FUMMO NOI PER PRIMI A PARLARE DELLA PEARL HARBOR PUGLIESE CHE FECE SCOPRIRE LA CHEMIOTERAPIA
testo di Salvatore Giannella*/BBC HISTORY ITALIA, 2011
In una intervista al Corriere della Sera il dottor Roberto Burioni a proposito del suo ultimo libro Match Point, risponde con queste parole alla domanda dell’intervistatrice (Interessante scoprire, nel libro, come è nata la chemioterapia): «Non lo sa quasi nessuno, perché è stato per anni segreto di Stato. Seconda guerra mondiale, porto di Bari. L’aviazione tedesca bombarda una nave americana, che esplode con il suo carico letale: bombe all’iprite, un gas che, si scoprì dopo, uccideva alcune cellule in maniera relativamente selettiva. Il principio, appunto, della chemio».
Anche Repubblica si era soffermata (26 maggio 2023) sulla “strana storia dell’origine della chemioterapia a Bari che non conosce nessuno“, attribuendo la fonte alla autorevole rivista Nature di tre anni prima, 2000.
Per amore di verità la storia della “Pearl Harbor che fece scoprire la chemioterapia” fu raccontata ampiamente dodici anni prima, con titolo di copertina, sul primo numero del mensile che diressi dall’aprile 2011, BBC History Italia (e sul numero zero della rivista di prevenzione e guarigione dal cancro, Si può, che lo stesso vulcanico editore Luca Sprea aveva intenzione di mandare in edicola quell’anno se solo avesse trovato, per quel mensile da me ideato, un adeguato supporto pubblicitario). Rileggiamo quel testo e quella pagina storica che rappresentò uno dei più grandi disastri ecologici di ogni tempo. (s.g.)
La copertina del primo numero, aprile 2011, del mensile BBC HISTORY ITALIA (Sprea editore), allora diretto da Salvatore Giannella. Nella foto d’apertura: ore 19,25 del 2 dicembre 1943, il porto di Bari è in fiamme dopo l’attacco degli aerei tedeschi alle navi ancorate nel porto di Bari.
Bari 1943, la morte nell’aria
Barili di gas nervini. Malgrado le importanti conseguenze scientifiche, la storia del bombardamento del porto di Bari è poco nota, avvenuta sul finire del 1943 e che sarebbe stato più tardi ribattezzato “la seconda Pearl Harbor” (dal nome della base navale statunitense alle Hawaii, distrutta dall’attacco aereo giapponese il 7 dicembre 1941).
C’era stato da poco l’armistizio dell’8 settembre, firmato dal generale Pietro Badoglio, e l’esercito nazista occupava mlitarmente l’Italia con l’esclusione delle regioni meridionali liberate che facevano parte del cosiddetto “Regno del Sud”. In quel periodo gli anglo-americani temevano un attacco da parte dei tedeschi a base di armi chimiche, bandite da due accordi internazionali nel 1921 e nel 1925, ma accumulate a scopo deterrente da tutte le parti in conflitto.
Per questo gli Alleati anglo-americani si erano preparati segretamente per poter rispondere subito all’eventuale attacco, trasferendo nel porto pugliese migliaia di barili di iprite, un gas nervino: consideravano sicuro il luogo, fuori dal raggio d’azione dei bombardieri tedeschi.
La festa patronale. Il porto era però diventato sempre più importante sul piano strategico perché da lì transitavano armi e rifornimenti. La Luftwasse, l’aviazione tedesca, decise di far decollare tre squadriglie di bombardieri da campi di volo del Nord Italia. Solo per un caso la città di Bari fu l’unica in tutta Europa a essere colpita da armi chimiche, per di più per “colpa” (seppure indiretta) degli Alleati anglo-americani.
L’attacco, imprevisto e improvviso, fu sferrato alle 19 e 25 del 2 dicembre, mentre nella città, che all’epoca contava circa 200 mila abitanti, fervevano i preparativi per le imminenti feste per il santo patrono, San Nicola. Oltre cento bombardieri bimotori Junkers 88 si avvicinarono al porto da Nord volando indisturbati, dato che non c’era nessuna postazione contraerea. Una volta su Bari, in un attacco durato circa un’ora, sganciarono il loro carico di bombe sulle navi che si affollavano presso il molo foraneo.Tra di esse vi era il mercantile “John Harvey”, di costruzione americana, lungo 135 metri, con oltre 600 soldati, arrivato da pochi giorni dall’Algeria con 15 mila bombe chimiche (come ricostruito dal biologo marino, presso le Nazioni Unite a Ginevra, che ha indagato sulla vicenda, il romano Ezio Amato). Ciascuna delle bombe, che attendevano di essere scaricate, conteneva 30 chili di iprite, come venivano chiamate le mostarde azotate. Il capitano del mercantile, consapevole dei rischi, avrebbe voluto chiedere alle autorità portuali una procedura particolare per portare rapidamente a terra le sostanze pericolose, ma la segretezza gli aveva impedito di farlo, non potendo menzionare la natura del carico nascosto nella stiva.
