Giovanni Palatucci, nato a Montella (Avellino), fu l’ultimo questore di Fiume italiana. Salvò molti ebrei dai lager nazisti. Arrestato nell’autunno del 1944 dalla Gestapo tedesca per non aver applicato le “leggi razziali”, fu torturato nel carcere di Trieste, e poi deportato il 22 ottobre a Dachau, matricola numero 117826: quì morì a 37 anni, il 10 febbraio 1945. A Palatucci già dal 1952 Israele ha attribuito il titolo di “Giusto tra le Nazioni”, riconoscimento dell’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme ai non ebrei che abbiano rischiato la vita per salvare gli ebrei dalla persecuzione nazifascista (il “premiato” ha il privilegio di vedere il proprio nome aggiunto agli altri presenti nel Giardino dei Giusti a Gerusalemme). Il “Questore giusto” è lo spirito guida di Ennio Di Francesco, già commissario di Polizia, promotore del Movimento democratico della riforma di polizia (la legge fu emanata nell’aprile 1981). Ha scritto l’attualissimo “Un Commissario scomodo” e “Frammenti di utopia”.
Quando si è imbattuto per la prima volta in Palatucci?
Un giorno del ’93, grazie al libro “A Dachau per amore” di Goffredo Raimo, portatomi da Aurelio Massimi, compianto amico delle battaglie per la democratizzazione della Polizia. Quel mattino i giornali riportavano l’uccisione di un agente a Torino. Ero pieno di sconforto, senso di sconfitta e di inutilità, da quando avevo dovuto lasciare la polizia: forse per aver toccato delicati santuari in alcune indagini, o per aver denunciato una anacronistica gestione di polizia. L’ostilità dell’amministrazione era stata spietata. Ero crollato. Con la morte nel cuore avevo lasciato il lavoro che amavo. Quei sentimenti svanirono nell’innamoramento per il collega che emergeva dal libro come un gigante. Che lezione di professione e di vita! Mai rinunciare, pur nelle condizioni più difficili, al senso profondo del proprio lavoro al servizio degli altri; dare la vita per ciò. Dovevo tentare di rientrare in polizia, far conoscere l’insegnamento di questo collega e maestro.
Che tipo di persona era?
Ho ripercorso le tappe della sua breve esistenza: l’infanzia a Montella, il servizio militare a Moncalieri, gli studi universitari a Torino, l’itinerario in polizia da Roma a Genova, a Fiume, il calvario a Trieste e Dachau. Passai mesi presso l’Archivio di Stato e biblioteche, contattai parenti, storici, rintracciai persone da lui salvate, sono andato a Fiume con una testimone ebrea, Maddalena Werczler, da lui aiutata con la famiglia, infine a Dachau. Più lo conoscevo, più ero affascinato dalla statura di questo collega: gusto del bello, fierezza della sua professione come servizio, preparazione giuridica, amore del prossimo, religiosità della vita.
Perché Palatucci era un eroe per lei?
Io lo chiamo “Giusto”. Così lo descive un suo amico ebreo, avvocato e scrittore, Paolo Santarcangeli, da lui salvato: “Palatucci era solo un piccolo commissario di polizia. Non aveva la vocazione dell’eroe: ma era un uomo pietoso. Furono i tempi a farne un eroe. Era minuto, curato nella persona, salute cagionevole. Amava la vita, gli scherzi, le nostre ragazze. Era patriota, ma le intemperanze dei fascisti gli davano fastidio e riteneva un’onta personale il razzismo”.
Ricorda momenti toccanti?
Piansi quando nel faldone d’archivio ho letto i fogli dei suoi rapporti scritti poco prima di essere arrestato, al capo della Polizia Cerruti. Ho pianto alle frasi come “in materia di dirittura morale io rispondo alla mia coscienza che è il più severo dei giudici”; “ci vogliono far credere che il cuore è solo un muscolo”; “vi raccomando il benessere materiale e morale del personale, che in qualche caso non riesce a sedare neppure gli stimoli della fame”. Quanti dirigenti di polizia, sindacalisti di ieri e di oggi, dovrebbero fare un esame di coscienza! A Dachau ho pregato nella baracca dove morì, poi ho consegnato alla direttrice del museo un ritratto fatto da un pittore irpino con scritto: “Giovanni Palatucci, funzionario della polizia italiana, qui deportato e morto per avere aiutato e salvato ebrei e perseguitati dalla follia nazista”.
Qual è la forza di Palatucci?
L’universalità del suo messaggio: un funzionario dello Stato deve trovare sempre, nella propria coscienza e nel rispetto dei diritti dell’uomo, i limiti per bloccare leggi ingiuste, violente e razziste. A costo della vita.
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