut. “Badalamenti mi disse che verosimilmente il quadro era stato scomposto per essere venduto sul mercato clandestino”. È un racconto preciso quello del pentito che ha già segnato una svolta nell’inchiesta sul Caravaggio. Grado ha riconosciuto in fotografia l’antiquario svizzero che arrivò a Palermo per curare l’affare. L’intermediario è morto da tempo, ma il suo nome è un altro dettaglio prezioso per provare a ricostruire dove sia finito il quadro ormai diventato il simbolo dei segreti di Cosa nostra. Anni fa, un pentito spiegò che il Caravaggio venne esposto anche a una riunione della Cupola, segno di prestigio e di potere. Come quelli di un altro fantasma della mafia siciliana, Matteo Messina Denaro, che sembra diventato imprendibile dal 1993 nonostante le condanne all’ergastolo per le stragi di Roma, Milano e Firenze.
Ora, passato e presente della Cosa nostra che si riorganizza si intrecciano nella relazione dell’Antimafia. Quella tela di 2 metri e 68 per 1,97, è ormai nella top ten degli “Art crimes” stilata dell’Fbi. Insieme, ad alcuni reperti trafugati in Iraq, a uno Stradivari rubato a New York, al Picasso sparito dal museo “Chacara Do Ceu” di Rio De Janeiro. I nostri carabinieri per la Tutela del patrimonio culturale (TPC) non hanno mai smesso di cercare il Caravaggio. Un’indagine che dal 1971 al 1994 ha attraversato una decina di rocambolesche trattative in mezza Europa, avviate da “fonti confidenziali” che dicevano di essere ben informate. Poi, nel 1996, sono arrivati i pentiti di mafia, ma parlavano tutti per aver saputo da altri. Grado, no. I carabinieri del “TPC” hanno avuto l’intuizione giusta puntando sull’ex mafioso di Santa Maria di Gesù, che su questi temi non era stato mai interrogato dalla magistratura. Il pentito, lo stesso che parlò di investimenti del suo capo Stefano Bontate nelle aziende di Berlusconi durante gli anni Settanta, ha raccontato che il furto del Caravaggio maturò “nell’ambiente dei piccoli criminali, ma l’importanza del quadro e il suo enorme valore, subito evidenziato dalla stampa – dice la relazione dell’Antimafia – indussero i vertici di Cosa nostra a interessarsi immediatamente alla vicenda e a provvedere a rivendicare l’opera”. La Natività fu consegnata prima a Bontate, il capo del mandamento competente, poi a Badalamenti.
L’indagine dell’Antimafia ha stretto il cerchio anche sui nomi di alcuni piccoli pregiudicati dell’epoca, sospettati di aver rubato l’opera nell’oratorio di San Lorenzo; i documenti con i loro nomi e il verbale di Grado verranno inviati alla procura di Palermo: l’accusa di furto è ormai prescritta, ma bisogna proseguire le ricerche, ogni dettaglio è prezioso. Rosy Bindi auspica una “cooperazione a livello internazionale, per seguire tutte le tracce”.