Doveva fare l’archeologo e per questo da Milano, dopo severi studi a Pavia, era calato a Roma. Ma si fermò al primo scavo, a Carsoli, sulla strada per l’Abruzzo, e al primo saggio, “La tomba sotto il melo”. Attraverso Elena Croce, figlia del filosofo, entrò presto in contatto, all’inizio del decennio ’50, col gruppo del settimanale “Il Mondo”. Esordì con un veemente articolo sull’apertura della spettrale, piacentiniana Via della Conciliazione nata sulle macerie della Spina di Borgo. Diventò, in nome dell’interesse generale, il più documentato, coerente, coraggioso polemista sulle questioni dei beni culturali e del paesaggio. “In realtà un grande urbanista, il suo progetto di parco dai Fori ai Castelli è stato una delle idee-forza per Roma”, ha sottolineato più volte Vezio De Lucia che l’urbanista lo fa di mestiere da tanti anni.

Antonio Cederna

Antonio Cederna (Milano, 27 ottobre 1921 – Ponte in Valtellina, 27 agosto 1996), un italiano scomodo.
I suoi scritti e le sue immagini sono conservati nell’Archivio Cederna che ha sede nel sito archeologico di Capo di Bove 222, lungo la via Appia, a Roma.
Tel. 06.7806686, mail: ssba-rm.archiviocederna@beniculturali.it; web: archiviocederna.it

Sto parlando di Antonio Cederna, nato a Milano da famiglia di origini valtellinesi e di ascendenze garibaldine, nel 1921 e scomparso, troppo presto per tutti noi, nell’agosto del 1996. Fratello minore di Camilla, una delle grandi firme del giornalismo del Novecento, anche lei impegnata civilmente senza risparmio.

Antonio – che leggevo settimanalmente sul “Mondo” di Pannunzio ai tempi del liceo a Ferrara – lo conobbi a Milano in casa di Camilla nel 1958, divenimmo amici, ma ci frequentammo quasi quotidianamente dopo che io scesi a Roma nel ’74 e intensificai, alla sua scuola, i miei interessi per l’urbanistica. Avevamo tutti nel nostro bagaglio i libri che aveva già pubblicato raccogliendo i cento e cento articoli dedicati sul “Mondo” ai “Gangster dell’Appia” e alla “Città Eternit”. Negli anni ’60 si era costituita una sorta di compagnia di giro, molto ridotta (non è mai esistita una “età dell’oro” per la tutela del Belpaese), capeggiata indiscutibilmente da lui e formata da Mario Fazio (“La Stampa”), da Salvatore Rea (“L’Europeo”), da Alfonso Testa (“Paese Sera”), da Vito Raponi (“Avanti!”) e da me (“Il Giorno” e poi “Messaggero”). Antonio aveva partecipato alla fondazione di Italia Nostra senza peraltro figurare (“Ero timido”, ridacchiava) fra coloro che avevano firmato dal notaio, in testa Umberto Zanotti Bianco primo presidente, seguito poi da Giorgio Bassani. Lui non accettò mai di andare oltre la presidenza della sezione romana e il consiglio nazionale. Ma era una delle guide intellettuali dell’associazione, man mano che maturavano discorsi strategici.

Anzitutto la tutela dei centri storici ancora minacciati, allora, da devastanti sventramenti: fu un manifesto di intellettuali, fra i quali lui, a bloccare nei primi anni ’50 lo spaventoso sbrego da piazza del Popolo a piazza di Spagna. Cederna andò oltre concorrendo a elaborare con urbanisti che si chiamavano Gioanni Astengo, Leonardo Benevolo, Vittoria Calzolari e altri una strategia che ricomprendeva nella tutela attiva l’intero patrimonio entro le mura, senza più distinzioni fra monumenti e architettura “minore”, senza inserimenti “moderni”, guardando invece al “contesto”. Da qui scaturì la Carta di Gubbio del restauro e poi, più avanti, il piano di recupero del centro storico di Bologna (sindaco Fanti, assessore Cervellati) che ebbe in Antonio un autentico paladino. Lo ricordo sui cantieri di San Leonardo, il primo quartiere restaurato, chiedere dati, cifre, riscontri.

Ma non meno importante considerava il rapporto fra la rete dei centri storici e il paesaggio, naturale, agrario, antropizzato. Da qui uno dei suoi libri più belli, “La distruzione della natura in Italia” uscito da Einaudi nel 1975. Andavamo insieme in vacanza nell’ancora intatto Cilento, a Punta Licosa, fra campagna e mare, per paesi sperduti nella montagna cilentana, a Perdifumo dove le donne intrecciavano ancora grandi cesti di vimini e greggi di capre invadevano l’abitato. Oppure a Paestum dove l’abusivismo assediava, nonostante tre ordini di vincoli, l’area dei templi. E lui ne ricavava articoli di grande forza polemica. E proseguiva nella vacanza a Ponte in Valtellina scrivendo a difesa del Parco Nazionale dello Stelvio.

