L'ATTUALITA' DELLA MEMORIA: QUANDO ANDAI IN MEDIO ORIENTE (1978) E SCRISSI: “QUI VEDO BRUCIARE LA MICCIA DELLA TERZA GUERRA MONDIALE”
Da giornalisti e politici sento evocare spesso, in questi drammatici giorni di guerra in Medio Oriente, “la miccia della terza guerra mondiale”. Con dolorosa trepidazione sono andato a rileggermi il mio reportage per L'Europeo di 45 anni fa: bastarono pochi giorni in Libano per indicare che “questa regione mediorientale sta diventando il nuovo Vietnam”. E la prossima newsletter NEL MESE, destinata ai 2.700 lettori che l'hanno richiesta, sarà monografica, con storie interessanti dal Medio Oriente riaffiorate dal cassetto del mio quality blog.
REPRINT
testo di Salvatore Giannella* da L'Europeo 1978*
Se si riesce a varcare la soglia dell’aeroporto, si ha subito un assaggio convincente del clima di tensione che avvelena la vita in questo di questo paese (grande un po’ più dell’Umbria e un po’ meno dell’Abruzzo, cioè piccolissimo) che fino a ieri vantava il titolo di “ordinata e pacifica Svizzera del Medioriente” e oggi rischia di diventare il Vietnam del Mediterraneo. I due lati della strada polverosa che in quindici chilometri porta al centro di Beirut sono occupati, a breve distanza l’una dall’altra, da piccole postazioni militari protette da sacchetti di sabbia: dietro i fortini spuntano minacciose le sagome di sentinelle armate e di fucili mitragliatori col nastro dei proiettili già inserito. Le mostrine e le uniformi di questi soldati non sono tutte uguali . “Quelli vestiti in verde“, spiega un soldato, “sono i sudanesi della Forza araba di dissuasione. Quegli altri con l’elmetto calcato sulla testa sono i siriani. Quegli altri ancora, con il fucile mitragliatore Kalachnikov di fabbricazione sovietica appoggiato al fianco, sono i palestinesi“.
Il Libano, dalla fine della guerra civile, è un caleidoscopio di eserciti. Chi ha pazienza, ne conta ben 32. Cinque sono le milizie cristiane maronite, sette i movimenti della Resistenza palestinese, sette le milizie progressiste, cinque i gruppi all’interno della Forza araba di dissuasione e altri cinque tra i Caschi blu dell’ONU. L’esercito libanese è diviso in due gruppi formati in prevalenza da ex-miliziani di destra. A questi bisogna aggiungere due corpi di polizia, otto servizi segreti, 24 milizie private (non c’è uomo politico di peso che non abbia la sua: ha dovuto farvi ricorso anche l’imprenditore italkiano Felice Riva, dal suo arrivo in Libano alleato con i leader della destra, per i quali ha affittato un satellite ITT per comunicazioni telefoniche), 42 partiti, cinque emittenti radio, due televisive. Dietro questo immenso puzzle che nemmeno i più abili politologi locali sembrano in grado di completare, c’è uno dei motivi per cui questo paese mediorientale è così inquieto e dilaniato dalle reciproche rivalità.
Il fragile equilibrio delle armi, che si era instaurato a Beirut dopo l’ottobre del 1976, con l’ingresso delle truppe siriane e che segnò formalmente la fine della guerra civile, è saltato per motivi contingenti e lontani. Tra i primi, c’è l’uccisione di Tony Frangie, figlio dell’ex presidente filo siriano Suleiman Frangie, da parte dei falangisti che volevano così evitare la nascita di una fazione più arrendevole al loro interno; è seguita la rappresaglia delle milizie di quest’ultimo. Poi il massacro di 27 falangisti a Bekaa (i cui responsabili non sono mai stati scoperti) ha contribuito a riaccendere la tensione nel Libano che poi è sfociata, grazie a una delle tante azioni di cecchinaggio contro soldati siriani, nei colpi di cannone che la Forza araba di dissuasione spara sui quartieri dei cristiani dal primo giorno di luglio 1978. In realtà le cause del deteriorarsi della situazione hanno radici più profonde, interne ed esterne al Libano. Una diagnosi diffusa vede la miccia nell’atteggiamento della destra libanese.
