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La mia vita con Leonardo, di Pinin Brambilla Barcilon, Electa, 2015, pag. 118, euro 19,90.

Ho scelto di leggere La mia vita con Leonardo di Pinin Brambilla Barcilon (Electa, 118 pag., 19,90), perché sono storica dell’arte e conosco approfonditamente quello che ha significato a livello tecnico l’ultraventennale restauro (dal 1977 al 1999) del Cenacolo di Leonardo da Vinci, in Santa Maria delle Grazie a Milano. Il restauro più importante di tutti i tempi a livello storico, il più discusso a livello artistico, il più ammirato e il più contestato dai media di tutto il mondo.
Mi affascinava poter leggere quello che aveva vissuto, attraversato e respirato la restauratrice e l’autrice del libro, ovvero Pinin Brambilla Barcilon, perché in questo si concentra il libro, sulla vicenda umana del restauro.

Leonardo è l’amico che accompagna l’autrice in tutto il testo, ma la protagonista è lei, Pinin, con i suoi sentimenti, emozioni e patimenti interiori. Ora molti potranno sapere cosa ha significato nella vista di questa donna un restauro che è durato 22 anni e che lei dedica giustamente al figlio, come una doverosa richiesta di perdono per averla sottratta per tutti questi anni al “lavoro” di madre.

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Pinin Brambilla Barcilon, la signora dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci a Milano: un restauro memorabile, durato 22 anni, che le ha meritato nel 1999 il prestigioso Premio Rotondi ai salvatori dell’arte consegnato ogni anno a Sassocorvaro, nel Montefeltro marchigiano. (Credit: controcorrentearte.wordpress.com).

Un rapporto di amore e odio con il pittore come lei stessa scrive:

Certe volte non lo sopporto più, non lo reggo più, lo odio (…) Leonardo è una creatura difficile. È chiuso, non si lascia scoprire. Io all’inizio faticavo a capirlo, mi risultava estraneo. Poi, lentamente, ho imparato a guardarlo nel modo giusto. Ora non potrei mai confondere la mano di Leonardo con una ridipintura. Lui è inconfondibile, unico.

Questo passaggio del libro l’ho letto e l’ho riletto poiché mi catapulta nel rapporto viscerale che ha instaurato Pinin con Leonardo, quasi fosse una persona, un collega col quale confrontarsi quotidianamente, perché così è stato.

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Los Angeles, 1984. Pinin Brambilla Barcilon ripresa da Elisa Leonelli (nel suo memoriale pubblicato in esclusiva su Giannella Channel) nella cornice del Getty Museum.

Un incontro quotidiano con quella perfezione, con il genio, come lei stessa scrive, che l’ha più volte messa in crisi sulle scelte e sulle strade da percorrere, tanto da dover sospendere in alcuni momenti il lavoro, dedicarsi ad altro e poi riprendere più forte e tenace di prima, ferma nelle convinzioni professionali da intraprendere.

È una lettura intensa e affascinante quella scritta da Pinin che esorto tutti a fare, un libro non da addetti ai lavori, ma per tutti, per scoprire come il genio di Leonardo ancora oggi a distanza di più di cinquecento anni riesca a donare emozioni forti e controverse al tempo stesso.

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Sabrina Marin è storica dell’arte e in carica di ruolo presso la Soprintendenza per i Beni Storici e Artistici di Mantova, sua città natale. Adottata dalla Romagna da più di 15 anni, ha intrapreso una serie di studi riguardo le tematiche trasversali che interessano l’Arte con mondi a noi più conosciuti e vicini come il vino, il cibo e l’eros. Laureata a pieni voti all’Università di Bologna, la sua tesi vince il premio Tina Bianchi nel ‘97 come miglior scritto nella sezione Storica/Artistica con la prima monografia scritta del pittore seicentesco Pietro Facchetti. Oggi la sua attività si arricchisce di numerose pubblicazioni, è titolare di diverse rassegne letterarie nel territorio e organizzatrice di mostre.

A PROPOSITO

Quando mi fece conoscere Demos, pittore di Rimini e socio di Fellini

testo di Salvatore Giannella

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Demos Bonini che, giovanissimo, intraprese il mestiere di artista in società con Federico Fellini. I due (nella foto con la moglie di Demos, Ada) aprirono la bottega di disegni e caricature e firmavano i loro disegni a quattro mani “FeBo” (le due iniziali dei due rispettivi cognomi).

Nel 2015, grazie a mostre che per il centenario della sua nascita si sono succedute in Romagna, da Cervia a Forlì sapientemente guidate da Sabrina Marin, ho conosciuto un pittore che, sebbene inserito dai critici tra i migliori pittori del Novecento, risulta ingiustamente in penombra: il riminese Demos Bonini (1915-1991), per tutti Demos. L’arte era la sua passione, e la pittura la sua voce. Demos ha dipinto storie di mare e di collina, di fatiche contadine e di abitudini borghesi, di uomini e di prospettive con il disincanto, l’ironia, l’inquietudine e la gioia tipica dei sopravvissuti alla seconda guerra mondiale.

