Invito i lettori a un affascinante viaggio intorno ai riti dell’uomo, tra misteri, sacro e favola. A illuminare il Cerchio della vita nelle culture del mondo e, più in piccolo, nel mio paese dove sono nato (Trinitapoli, nel Tavoliere pugliese) ci fanno da guida le parole del famoso psichiatra, antropologo e scrittore Vittorino Andreoli, e quelle di Grazia Stella Elia, poetessa degli ulivi, una vita da buona maestra ad arricchire le menti dei suoi allievi, che i naviganti di Giannella Channel hanno conosciuto in precedenti occasioni (qui il link al libro ideato per i suoi primi 85 anni).

A Grazia tocca di illuminare le fasi centrali della vita viste nel piccolo mondo di Trinitapoli e dintorni. La combinazione tra la visione planetaria del professor Andreoli con la realtà quotidiana di un piccolo mondo antico che può appartenere simbolicamente a tutti porta a un risultato di interesse profondo. Buon viaggio anche a voi, naviganti, nel segno della eterna Madonna del parto di Piero della Francesca e di Teresa, la piccola nata una settimana fa in una piazzola dell’autostrada Parma-La Spezia (foto in apertura), frutto del parto più incredibile dell’estate 2017. (S. Gian.)

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Madonna del Parto di Piero della Francesca.


Il cerchio della vita

La nascita nelle culture del mondo

di Vittorino Andreoli – 1

Caro Salvatore,

c’è una nascita biologica e quella sociale. La prima (nei mammiferi, e quindi anche nell’uomo), avviene per lenta espulsione del feto dall’utero materno. Egli esce attraverso questa finestra sul mondo: sporge solitamente prima con la testa, poi butta fuori un braccio quasi per salutare il nuovo mondo, poi l’altro, e li muove insieme in un abbraccio. Con sempre maggiore velocità fa poi capolino il resto del corpo, fino a quelle minuscole e ridicole dita dei piedi. A questo punto un feto si chiama neonato. Mostra subito il pube per dichiararsi di genere maschile o femminile. Segue un momento di riflessione, forse di paura: lo testimonia quel cordone ombelicale che lo àncora al vecchio mondo da cui proviene. Vi passano i vasi sanguigni che portano ossigeno e nutrimento prendendoli dalla madre.

Sono affascinato da questo fragile legame, e ogni volta che assisto a una nascita biologica mi piace osservarlo. Mi ricorda una liana che potrebbe riportare quella vita ancora dentro il mistero. È nel momento in cui si rompe che propriamente nasce un individuo biologico, una nuova unità popolerà il nostro pianeta. Sono innumerevoli le modalità con cui si taglia: ora ci si serve del bisturi, ma un tempo si adoperavano i capelli della madre, o un oggetto passato attraverso le purificazioni magiche, o persino un morso. Qualche volta detesto il sapere dell’anatomia; mi impedisce di pensare a uno spirito che dentro il corpo della madre sostenga la vita che ha generato, muovendola sul teatrino di una piazza come attraverso i fili sapientemente tirati da un buon burattinaio.

Si attribuisce ai Natufiani, popolo preistorico di pastori vissuto nell’VIII millennio avanti cristo in Palestina, l’aver collegato la nascita con il rapporto sessuale: una scoperta straordinaria che ha correlato una causa a un effetto che si verifica a distanza di nove mesi. Fino a circa 10.000 anni fa, la nascita biologica era un tema per la fantasia e per la religione. Oggi, in epoca scientifica, sono scomparsi gli spiriti e non accadono più miracoli: doveva essere straordinario crederci e vederli. Nelle cronache relative al primo monachesimo cristiano del IV secolo gli eremiti, i monaci ne facevano continuamente e alcuni protestavano quando sapevano di gente che veniva da lontano e non si era fermata per il miracolo da un noto eremita di quei luoghi. Molto spesso rendevano fertili donne che non riuscivano a partorire e che per questo vivevano una condizione paradossale: quella di generatrici sterili che partoriscono il nulla. Senza spiriti, la nascita di un bambino è l’espressione di un determinismo meccanico dove tutto è atteso e banale. Non se ne occupa più nemmeno la poesia: oggi è più attraente vedere come nasce un giornale, come si fabbrica un paio di scarpe.