Partecipò a tante battaglie, alcune vinte e altre perse.

Era stato consigliere comunale a Roma nel ’59 battendosi invano contro il “mostro” dell’Hotel Hilton a Monte Mario. Fu deputato per una legislatura nella Sinistra Indipendente e risultò decisivo con Gianluigi Ceruti per la legge sui Parchi (entrambi furono premiati con l’Airone d’oro, istituito dal mensile di natura e civiltà). Ma non lo ricandidarono. Troppo scomodo. Fu di nuovo consigliere comunale a Roma e vinse la battaglia per il nuovo Auditorium al Flaminio, dove poi è sorto. Fu il primo presidente del Parco regionale dell’Appia.

Era un uomo pieno di interessi e anche di estri. Conosceva a memoria “I promessi sposi”, Carlo Porta, certi passi di Cattaneo, e l’“Amleto” che recitava in inglese. Ma amava pure lo sport, il calcio in specie, ricordando il Peppìn Meazza che all’Arena di Milano s’involava come un angelo verso la porta avversaria.

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Vittorio Emiliani (Predappio, 1935), giornalista e scrittore, presiede il Comitato per la Bellezza. La sua ultima pubblicazione, Romagnoli & Romagnolacci, cento e più ritratti di personaggi della Romagna dell’altro ieri, di ieri e di oggi (Minerva Edizioni) segue quelle di Cronache di piombo e di passione. L’altro «Messaggero». Un giornale laico sulle rive del Tevere (1974-1987) (Donzelli, 2013) e di Belpaese Malpaese. Dai taccuini di un cronista 1959-2012 (Bononia University Press).

A PROPOSITO

Dopo il tempo dei guastatori, favoriamo quello dei riparatori

"Un'Italia da salvare", di Salvatore Giannella e Paolo Ojetti, Ed. Atlas, Bergamo, 1979

“Un’Italia da salvare”, di Salvatore Giannella e Paolo Ojetti, Ed. Atlas, Bergamo, 1979

Abbiamo lasciato che quattro quinti dei nostri boschi si degradassero. Non abbiamo saputo attuare una politica sistematica di rimboschimento: riusciamo a rimboschire solo la metà delle aree che ogni anno vanno a fuoco, rimboschiamo cioè appena 20 mila ettari l’anno, mentre in Francia e in Spagna arrivano a 60 mila. Abbiamo tollerato l’impunita escavazione dei fiumi per estrazione di ghiaia, rendendo sempre più rovinoso il corso delle acque. Abbiamo intensamente ‘bonificato’ in zone umide e paludose che sono la naturale valvola di sfogo delle piene. Abbiamo lasciato costruire case e industrie nelle aree golenali. Abbiamo costruito strade e altri manufatti in zone di equilibrio instabile, sconvolgendo le pendici e il regime idrico. Abbiamo trascurato l’adeguamento delle fogne alla sgangherata espansione edilizia…Abbiamo inciso, sventrato, perforato, asportato, occluso, manomesso per ogni verso l’ambiente naturale e il territorio senza preoccuparci di conoscerlo. Non meravigliamoci se il Paese ha risposto sfasciandosi”

(Antonio Cederna in “Un’Italia da salvare” di Salvatore Giannella e Paolo Ojetti, Edizioni Atlas, Bergamo, 1979)

“Riparare il mondo”, scriveva Alex Langer… Oggi che il nostro modello di sviluppo appare infartuato, e si parla di crisi di sistema, le persone come Langer (e come Antonio Cederna, Laura Conti, Aurelio Peccei, fondatori dell’ambientalismo italiano) ci sembrano davvero profeti inascoltati. Se prima qualcuno poteva illudersi che per creare posti di lavoro si dovessero ferire terra, acqua e aria, e sperperare paesaggio, oggi ci accorgiamo che rovina ambientale e caduta dell’occupazione sono, in un paese come il nostro, facce della stessa medaglia. E che “riparare il mondo”, come chiedeva Langer, qui in Italia non è solo una missione culturale e politica; è anche, se non soprattutto, una gigantesca occasione di nuovo lavoro, nuova economia, nuovo e diverso sviluppo. Come tantissimi italiani non so ancora per chi votare, quando sarà il momento. Ma cercherò di votare per chi, più degli altri, si avvicina al concetto di “riparare il mondo”. Bloccando la cementificazione folle e sterile, la corsa stupida alla “crescita”, e dunque crescendo davvero. (Fonte: Michele Serra, la Repubblica, 12/9/2012).

Post scriptum: mentre pubblico questa rubrica, ricevo l’Agenda ambientalista per la ri/conversione del Paese, curata dalle principali associazioni italiane del settore (Club Alpino, Fondo Ambiente Italiano, Greenpeace, Legambiente, Touring Club Italiano, Wwf). Il programma è visibile a questo link.