Un Israele cristiano. Usciti dalla guerra civile più forti di prima, grazie al capovolgimento dei rapporti di forza dovuto all’intervento militare siriano (che allora assunse un atteggiamento duro nei confronti dei palestinesi e delle sinistre), i cristiani maroniti guardavano con fiducia al presidente siriano Hafiz al-Assad. Speravano che le forze di Damasco avrebbero disinnescato la bomba palestinese, disarmando tutte le sinistre. I leader della destra, Camille Chamoun e Pierre Gemayel, tornavano da Damasco con la convinzione che le truppe siriane avrebbero riportato “l’ordine e la sicurezza” nel paese e poi sarebbero tornate a casa. La seconda parte del piano era prevedibile: le destre, forti dell’appoggio di Israele e della solidarietà dell’intero establishment conservatore arabo e massicciamente rifornite, in barba alla tregua, di armi e di mezzi bellici, avrebbero potuto fare i conti con i palestinesi e le sinistre e dare corso ai piani di dominio esclusivo su tutto il Libano. Un progetto che sarebbe sfociato in “un Israele cristiano”, una patria per i cristiani maroniti.
Questo lucido disegno è venuto però a cozzare contro la politica e gli obiettivi della Siria. La .linea costante del presidente Assad verso il Libano è stata quella di impedire una “soluzione militare” della guerra civile. Di evitare, cioè, per non destabilizzare il quadro politico della regione mediorientale e la liquidazione dei cristiani, l’eventualità al contrario di un massacro delle sinistre con la conseguente nascita di uno Stato tutto cristiano maronita. E’ alla luce di questa linea complessiva che si spiegano le oscillazioni nella politica del governo siriano passata dall’iniziale appoggio alle destre in attuale scontro aperto con la parte più intransigente di esse.
Anche i fattori interni sono tanti e di notevole peso. Nessunna delle cause profonde della guerra civile è stata cancellata da cambiamenti positivi. I problemi non sono stati risolti, spesso nemmeno affrontati, nonostante che nei salotti della media e alta borghesia di Beirut il cronista capti discorsi con aperture inaspettate sul piano economico e sociale (“il governo deve avviare profonde riforme senza le quali nessuna delle contraddizioni sostanziali potrebbe essere eliminata”, è la tesi di fondo). Un esempio per tutti: le ricche famiglie cristiane, eredi del colonialismo francese, rappresentano il 5 per cento della popolazione e detengono il 73 per cento del reddito nazionale. Come fanno? Semplice: la Costituzione prevede che per avere diritto al voto bisogna sapere leggere e scrivere. Nel Libano le scuole pubbliche si contano sulle dita. Quelle private sono a centinaia. Coltivano una borghesia fedele ai capi storici del paese. Sono il filtro di un sicuro serbatoio elettorale che esclude la maggioranza della nazione. Governare diventa facile. Basta mettersi d’accordo in pochi. E avere i soldi per comprare i voti.
Tintarella per dimenticare. L’autorità dello Stato, di fatto,. non esiste più. L’amministrazione civile, dissoltasi nel corso della guerra, non è stata più riorganizzata. I tribunali funzionano poco e male. Le rovine della guerra non sono state ancora rimosse. Tall Zaatar è rimasto come un anno fa. Le viuzze di terra sono deserte. Tra i cumuli di macerie ancora annerite resta in piedi solo qualche muro. I palestinesi, quei pochi che riuscirono a sopravvivere al massacro, sono tornati negli altri campi profughi attorno a Beirut (il più grande è quello di Sabra).
