Un progetto nato quasi per caso. Quattro giovani poco più che ventenni danno vita a una delle riviste più importanti dell’editoria italiana che ha da poco festeggiato i primi venti anni di attività.
Il 6 novembre del 1993, infatti, faceva la comparsa nelle edicole il primo numero di Internazionale, un settimanale destinato a incidere profondamente sulle abitudini di lettura degli italiani.
La selezione e la traduzione degli articoli pubblicati dai più importanti giornali del mondo, infatti, allargava gli orizzonti dei lettori che trovavano nella rivista la possibilità di approfondire tematiche solitamente relegate alle poche pagine dedicate agli esteri.
Ma Internazionale è anche qualcosa di più: nei suoi venti anni di esistenza, infatti, ha permesso a molti, soprattutto giovani, di conoscere e apprezzare i diversi giornalismi presenti nel mondo, leggendo così modi e stili di scrittura lontani dal nostro, come ad esempio il modello anglosassone.
Uno strumento educativo per i moltissimi lettori giovani, ma estremamente utile anche per i giornalisti italiani che hanno l’opportunità di confrontarsi con lo stile dei colleghi stranieri. Un altro aspetto interessante di Internazionale è stato poi quello di farci capire un po’ meglio cosa pensassero all’estero di noi: leggere articoli sulla situazione italiana scritti da giornalisti inglesi o tedeschi è un esercizio utile per avere le idee più chiare sulla nostra situazione sociale e politica grazie alla visione che solo un occhio esterno può avere.
In una intervista al direttore e fondatore della rivista, Giovanni De Mauro, l’occasione per fare il punto sul giornalismo italiano, sul futuro dei giornali (“Io non credo che i giornali su carta abbiano i giorni contati”) e su come sia cambiato il modo di fare informazione negli ultimi 20 anni.
Tremila lire. Tanto costava il primo numero di Internazionale. Un’impaginazione semplice, quasi spartana, con poche foto, per il giornale che, come recita la scritta sotto la testata, offre “ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo”. Un obiettivo che viene sottolineato nell’editoriale in cui si annuncia che il giornale sarà di poche pagine: “pensiamo che la qualità non è data dalla quantità, ma dalla capacità di selezionare poche informazioni veramente utili”.
Un’intenzione che sembra quasi un presagio dell’overdose di informazione a cui siamo oggi sottoposti. Preciso, funzionale e gradevole sono gli aggettivi che i fondatori di Internazionale citano nell’editoriale per spiegare ai lettori il giornale che vorrebbero fare: un giornale che risponda al “bisogno di provare a capire la complessità del mondo” e a “quella voglia di accedere all’informazione senza filtri e di formarsi opinioni proprie senza mediazioni”.
Sono passati 20 anni da quell’editoriale e da quel primo numero e Lsdi ha intervistato il direttore e fondatore della rivista, Giovanni De Mauro: un’ occasione per fare il punto sul giornalismo italiano, sul futuro dei giornali (“Io non credo che i giornali su carta abbiano i giorni contati”) e su come sia cambiato il modo di fare informazione negli ultimi 20 anni. Ricordandosi sempre che “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra filosofia” (William Shakespeare, Amleto).
Come e perché nacque Internazionale?
Internazionale nasce da un’idea avuta un po’ per caso dopo aver scoperto, nelle edicole francesi, il Courrier International, che ha iniziato ad uscire all’inizio degli anni ’90, due o tre anni prima di Internazionale. Avevo 26-27 anni e assieme ad altri tre amici, tutti più giovani di me, decidemmo di provare a imbarcarci in questa avventura così come uno, vedendo qualcosa che si fa all’estero, pensa di poterlo fare anche in Italia. Il tutto nacque in maniera abbastanza semplice: facemmo un progetto economico e trovammo le due lire, quasi letteralmente, con le quali partire, finanziare e pagare i primi numeri. C’è da dire che all’epoca la situazione e il contesto economico e politico erano radicalmente diversi: si era in pieno Mani Pulite e l’idea di quattro ventenni sconosciuti che andavano in giro a cercare soldi per fare un giornale che parlasse di quello che succedeva nel mondo era vista come una simpatica eccentricità. Alla fine riuscimmo a convincere qualcuno: il finanziamento iniziale arrivò da Luigi Abete, che all’epoca era presidente di Confindustria e che aveva un’impresa tipografica di famiglia e stava mettendo in piedi un gruppo editoriale di riviste. Visto l’interesse nel progetto e l’ esiguità dell’investimento necessario, decise di mettere le due lire con cui partimmo. Abete è poi rimasto come sleeping partner in tutti questi anni della società editrice.
Qual è lo scopo, il fine di Internazionale? Esiste un pubblico specifico al quale vi rivolgete?
Fin dall’inizio abbiamo cercato di fare un giornale che noi per primi avremmo avuto voglia di comprare in edicola, quindi soprattutto un giornale che ci piacesse, ci sorprendesse, ci interessasse e che parlasse di argomenti che ci appassionavano. Il primo fine è quindi quello di fare un giornale che interessi chi lo legge e che racconti storie interessanti. Forse ci sono anche degli scopi e dei fini più alti, però questi lasciamoli dire ai lettori e alle lettrici. Forse, in realtà, sono tanti gli scopi: l’idea di un giornalismo di qualità e l’attenzione a certi temi sono certamente tra gli scopi di Internazionale.
