Che cosa mangiò Gesù nell’ultima cena? Sono molte le “grandi firme” della ricerca e della divulgazione chiamate a raccolta lunedì 13 maggio presso il CNR di Roma, nel cinquecentenario della morte di Leonardo (Amboise, 1519) per discutere su Leonardo da Vinci. Lunga vita all’Ultima Cena e sul restauro ‘ambientale’ intrapreso dalla Direzione del Polo Museale della Lombardia presso l’ex-Refettorio di Santa Maria delle Grazie dove è custodito quel capolavoro di Leonardo (1495-1498). La mia attenzione si è soffermata in particolare su una brava giornalista che mi fu “compagna di banco” all’Europeo, Lauretta Colonnelli, intervenuta dopo Massimo Inguscio (Cnr), Emanuela Daffra (polo museale Lombardia), Chiara Rostagno (Mibac), Ezio Bolzacchini (Università Milano-Bicocca) e Luciano Milanesi (Itb-Cnr).

Lauretta ha puntato a sciogliere quell’interrogativo di natura alimentare, appunto sulla tavola e sul menù di Gesù nell’Ultima Cena. E ha sintetizzato per i naviganti di Giannella Channel i risultati della ricerca, confluiti (per chi volesse approfondire il tema) in un interessante libro, corredato da numerose ricette e curiosità, che ho ripreso in mano per questa occasione: La tavola di Dio (Clichy). (s.g.)

La tavola di Dio, Edizione illustrata di Lauretta Colonnelli (Clichy, 2015).

Ventuno piatti, tre vassoi, tredici bicchieri, tre bottiglie, una saliera, pesci, pane, melagrane, arance. Disposti sopra una tovaglia bianca tessuta a piccoli rombi, il cui disegno si otteneva usando due fili diversi per l’ordito e la trama: lino e cotone, oppure canapa e lana. Le diverse tonalità del bianco dei fili davano risalto al disegno. È apparecchiata così la tavola del Cenacolo di Leonardo, nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano. Probabilmente Leonardo prese a modello la mensa dei frati, che desinavano su due tavoli disposti lungo le pareti laterali al dipinto, e avevano così l’impressione di consumare i propri pasti insieme a Gesù e ai suoi apostoli.

La tovaglia è appena stata tirata fuori dalla credenza, con le pieghe ancora fresche di stiratura. Si stiravano i tessuti dal tempo degli antichi egizi, con lisciatoi in vetro o pietra, specie di pestelli a base piatta. All’epoca di Leonardo, grazie alla moda che imponeva abiti di stoffe pesanti come damaschi, velluti e rasi, apparve il ferro a caldo: un fornello sagomato come gli attuali ferri elettrici, ma riempito di braci ardenti o di sabbia bollente, con il manico in legno per isolare il calore. Insieme ai piccoli ferri in ghisa, che si scaldavano direttamente sul focolare, questi ferri a carbone sono stati usati nelle campagne fino agli Sessanta del Novecento.

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Un particolare del Cenacolo di Leonardo da Vinci in cui si vedono le anguille.

Mancano le posate. Mancano in tutte le ultime cene dipinte dai primi secoli dopo Cristo fino al Novecento. A parte i coltelli, sempre numerosi e appuntiti, perché servivano per infilzare la carne e portarla alla bocca. Le forchette da tavola, in uso a Bisanzio già dall’anno Mille, erano considerate dalla chiesa romana strumento del diavolo, a causa dello scisma con gli ortodossi. Leonardo abolisce anche i coltelli. Soltanto Pietro ne impugna uno, in riferimento all’episodio che avvenne dopo la cena, al momento dell’arresto di Gesù, quando Pietro tagliò l’orecchio destro al servo del sommo sacerdote.

Quale cibo fu servito su questa tavola? Gli storici hanno sempre parlato di pesci. Ma nel 2008 uno studioso americano, John Varriano, ha riconosciuto in questi pesci le anguille alla griglia guarnite con fette di arancia. La ricerca di Varriano, realizzata sul dipinto dopo il restauro condotto tra il 1977 e il 1999 da Pinin Brambilla Barcilon e pubblicata sulla rivista «Gastronomica – The Journal of Food and Culture», nacque da una serie di ingrandimenti del dipinto e dall’analisi dei piatti più in voga nell’Italia rinascimentale. L’anguilla in agrodolce era tra questi.

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Pinin Brambilla Barcilon, la signora dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci a Milano: un restauro memorabile, durato 22 anni, che le ha meritato nel 1999 il prestigioso Premio Rotondi ai salvatori dell’arte consegnato ogni anno a Sassocorvaro, nel Montefeltro marchigiano.

Il primo a riportarne la ricetta fu un prosatore senese, identificato in tal Gentile Sermini, in una delle sue quaranta novelle apparse intorno al 1424 dove prese di mira un curato ingordo e ghiotto di anguille. Sermini consiglia di prendere l’anguilla spellata, tagliarla a pezzi e cuocerla allo spiedo, su fuoco vivo, prima di marinarla nel succo di sei melagrane e di venti arance. La melagrana, i cui semi simboleggiano le gocce di sangue della Passione, nel Cenacolo vinciano compare nel piatto davanti a Cristo. Negli altri piatti si vedono le arance a fette, accanto alle fette di anguilla, con la pelle nera intorno alla carne bianchissima.

Proprio per questa carne bianca, tenera e grassa, l’anguilla era ritenuta di gran pregio fin dall’antichità, dal IV secolo avanti Cristo, quando Archestrato di Gela ne cantò l’elogio nel suo poema Vita di delizie:

Su tutte le vivande della mensa regna sovrana e per squisitezza primeggia l’anguilla, il solo pesce per natura privo di genitali.

La presunta mancanza di genitali, che fu risolta solo nel 1912 dal biologo danese Johs Schmidt, permetteva ai religiosi del Rinascimento di mangiare anguille anche in quaresima. Perciò la pietanza evocava la ghiottoneria e la crapula di chierici e prelati. In molti libri di cucina dell’epoca appaiono ricette di torte, timballi e pasticci a base di anguille. Morirono per indigestione di anguille il re d’Inghilterra Enrico I e il papa Martino IV. Dante, nel XXIV canto del Purgatorio pone questo papa tra i golosi, mentre «purga per digiuno / l’anguille di Bolsena e la vernaccia». L’anonimo trecentesco redattore del Codice Cassinese aggiunge che oltre a bere la vernaccia Martino vi «faciebat coqui anguillas».

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* Lauretta Colonnelli, nata a Pitigliano (GR), laurea in Filosofia alla Sapienza di Roma, dove per alcuni anni ha poi insegnato Storia del Teatro; ha lavorato come programmista-regista a Radio 2; come giornalista è stata redattore all’Europeo, e dal 1996 alle pagine culturali del Corriere della Sera, dove tuttora collabora. Tra le pubblicazioni recenti: Gli irripetibili anni Sessanta a Roma (Skira 2011), Conosci Roma? (Clichy 2013), Conosci Roma? Secondo volume (Clichy 2014); Roberto Demarchi, Haiku (Allemandi & C 2014); La tavola di Dio (Clichy 2015); Cinquanta quadri. I dipinti che tutti conoscono. Davvero? (Clichy 2016). Si possono acquistare nelle librerie, sul sito di Clichy, Amazon, IBS, Hoepli, Feltrinelli. Contatto: lauretta.colonnelli@gmail.com