Chi circola anche fuori della zona cristiana dove oggi cadono le bombe siriane non vede altro che macerie e muri pericolanti. Un’immagine emblematica la si coglie nella zona dei grandi alberghi, rimasta deserta. E’ controllata dai palestinesi. Sono rimaste le tracce di tonnellate e tonnellate di proiettili: tracce di una ferocia incredibile. Qui si raccoglievano i turisti di lusso e gli sceicchi, gli uomini d’affari e i ricchi produttori di petrolio-. Oggi l’unico segno di vita lo si trova tra le macerie dell’albergo Saint George, una volta il più famoso e il più caro del Medio Oriente. L’edificio è impraticabile, annerito dalle fiamme, ma funziona.la piscina. Vi arriva, a prendere il sole, la gente bene. Una tintarella per dimenticare preoccupazioni, ferite morali, rancori. Perché questo è un paese pieno di armi e milizie armate sì, ma anche pieno di rancori. Un bilancio approssimativo della guerra civile è impressionante: 60 mila morti, più di 200 mila feriti. Non c’è famiglia, a Beirut e nel Libano, che non abbia avuto una vittima. Non c’è famiglia che non covi una sua personale vendetta.
La distruzione di interi quartieri ha fatto salire alle stelle il prezzo degli affitti delle poche case rimaste in piedi. Di ricostruzione si parla, ma con il tono di un augurio. In realtà s’era cominciato a innalzare pochi edifici nuovi solo in alcune zone residenziali e in quelle cristiane. Sono le zone oggi completamente isolate e al buio, su cui ora si abbattono le granate siriane, sparate da postazioni messe dovunque, dalle colline attorno alla città e persino nell’ippodromo, dove fino a ieri si poteva assistere a corse di cavalli sulla pista delimitata da potenti carri armati. E’ andato completamente distrutto il souk, il quartiere commerciale dove si potevano acquistare oggetti introvabili altrove. E’ completamente in macerie la piazza dei Cannoni, o piazza dei Martiri, un tempo il cuore pulsante della città dove, tra le autoblindo siriane, ora sono comparse le bancarelle con i prodotti agricoli che affluiscono dal sud, insieme ai profughi.
L’arrivo dei profughi ha rappresentato un altro complesso problema che si è aggiunto ai tanti già esistenti. Dopo l’invasione israeliana del marzo scorso, sono arrivati nella capitale più di 120 mila profughi. Hanno occupato palazzi e case disabitate. Di queste, molte erano state dichiarate “pericolose” perché colpite delle granate. Ma i contadini del sud, alla disperata ricerca di un rifugio, hanno occupato abusivamente anche quelle. Ci sono stati crolli: sotto le macerie sono finite intere famiglie.
Nonostante gli scontri, a Beirut si continua a vivere. Nel quartiere occidentale, palestinesi e cristiani si ritrovano presso il circolo di padre Ayad, palestinese, uno dei consiglieri più ascoltati di Arafat. Una cena con i prodotti tradizionali della ricca cucina libanese, quattro salti sulla pista da ballo e poi tutti a casa. “E’ da tre anni”, dice Sonny, il pianista dell’albergo Commodore, “che di sera c’è il coprifuoco. Pensare che Beirut non conosceva soste notturne durante l’anno”.
L’opera applaudita. La nuova offensiva siriana ha portato alla temporanea chiusura del Casino du Liban che si trova in zona cristiana. Prima che le granate cominciassero a piovere, qui si aveva ogni sera il pieno per vedere Petra, opera in due atti che racconta del sacrificio della figlia della regina di Petra, rapita dai romani i quali chiedono, in cambio della liberazione, la sottomissione a Roma del regno di Petra. La regina rifiuta e la figlia viene uccisa. Ma l’indipendenza del regno è salva. La spiegazione del successo dell’opera i critici l’avevano trovata nello spirito nazionalistico che ne emana. I romani potevano benissimo essere i siriani, che hanno occupato il Libano e non vogliono tornarsene a casa.
Sotto le macerie di Beirut di nuovo in fiamme finisce anche un’esperienza e un progetto esaltante: la coesistenza di religioni e di politiche diverse. Dice una canzone di moda oggi nella capitale libanese: “Cosa è successo, Beirut? Qual è la differenza tra un quartiere e l’altro? Perché questo distacco tra un fratello e l’altro? Chi è che ha seminato la morte dentro la casa? Chi è il nemico della casa che vuole distruggere tutto? Cosa è successo, Beirut?”. Un canto pieno di interrogativi. Interrogativi ai quali i libanesi rispondono con una profezia agghiacciante: “Da qui può cominciare la terza guerra mondiale“. ()