Per quanto riguarda il pubblico, non ce n’è uno specifico, non facciamo un giornale avendo in testa un certo tipo di pubblico: siamo partiti facendo un giornale che ci piacesse e forse, soprattutto all’inizio, abbiamo intercettato un pubblico che era abbastanza simile a noi. Il nucleo originale, 20 anni fa, era composto da quattro persone, oggi siamo circa 40; all’epoca avevamo 20 anni, oggi ne abbiamo 40. Avevamo e continuiamo ad avere lettori molto giovani, anche se poi quelli che lo hanno fondato sono invecchiati nel frattempo e quindi, almeno anagraficamente, i lettori non ci somigliano più. Però è certo che si continua ad avere una fetta di lettori molto giovani ed è un po’ atipico per il panorama della stampa italiana.
Quali sono, secondo lei, i motivi del successo di Internazionale?
Bisognerebbe capire cosa si intende per successo: successo dal punto di vista editoriale, politico, giornalistico, economico etc.. Certamente Internazionale, in queste acque tempestose della stampa italiana, riesce a navigare e farlo da 20 anni e a farlo tranquillamente. Diciamo che abbiamo imparato a non fare mai passi più lunghi della nostra gamba, a muoverci per gradi. Quindi, per quel che è il successo dal punto di vista economico, direi che abbiamo sempre usato una certa attenzione. Se invece parliamo di successo dal punto di vista editoriale diciamo che è un successo che si misura anche rispetto alle difficoltà degli altri: Internazionale in alcuni dei paesi con cui ci piace confrontarci, come Germania, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti etc…, sarebbe uno dei tanti buoni giornali che ci sono in circolazione, mentre in Italia sembra un po’ più un’isola felice, un caso isolato di quanto non lo sia all’estero. Questo un po’ anche per le difficoltà degli altri e per la particolarità del mercato italiano, elementi che fanno si che un giornale come il nostro sembri più eccezionale di quanto non lo sarebbe in altri paesi e altri contesti.
Se dovesse ricordare tre numeri del suo giornale (in bene o in male), quali ricorderebbe?
Due sono molto vicini tra loro, uno del luglio 2001 e uno del settembre 2001: il primo, che facemmo un po’ di corsa, sul G8 di Genova e quello che era successo: sicuramente ha rappresentato un primo punto di svolta nella storia del giornale, facemmo il primo esaurito tecnico. E poi quello del settembre 2001, un altro numero speciale e di corsa dopo quello che era successo l’11 settembre negli Stati Uniti: da quelle date è cominciato un processo di crescita del giornale, soprattutto in termini di diffusione, che in un certo senso non si è ancora arrestato anche se sono passati tanti anni. Internazionale ha iniziato ad aumentare il numero delle copie vendute in edicola e gli abbonamenti e continuano a crescere le copie vendute con ritmi diversi, ma sempre con un segno positivo da allora, mentre negli anni precedenti, dal 1993 al 2001, avevamo attraversato fasi e momenti anche più complicati e difficili. Il terzo numero del giornale che vorrei ricordare, invece, è quello uscito la settimana scorsa o quello che stiamo facendo questa settimana, ma non perché sia un numero particolare, bensì perché il lavoro che facciamo sul giornale presuppone impegno, sforzo e dedizione e attenzione massima indipendentemente dalla particolarità del numero. Quindi come terzo ne sceglierei uno a caso e quindi quello della settimana scorsa.
Esistono secondo lei differenze tra il giornalismo italiano e quello degli altri paesi?
Sì, esistono differenze e sono tantissime tra il giornalismo italiano e quello di altri paesi così come ci sono differenze tra categorie di giornale, tra periodici, tra quotidiani, tra giornali online, e così come ci sono differenze tra singoli giornali anche nello stesso paese, nello stesso segmento. La domanda presuppone una risposta che, per essere rapida, si dovrebbe generalizzare molto, una cosa che, facendo Internazionale, abbiamo imparato a cercare di evitare. Quindi le differenze sono quelle che possono venire in mente, che sono note come quella tra grandi scuole giornalistiche, la scuola anglosassone da una parte e quella latina, più vicina a noi, dall’altra.
Il “mito” del giornalismo anglosassone, secondo lei, è appunto un mito o rappresenta un modello a cui fare riferimento?
