Se vuoi essere universale parla del tuo villaggio.

Piace pensare che siano queste parole di Lev Tolstoi ad aver spinto l’autore, lo storico Pietro di Biase quando ha concepito il progetto editoriale di questo libro: descrivere il proprio “villaggio”, l’odierna Trinitapoli, una città amena nel Tavoliere che trasuda storia, arte, cultura e splendidi paesaggi (nella foto d’apertura, di Peppino Beltotto: la Casa di Ramsar, centro di educazione ambientale a Trinitapoli, con i fenicotteri nelle saline) in ogni suo angolo e che parla ai cittadini del mondo di una Puglia che per due anni, 2019 e 2020, è stata onorata dai cronisti del National Geographic, Lonely Planet e New York Times come “la regione più bella del mondo”.

Pietro di Biase (Trinitapoli, 1946) nella biblioteca intitolata a monsignor Vincenzo Morra

Lo storico Pietro Di Biase (Trinitapoli, 1946) nel suo ambiente preferito: la biblioteca intitolata a monsignor Vincenzo Morra. Si è laureato in Lettere a Bari e in Storia a Bologna. Si interessa di istituzioni ecclesiastiche in età moderna. Già vicepresidente della Società di Storia Patria per la Puglia, per i suoi studi è stato insignito dell’onorificenza di
Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica.

La copertina del libro di Pietro di Biase

La copertina del libro di Pietro di Biase, 320 pagine, prezzo 25 euro. Acquistabile presso le librerie Loreto e De Benedittis a Trinitapoli.

L’idea è nata dagli incontri, organizzati dall’Archeoclub di Trinitapoli e tenuti nella rinnovata biblioteca comunale, dal titolo Pagine della nostra storia, durante i quali il professor Di Biase raccontava pagine e protagonisti della storia locale in una modalità nuova, “da racconto intorno al braciere” teso a cercare l’universalità della nostra comunità e forse anche un po’ di tutti noi. Da quelle piacevoli serate è nato l’invito a mettere per iscritto quei racconti, al fine di soddisfare la curiosità di saperne di più, il piacere di conoscere il passato, in certi momenti anche glorioso del proprio paese, e soprattutto piantare il seme della memoria nel terreno delle nuove generazioni sempre più avvitate in un presente che non può avere senso senza la conoscenza del passato.

Per certi versi, questo libro è un compendio della ricerca storica che ha occupato buona parte della intensa vita dell’autore, … una narrazione della storia in termini divulgativi, atta a soddisfare la richiesta di una maggiore diffusione della cultura storica presso il grande pubblico, per dirla con le sue parole. Si inserisce a buon diritto nel filone della Public History, una nuova forma di storiografia che si va diffondendo e che sposta l’interesse dagli “addetti ai lavori” a un pubblico più ampio e che necessita di un linguaggio più chiaro che “rifugge lo specialismo e il complicato formalismo accademico” (interessante lo sguardo all’ “archeologia al futuro” dato nella presentazione da Giuliano Volpe, docente di archeologia dell’Università di Bari e presidente emerito del Consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici del ministero dei Beni culturali).

Giuliano Volpe, docente di archeologia all’Università di Bari e presidente emerito del Consiglio superiore “Beni culturali e paesaggistici” presso il ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. A sinistra, Don Antonio Loffredo.

Giuliano Volpe (Terlizzi, 1958: a destra), docente di archeologia all’Università di Bari e presidente emerito del Consiglio superiore “Beni culturali e paesaggistici” presso il ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Qui è ripreso con Don Antonio Loffredo, parroco del rione Sanità a Napoli, vincitore del Premio Rotondi 2017 per il recupero e la valorizzazione delle Catacombe del capoluogo campano. Volpe, autore del libro Un patrimonio italiano (UTET), ha appena concluso un appassionante diario di viaggio in dieci siti archeologici pugliesi.

Storia e storie sulle rive della laguna: nel titolo il libro dice tutto sulla struttura del testo che si compone di due parti: nella prima parte la vicenda storica del paese, dalle origini fino ai nostri giorni, la storia plurisecolare di Salapia-Salpi, la “Venezia dei Dauni” (che sta riportando alla luce una squadra archeologica internazionale, promossa dall’Università di Foggia e dalla canadese McGill University di Montreal) con il suo modello sociale ed economico, l’insediamento del Casale della Trinità, le dominazioni che si sono succedute, dai della Marra ai Cavalieri di Malta e il singolare fenomeno della transumanza: lo stesso Benedetto Croce ricorda che i figli di un suo avo, Angelo, nel 1720 conducevano alla locazione della Trinità 1.500 pecore. Nella storia socio-economica del territorio si inserisce la storia religiosa del borgo e lo stretto legame con la diocesi salpense, il cui titolare è stato Manuel Eguiguren Galarraga, vescovo di Trinidad in Bolivia (belle le pagine della visita fatta in Puglia da quel lontano vescovo nel 1992).