È stato un pittore speciale, non solo perché ha esposto le sue opere in decine di gallerie in Italia e all’estero, o per i premi prestigiosi ma anche perché la sua vita è stata segnata dall’ intensa amicizia con Federico Fellini, di cinque anni più giovane (con il quale apre nel 1938 a Rimini un negozio di caricature e disegni realizzati spesso a quattro mani e firmati FeBo, le due iniziali dei due rispettivi cognomi), Sergio Zavoli e Renato Guttuso: con quest’ultimo resta a bottega, a Roma, dal 1959 al 1951. Demos è l’unico ad avere le chiavi dello studio, Guttuso non aveva mai dato questo privilegio a nessun’altro. Qui conosce Renato Birolli, Turcato, Vedola. E nel periodo romano, nel 1950, firma Il Manifesto del realismo.

Nel 1951 Guttuso diventa il pittore ufficiale del Partito comunista che richiede all’arte una funzione propagandistica. Demos, animo e artista libero, oppone un fermo NO, e prima di abbandonare per sempre Roma dirà: “A Roma è sceso il gelo. Io faccio fatica a sentirmi a mio agio”. Altra amicizia molto cara a Demos è quella con Filippo De Pisis che ha il piacere di conoscere in occasione dei periodi di vacanza a Rimini dell’artista ferrarese dal 1938 al 1942. Da De Pisis mutua lo stile metafisico fatto di silenzi, personaggi/marinai isolati, oggetti carichi di significato simbolico e spazialità immobile.

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Demos nel proprio studio di Rimini negli anni Settanta.

Demos dipingeva dal vero i suoi marinai. I lavoratori del mare, come quelli illuminati in un’altra serie dedicata ai minatori, sono al centro di una operazione di denuncia contro lo sfruttamento del lavoro e il logorìo disumano a cui alcuni lavori spesso sottopongono gli uomini. Forse l’esempio più celebre è quello del “Cuciniere di bordo”, 1952, fra i più rappresentativi di questa prima maturità dopo il ritorno a Rimini dallo studio di Guttuso a Roma, perché ritrae “È ner” personaggio realmente esistito e conosciuto a Rimini. Altro personaggio più volte rappresentato e realmente esistito è “la mela”, la più nota venditrice di povarazze (poveracce, ovvero le vongole) della piazzetta a Rimini.

Pittore dei marinai e minatori ma anche “pittore delle giacche”. “Perché sempre questa giacca?”, gli chiedevano. E lui: “I vestiti hanno origini lontane. Nella mia stanza da ragazzo spiccavano degli abiti appesi che mi suggerirono i primi quadri, quelli del 1942. Già da allora sentivo, nel loro abbandono sull’attaccapanni la solitudine dell’uomo”. Questa è la genesi e il significato della giacca, uno stilema inconfondibile e personale che ha accompagnato il pittore per 50 anni di attività.

“Demos nello scenario romagnolo”, mi spiegò Sabrina, “è fra i primi, se non il primo, a rivestire esplicitamente un ruolo intellettuale impegnato e a entrare in stretto contatto con i più ampi circoli della cultura nazionale e a confrontarsi con idee e ideali su cui si accendeva la discussione artistica fra gli anni ‘40 e ‘50”.

Un sito ben curato (demosbonini.it) e i contatti qui indicati con il figlio di Demos, Aureliano (creatore nel 1982 di Trademark Italia, la prima società italiana di consulenza di marketing e di ricerca per l’economia dei turismi) consente di approfondire, grazie anche all’indicazione di utili libri, l’avventura umana e artistica dell’artista riminese che amava Van Gogh.

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Demos, “Il cuciniere di bordo”, 1952, collezione Bonini. È sicuramente il quadro più emblematico del ciclo dei marinai. Demos ritrae Beuno detto “È Ner“, uno dei suoi modelli preferiti per “il profilo da pirata, la pelle scura dal sole tutto l’anno e il cuore sensibile e generoso”: così lo ricorda Demos Bonini.

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Demos, “Monumento n. 2”, 1976, collezione Cardellini. Demos in sole due opere innalza la giacca su due basamenti antichi presenti nelle due principali piazze di Rimini: quello seicentesco della statua di papa Paolo V (il monumento n. 2 appunto) e poi il Monumento n.1, basamento cinquecentesco che ricorda il discorso di Giulio Cesare. La giacca calzata sull’umile spalliera in legno è divenuta addirittura monumento, opera memorabile da venerare.

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Demos, “Giacca e gabbiano”, 1970, collezione Bonini. Demos da tutti oggi è ricordato come “il pittore delle giacche”, stile a inconfondibile per mezzo secolo di attività. La giacca, soggetto inconsueto consunto dalla quotidianità, racconta la solitudine e lo smarrimento dell’uomo di cui rimane solo una traccia di presenza.

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Demos, “Marinai che scaricano il pesce”, 1977, collezione Bonini. Il colore rosso è la traccia cromatica più evidente lasciata nell’opera di Demos dopo il periodo di studio a Roma dal pittore Guttuso.

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Demos, “La cernita”, 1951. Raccolta d’arte moderna della Provincia Forlì-Cesena. Gli sguardi bassi e un silenzio assordante accompagnano il gesto lento dal cernita dei pesce dei due pescatori.

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Demos, “Autoritratto”. Il pittore riminese non ha mai prodotto molti autoritratti, anzi sono una rarità negli oltre 1000 quadri dipinti. Per questo si è scelto nel manifesto delle sue recenti mostre in Romagna un’opera rara della sua effigie.