Direi che è un esempio, un termine di paragone a cui anche fare riferimento, ma sapendo che quello si chiama appunto anglosassone e ha a che vedere con una cultura, un ambiente, una storia, una lingua e abitudini che sono profondamente diverse dalle nostre. Bisogna quindi avere la capacità di capire, di prenderne gli aspetti più interessanti che possano andare bene anche per altri contesti, in maniera intelligente. Provare a innestarli sapendo che poi le abitudini di lettura sono un fatto molto locale legate ai diversi contesti. Senza dimenticare, però, che il giornalismo anglosassone, e non mi riferisco a quello alto e di qualità naturalmente, ha al suo interno anche aspetti “negativi”: il giornalismo anglosassone infatti è anche quello dei tabloid, delle terze pagine con le fotografie delle donne nude, dei titoli scandalistici, delle intercettazioni fatte dal Sun e dal News of the World. Questo giornalismo ha esportato in giro per il mondo anche la parte meno nobile della professione. Resta però certamente un esempio alto soprattutto dal punto di vista etico, deontologico e di come si possa interpretare la professione di giornalista.
Cosa ne pensa del giornalismo italiano attuale?
Il giornalismo italiano attuale mi sembra in una fase di grande effervescenza, e onestamente, da un certo punto di vista, interessante e promettente. Attraversa sicuramente grandissime difficoltà economiche, però ho l’impressione che in altri paesi, come Francia e Spagna, la situazione sia parecchio più difficile. Negli Stati Uniti, poi, sono decine di migliaia i giornalisti licenziati negli ultimi anni per via della crisi. Qui, in Italia, stiamo attraversando una serie di difficoltà, anche strutturali, che hanno provocato e provocheranno chiusure, licenziamenti e questo è sempre doloroso, però ho anche l’impressione che ci siano dei segni di vitalità, penso a tutto il lato digitale, alle nuove imprese che continuano ad essere lanciate, tutte cose che mi fanno ben sperare, che mi fanno essere positivo pur con tutti i limiti strutturali di un giornalismo complice, non necessariamente in termini negativi, ma connivente, così vicino, così prossimo a una classe politica ed economica che spesso il giornalismo ha difficoltà a raccontare con uno sguardo esterno.
In 20 anni di Internazionale ha notato cambiamenti nel mondo del giornalismo, sia estero che italiano? Quali?
I cambiamenti sono stati profondissimi: quando Internazionale è nato, 20 anni fa, Internet non esisteva e l’e-mail era presente solo in ambiente accademico e militare negli Stati Uniti. Anche solo il cambiamento rappresentato dall’arrivo di Internet e della digitalizzazione delle informazioni indica una vera e propria rivoluzione certamente maggiore dei 20 anni che hanno preceduto la nascita di Internazionale. Un cambiamento radicale che ha coinvolto e coinvolge il giornalismo ovunque nel mondo.
Pensa che i giornali su carta abbiano i giorni contati o c’è ancora speranza per un loro futuro?
Io non credo che i giornali su carta abbiano i giorni contati. Credo che abbiano ancora tanto da raccontare, ma più che dei giornali, secondo me, è importante parlare di giornalismo. Il giornalismo si esprime, si esercita e si manifesta, ed è sempre stato così, attraverso le forme più varie che prendono l’aspetto delle tecnologie disponibili. Fino all’altro ieri era preponderante la carta, poi la radio, la televisione, ora c’è Internet. Non amo particolarmente la retorica del profumo della carta etc… penso che sia importante concentrarsi sul fatto che, indipendentemente dal supporto attraverso il quale si manifesta, quello che è importante è fare buon giornalismo, cercare di fare buon giornalismo. E cercare di farlo sfruttando al meglio le potenzialità dei singoli mezzi. La carta offre opportunità che il digitale non offre e viceversa: oggi siamo concentrati sulle opportunità del digitale e ci sembra che la carta non abbia smalto o abbia meno da raccontare. La carta perde sicuramente la partita della tempestività rispetto al digitale, ma è una partita già persa con la radio e con la televisione, però ha ancora da sé il fatto di essere un supporto molto economico, facilmente trasportabile, perfetto per stampare fotografie meravigliose e per leggere testi lunghi e faticosi. Nel caso delle riviste la carta è ancora il mezzo più efficace.
Qual è, secondo lei, l’opinione che all’estero hanno del giornalismo italiano?
È molto varia ed è varia quanto l’opinione che abbiamo noi del nostro giornalismo e del’opinione che noi abbiamo del giornalismo all’estero. Sicuramente all’estero pensano ci siano stati e ci siano grandi giornalisti e che ci siano buoni giornali. Ci sono tante iniziative collegate in qualche modo al giornalismo che hanno grande successo all’estero, penso al Festival di Perugia oppure al nostro Festival di Ferrara dove vengono tanti giornalisti stranieri. Anche in questo è difficile generalizzare, ma ho l’impressione che non sia un giudizio negativo quello che viene dato sulla nostra stampa.
* Fonte: Lsdi, newsletter sulla libertà di stampa e diritto all’informazione promossa da giornalisti impegnati da anni sui temi cruciali dell’editoria (per tutti, citiamo Pino Rea, Raffaele Fiengo, Antonella Beccaria, Vittorio Pasteris). Un’ attenzione particolare viene rivolta al mondo del giornalismo dal basso, alla fine del Giornalismo e alla nascita dei “giornalismi”, al plurale e in minuscolo. Con la consapevolezza che lo sviluppo delle nuove modalità del fare informazione – quelli che possiamo chiamare, appunto, i giornalismi possibili – va molto al di là del solo aspetto professionale o industriale.