I protagonisti della campagna di scavi nel territorio dell’antica Salapia

Nella foto di gruppo i protagonisti della recente campagna di scavi nel territorio dell’antica Salapia.
Le ricerche sono condotte con la guida di Roberto Goffredo e Darian Totten.

In questa prima parte trovano spazio anche brevi biografie di personaggi a cui il Casale ha dato i natali e che hanno illuminato la sua storia per la loro opera e gli studi che hanno travalicato il piccolo territorio del paese. Miti a parte (come quello della donna salapina, Iride, che ebbe una relazione con Annibale durante il soggiorno di quest’ultimo al tempo della battaglia di Canne: torneremo su questa figura citata da Plinio e da Petrarca), si parla di Pasquale Valerio, medico e patriota impegnato nel contrasto all’epidemia di colera nella seconda metà dell’Ottocento; di Giuseppe Tammeo, docente di Statistica nell’università di Napoli; dell’economista e meridionalista Scipione Staffa, autore di importanti studi di economia e finanza che rivelano un pensiero moderno e un’idea di giustizia sociale ed economica (l’idea di un “socialismo temperato e razionale”) che gli valsero la considerazione di studiosi di tutta Italia e importanti riconoscimenti. Michele Mauro, che con una sua pubblicazione del 1879 ha offerto una panoramica sulla vita quotidiana della comunità cittadina in tutti i suoi aspetti. Il medico Antonio Labranca, considerato uno dei maggiori esperti italiani nella lotta alla malaria, assurto ai vertici della sanità italiana (vedi testo a seguire).

La vicenda dei profughi di San Nazario accolti dal Veneto a Trinitapoli nella Prima guerra mondiale (con i bambini delle elementari istruiti da un mio antenato, il maestro Salvatore Giannella) e l’epidemia di malaria a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento concludono questa parte storica del libro di Pietro di Biase.

Se conoscere la storia di un territorio è importante per capire l’identità del luogo e della comunità che lo abita, ancora più significative sono le storie che nel tempo su quel territorio si sono depositate rendendo ancora seducente quel territorio tra le saline e Castel del Monte (la Puglia Imperiale che stupì l’imperatore naturalista Federico II). Riportare alla luce storie ed episodi accaduti nel tempo e renderli più interessanti ammantandoli di una luce fantastica è stato l’intento dell’autore. È così per la storia della Signora delle Ambre, una nobildonna vissuta nella città degli ipogei a ridosso delle Saline nel secondo millennio a.C., il cui corredo di gioielli della preziosa resina è ammirato nel museo degli ipogei. Pietro di Biase ne scrisse una possibile vita, trasformando il simbolo del popolo vissuto in queste viscere della terra in una ragazza reale con un fascino senza tempo.

Seguono altri episodi di vita comunitaria che si insinuano nella storia descritta nella prima parte, rendendola più “leggera” e più vicina al comune sentire. Come le pagine riservate ad alcuni cittadini il cui ricordo è ancora vivo nella popolazione più avanti con gli anni: come lo scultore Antonio Di Pillo, abruzzese di nascita, che dopo una parentesi romana, si stabilisce definitivamente a Trinitapoli, preferendo alla dispersione della grande città la quiete più raccolta del borgo nella campagna pugliese, al quale regala tra l’altro il magnifico portone di bronzo con i pannelli che ricostruiscono la vita di San Giuseppe (idea voluta e sostenuta anche da un umile, grande personaggio, mastro Ciccillo Regano, falegname, titolare di una bottega che ha visto al lavoro più di una generazione dei Regano). O come la straordinaria famiglia di musicisti Lacerenza che tanto vivace hanno reso la vita culturale del paese al loro tempo. L’autore chiude con una sintesi della storia di questo territorio che è quasi un’immagine pittorica. A leggerla ci si appropria della bellezza di questo “lembo del Tavoliere di Puglia” che tanto ha da offrire agli occhi di un visitatore, ci si immerge nella sua ricca storia che tanto ha da raccontare del popolo che lo ha abitato e, alle nuove generazioni, rivela tutta la potenzialità delle sue vocazioni che, in mani attente, potrebbero diventare occasione di sviluppo sostenibile e buona qualità della vita. (mgr)

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Maria Giovanna Regano (Trinitapoli/Barletta Trani, 1956), maturità classica, esperienze varie come correttrice di bozze e autrice di testi per giornali locali. Si dedica alle sue passioni (lettura e scrittura) nello scarso tempo libero che le lascia la famiglia (un marito, tre figli e sei nipoti).

A PROPOSITO/ Un brano del libro

Antonio Labranca, una vita da medico contro le zanzare-killer (loro oggi portano il suo nome: Anopheles labranchiae) e quando Hitler le usò come arma biologica nell’Agro Pontino

Antonio Labranca era nato a Trinitapoli il 18 giugno 1876, nipote d’arte (lo zio Giovanni Labranca è stato a sua volta medico, ricercatore e docente universitario). Dopo la laurea in medicina, conseguita a Roma nel 1900, entra nel Laboratorio di Malaria del prof. Angelo Celli, dove lavora tre anni. Nel 1904 passa al Dipartimento di Sanità Pubblica, raggiungendo la posizione di vicedirettore della Sanità pubblica nazionale. Nel 1922, in qualità di medico provinciale, fa parte della Commissione incaricata di raccogliere e valutare studi italiani ed esteri sulla radioterapia e compiere esperienze cliniche sull’efficacia del trattamento.

