Dopo essere stata in mostra al Museo delle Accademie russe a San Pietroburgo e nel Museo Schusev di Mosca, è rientrata nella collezione del mecenate russo Ismail Akhmetov, nella piccola città di Tarussa (130 chilometri a sud di Mosca) l’opera pensata e realizzata sull’onda emotiva dell’ennesima tragedia nel mare Mediterraneo. Titolo: “Lampedusa”, autore l’artista ravennate Marco Bravura*, 67 anni, una vita dedicata all’arte del mosaico, che sta vivendo in terra russa una nuova stagione creativa. Sull’opera ha posato gli occhi un giovane critico salito dalla sua Romagna a Mosca. Ecco le sue impressioni. (s.g.)
Languore d’inverno:
nel mondo di un solo colore
il suono del vento.
Matsuo Bashō
Che resta, alla fine? Qualche oggetto a dire che siamo stati. Perché le cose che crediamo di possedere hanno in realtà vita assai più lunga dei loro proprietari, come qualunque corredo funebre di tomba antica può testimoniare o come Borges, il sublime, scrisse nel finale di “Las cosas“: “Dureranno più in là del nostro oblio; non sapranno mai che ce ne siamo andati”.
In apertura della medesima poesia è invece posto un elenco (“Le monete, il bastone, il portachiavi/… le carte da gioco e la scacchiera,/ un libro e tra le pagine appassita/ la viola…), cose appartenute all’autore che ne tracciano un ritratto più intimo di mille pagine biografiche, perché “gli oggetti assumono la funzione di veri e propri compagni nella vita emozionale. Noi pensiamo insieme a loro, loro vivono con noi mentre noi pensiamo”.
E quali cose vediamo nell’opera “Lampedusa” di Marco Bravura? Un elenco sparso e raggelante nel suo disordine armonico di oggetti d’uso quotidiano dei migranti in fuga dalle coste libiche che sono al contempo metafora di se stessi, potendo provenire da qualsiasi altra parte del mondo: cose, insomma, ritrovate sulla spiaggia di Lampedusa, una volta ancora unici testimoni sopravvissuti ai corpi dei loro ex possessori ormai inghiottiti dal mare: bambolotti, cappelli, sandalini e scarpe, un coniglietto di peluche, un barchetta giocattolo, un cucchiaio, bottiglie e borracce, un biberon, flaconi e qualche recipiente di plastica, bicchieri e uno spazzolino.
Tutto ricoperto da tessere bianche. Accecanti. Una porzione di ex-vite fermata con la colla e col mosaico che definitivamente blocca imitando ciò che dovrebbe essere il moto perpetuo per eccellenza, quello delle onde marine, qui sospese come un ossimoro spaziale e temporale, in una porzione di attimi, minuti, ore che in realtà sono per sempre: le stesse onde che poco prima hanno compiuto la strage, sembrano ora carezzare questi oggetti abbandonati sulla “bibula harena” lucreziana, sulla sabbia che s’imbeve incessantemente.
Ma tutto è rigido, fermo, morto. Come le maschere di cera degli antenati in uso nelle domus romane. Anche l’impiego del bianco uniforme pare un ossimoro nella storia di un autore come Bravura che ha fatto della bellezza e dello scintillìo dei colori quasi una cifra stilistica. Ma il bianco è qui una necessità funeraria, come in “Guernica”: queste cose, disposte a formare una danza macabra contemporanea, sono più eloquenti delle foto dei corpi straziati, come le immagini dei cumuli di scarpe, vestiti e valigie di Auschwitz, bianche come ossa scarnificate, più bianche dei gessi dei morti pompeiani, bianche e candide come i gigli che annunciavano l’arrivo della pallida Morte nella pietà popolare d’occidente, bianche come il lutto dell’estremo Oriente, come la tempesta di neve che tutto copre e annienta in uno dei Sogni di Kurosawa. Perché il bianco, somma di tutti i colori, è per definizione un non colore e sembra dunque cancellare le identità e il “mana” stesso, la forza spirituale degli oggetti, non importa quanto poveri, che una madre o un padre potevano aver donato al proprio figlio o si erano portati via da casa prima della tragica odissea.
Eppure, proprio grazie allo sconcerto di questo abbandono che Bravura propone come un pugno chiuso agli occhi di chi abbia coscienza, questi resti benché banali assurgono a rituali in quanto memori del sacrificio appena compiuto e ricordano a chiunque li guardi con coraggio di avere avuto un’anima, di essere stati cose vive per i vivi: per questi ultimi non si può che pregare come fece Marziale per la bimba Erotion, che il mare pesi poco su di essi che poco o nulla pesarono su di lui, e che, alfine, seguendo l’immaginazione degli Etruschi, ritrovino tutti la pace che fu loro negata nel viaggio estremo, sulle Isole dei Beati, lì portati dai delfini pietosi del grande Nettuno. •
Luca Maggio
Tessere di Romagna firmate Bravura
Leggi anche:
- Migranti, il sindaco di Riace Domenico Lucano nella classifica dei 50 leader più influenti al mondo secondo il magazine Fortune
- “Imagine” ci ricorda che un altro mondo è possibile
- La crisi dei rifugiati: un piano Marshall europeo per accogliere i profughi
- Professione fotoreporter: Daniele Pellegrini, figlio d’arte in cerca dell’armonia del mondo
- L’altra faccia di Macerata, città esempio di integrazione e accoglienza
- Quando Kiarostami mi scrisse: “Non è umano chi è indifferente alla sofferenza altrui”
- Massimo Sansavini: vite, giochi e sogni inabissati nei legni degli scafi di Lampedusa
- Profughi, anziano livornese ne accoglie 7 in casa: “È un obbligo morale”