Lo strano odore di aglio. Fu così che la Harvey fu colpita, insieme ad altre 16 navi, e dalla sue fiancate squarciate si rovesciarono nelle fredde acque del porto grandi quantità di iprite, mentre si sollevava un’alta nube di gas tossico. Sul momento, nessuno comprese la gravità della minaccia, anche perché i membri dell’equipaggio della Harvey, che erano al corrente del segreto, erano morti nel bombardamento.
Risultato: le cure immediate non furono le più adatte a limitare i danni da attacco chimico. Al contrario, molti dei feriti più lievi rimasero a lungo in attesa di trattamento con indosso l’uniforme bagnata, intrisa di carburante e iprite, sotto coperte asciutte che avevano lo scopo di riscaldarli, ma che favorivano anche l’assorbimento per contatto della pericolosa sostanza. Anche molti dei soccorritori furono esposti.
Nessuno, sul momento, aveva fatto caso al forte odore di aglio (un odore caratteristico, che più avanti avrebbe confermato i sospetti sulla presenza di armi chimiche), e per i medici rimasero inizialmente senza spiegazione molti dei sintomi (tipici dell’intossicazione da gas) presentati dai 600 soldati ricoverati. Di questi, ben 83 morirono nelle settimane seguenti, mentre dei moltissimi civili coinvolti non è stato mai possibile raccogliere notizie certe.
Perché da questa casualità si giungesse alla messa a punto dei primi farmaci capaci di contrastare il cancro hanno giocato un ruolo chiave altri fattori, tra cui la segretezza militare e l’acume clinico dell’ufficiale medico spedito al recupero dei sopravvissuti, il tenente colonnello inglese Stewart Francis Alexander.
Fu con l’arrivo di Alexander, l’ufficiale medico inviato a Bari per la sua esperiena sulla guerra chimica, che la verità cominciò a emergere, seppure solo nella ristretta cerchia delle gerarchie militari.
Egli praticò molte autopsie e approfondì esami sui soldati ricoverati, osservando che in molti casi l’esposizione ai gas aveva avuto un effetto importante sul funzionamento del midollo osseo: aveva infatti bloccato la replicazione di alcuni tipi di cellule del sangue che l’organismo sano produce molto rapidamente, e in continuazione, e che a loro volta portano alla produzione dei globuli bianchi. La versione ufficiale dei fatti di Bari continuò ancora per molti anni a nascondere la presenza di iprite e mostarde azotate, ma la relazione medica di Alexander fu da subito chiarissima, al punto da suggerire che questo effetto delle mostarde azotate sulle cellule “a rapida replicazione” poteva risultare utile anche per contrastare altre cellule che si dividono in modo rapido e incontrollato: le cellule cancerose.
Il suo rapporto, con quello di altri esperti britannici, finì sul tavolo del direttore del Memorial Hospital di New York, Cornelius Rhodes, all’epoca ai vertici del servizio sanitario militare statunitense. Lì furono studiati i campioni raccolti da Alexander grazie ai pazienti baresi: campioni che fornirono subito risultati interessanti grazie al lavoro dei due medici americani Louis Goodman e Alfred Gilman (Università di Yale). Poi fu avviata la prima sperimentazione di un farmaco derivato dalle mostarde azotate che pose le basi per una cura che oggi offre ai malati prospettive di guarigione un tempo impensabili. ()
2 dicembre 1943: due sopravvissuti dopo il bombardamento aereo tedesco sul porto di Bari. (Foto Barinedita)
A PROPOSITO/ Identikit dell’iprite
L'arma chimica usata per prima dai tedeschi
L’iprite, nome usuale del diclorodietilsolfuro, è un liquido oleoso, incolore, i cui vapori agiscono sulla pelle anche attraverso gli abiti. Le sue caratteristiche principali (azione per contatto, lunga persistenza ambientale) e le lesioni che procura (a insorgenza lenta e inabilitanti per lungo periodo) lo resero subito un’arma innovativa in una guerra che cercava nella tecnologia un aiuto per sfuggire al più presto all’immobilità della guerra di trincea. La diffusione avveniva essenzialmente tramite proiettili di artiglieria, di rado tramite bombe d’aereo. Queste, in proporzioni massicce, furono usate dagli italiani durante la Seconda Guerra Mondiale: nel 1930, nella Sartica (Libia) e dal dicembre 1935 al maggio 1936 durante la guerra d’Etiopia, quando circa 85 tonnellate di iprite furono lanciate con bombe dal cielo.
Da tempo è noto che l’esposizione prolungata all’iprite e alle sostanze chimiche analoghe può provocare il cancro, ma solo nel 2009 si è potuto determinare con certezza (grazie a uno studio epidemiologico condotto su oltre 17 mila veterani di guerra inglesi, pubblicato sulla rivista inglese British Medical Journal) che l’esposizione singola (cioé una sola volta durante la vita, come quella che ha riguardato i cittadini di Bari nel corso dell’attacco aereo del dicembre 1943) non provoca invece alcun effetto cancerogeno. ()