L’iniziativa fu presa dalla Commissione per le piccole bonifiche, che chiese al prof. Grassi di di tentare l’applicazione dei raggi X ai malarici cronici di Fiumicino, cioè applicare la radioterapia alla milza per stimolare la produzione di globuli bianchi e aumentare così la resistenza dell’organismo alla malattia.

Nel 1924 viene designato membro italiano della Sottocommissione della Società delle Nazioni che, nell’ambito del “Paludismo”, istruì un’inchiesta per lo studio e la cura della malaria. Allorché la politica giunse a riconoscere il morbo come una malattia professionale, in quanto direttamente collegata allo svolgimento di talune forme di lavoro all’aria aperta, Antonio Labranca, allora ispettore della Direzione generale della Sanità pubblica, scrisse sulla Rivista di malariologia che una caratteristica fondamentale della legislazione antimalarica:

“è il riconoscimento della malaria come malattia infettiva e come malattia professionale, in quanto è connesso con il lavoro e con la dimora, per ragioni di lavoro, in regioni insalubri. Le spese occorrenti all’attuazione delle provvidenze contemplate per la cura della malaria e per la difesa da essa, sia dalla popolazione rurale, sia dagli operai adibiti ai lavori pubblici, vengono messe a carico rispettivamente dei proprietari terrieri e latifondisti da una parte, delle imprese e delle aziende pubbliche dall’altra”.

Collaborò alle principali riviste del settore italiane ed estere e, quando – dopo la Seconda guerra mondiale – fu fondato l’Istituto Superiore di Sanità, il dottor Labranca, in forza della grande esperienza e autorevolezza, diventò Direttore del settore epidemiologico.

I meriti da lui acquisiti nel campo della lotta antimalarica ottennero un particolare riconoscimento nel 1926 a opera di Domenico Falleroni, ispettore superiore medico presso la Direzione generale della Sanità Pubblica. In un suo studio il Falleroni cercò di risalire alle cause che determinavano un diverso grado di gravità della malaria in zone vicine. Si diede pertanto a studiare l’Anopheles claviger, il vettore più diffuso della malaria, arrivando a distinguerne due varietà, che presentavano differenze biologiche a partire dal tipo di uova: la prevalenza dell’una e dell’altra specie era in relazione con la forma di malaria dominante in una zona. Volendo denominare queste due sottospecie del claviger, Falleroni chiamò Anopheles messae la varietà delle uova nere, e Anopheles labranchiae l’altra delle uova grigie. Scrive: “Le ho dedicate ad Alessandro Messea, direttore generale, e ad Antonio Labranca, capo divisione della Sanità Pubblica, in omaggio alle lore benemerenze nella lotta contro la malaria in Italia”.

La zanzara-killer, arma segreta con cui il dittatore nazista Adolf Hitler voleva fermare l’avanzata degli angloamericani nell’Agro Pontino

La zanzara-killer, arma segreta con cui il dittatore nazista Adolf Hitler voleva fermare l’avanzata degli angloamericani nell’Agro Pontino.

L’Anopheles labranchiae, con l’Anopheles sacharovi, è considerata il maggior vettore della malaria nel Mediterraneo. La labranchiae, in particolare, essendo l’unica zanzara le cui larve riescono a sopravvivere sia in acque dolci che saline, sul fine della Seconda guerra mondiale è stata protagonista dell’unico episodio di “guerra biologica” verificatosi in Europa nel XX secolo. Verso la fine del 1943, infatti, i nazisti progettarono e distrussero le infrastrutture idrauliche della bonifica integrale nell’Agro Pontino, allagando la zona da Maccarese a Caserta e favorendo il ripristino delle condizioni ideali per la riproduzione dell’Anopheles labranchiae: per questo obiettivo Hitler aveva mandato nel Lazio il più famoso malariologo dell’epoca, Erich Martini. L’obiettivo era quello di provocare con le zanzare-killer un’epidemia malarica, che avrebbe rallentato l’avanzata degli Alleati sbarcati ad Anzio. La conseguenza fu invece una impennata di morti per malaria tra i civili, che passarono da 1.217 decessi nel 1943 a 54.929 nel 1944 (ma la cifra ufficiosa, più vicina alla realtà, fu di circa 100 mila casi su una popolazione di 245 mila persone). Gli angloamericani, che avevano avuto un’adeguata preventiva profilassi, uscirono indenni dall’attraversamento solo di sfuggita delle zone paludose.

Poco dopo la fine della guerra si concluse l’esistenza terrena di Antonio Labranca, che morì il 9 febbraio 1947 a Roma, città che gli ha dedicato una via, come ha fatto Trinitapoli, la sua città natale. (pdb)

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