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Massa Carrara. Elisa Dell’Orto, 34 anni, ex ostetrica, finalmente giunta all’Ospedale delle Apuane, abbraccia Teresa, nata nella piazzola di Santo Stefano Magra sull’autostrada A15 Parma-La Spezia, sotto gli occhi commossi di papà Federico Bonni, 41 anni. Per il settimanale Oggi, “è il parto più incredibile dell’estate 2017”.

Rotto il cordone ombelicale, un neonato deve piangere, e se riesce a urlare significa che potrà diventare un gigante. Il pianto è la più sicura testimonianza che la respirazione è partita e con la respirazione la vita autonoma. Il sangue non ha più bisogno di circolare a contatto di quello della madre. Abitualmente il neonato veniva fasciato tanto da sembrare una piccola mummia. Lo si riteneva una entità vegetale che doveva solo crescere sotto l’unico controllo degli occhi della madre prima, della bilancia poi. Un oggetto che, come avrebbe detto Aristotele, possedeva l’anima vegetativa, quella animale, ma non lo spirito. È capitato anche a me: sono rimasto fasciato fino a sei mesi ed è un peccato abbia dimenticato quel periodo di incarcerazione neonatale. Eppure dentro quelle fasce c’era una piccola “psiche”, un mondo interiore che aveva bisogno di “muoversi”. Si ritiene oggi che un feto a cinque mesi e mezzo percepisca i suoni e quindi avverta già il cuore della madre che batte con i differenti ritmi di quando è tranquilla oppure è arrabbiata.

Fino alla introduzione degli antibatterici la mortalità neonatale era elevatissima. La nascita non dichiarava anche uno stato di vita, occorreva che passasse quel periodo di catastrofe che cancellava nove neonati su dieci. Questa strage non è poi lontana nel tempo: se ne conserva ancora il ricordo tra i “nostri vecchi”. All’unità d’Italia la vita media era di 33 anni ed era più sorprendente che un neonato vivesse piuttosto che morisse. Oggi le società si preoccupano delle “troppe nascite”: in realtà, e sembra un paradosso, “si muore poco”. L’esplosione demografica è in parte dovuta all’alta probabilità che oggi un neonato ha di vivere.

Insomma, la nascita biologica un tempo non era ancora vita ma una semplice premessa per un possibile esistere che avrebbe portato alla vera nascita: quella sociale. Un momento ancora più misterioso poiché sanciva l’ingresso, dentro quel corpo animale, dello spirito umano: il neonato diventato uomo. E l’uomo si caratterizza perché appartiene a un gruppo sociale. Questa rinascita è sempre stata frutto di una celebrazione magica, generata attraverso il rito. La magia non è una teoria o una concezione del mondo come per esempio la mitologia, ma è un operare, un fare. Il rito modifica la realtà e la parola magica non è metafora, ma azione. Il bene-dicere è un fare, come il male-dicere. Nelle culture magiche c’è una grande attenzione a pronunciare le parole proprio perché sono azioni. Quando riportiamo che in alcune popolazioni determinate parole sono tabù, equivale a dire che non è possibile pronunciarle e dunque provocare certe azioni.

Uno dei segni della nascita sociale è l’acquisizione del nome. Nel libro della Genesi, Dio dà un nome agli animali che ha creato: un’identificazione per distinguere l’uno dall’altro, per passare da un indistinto a un individuo. Il nome ha un significato magico poiché il nome è la persona. Il battesimo cristiano è un rito di rinascita e consiste in una esorcizzazione per decontaminare dal demonio il corpo e successivamente in una invocazione perché entri l’anima che dona la specifica caratteristica umana. Solo nel momento del rito avviene la nascita che corrisponde, nella tradizione della Genesi biblica, al gesto con cui il Creatore ha soffiato sulla sua statua di creta. Spirito vuol dire “vento”, “respiro”, e nella sua etimologia richiama una realtà invisibile ma non immateriale. È quel soffio a pervadere il corpo e ad animarlo. Nella concezione primitiva manca l’idea di una essenza platonica, non esiste la distinzione tra materiale e immateriale, ma tra visibile e invisibile, e ciò che accade nel rito magico è invisibile ma concreto. Il rito della nascita è dunque l’insieme di una purificazione e di un invasamento: esce il male ed entra lo spirito del bene; esce la morte ed entra la vita. Quest’ultimo effetto è efficacemente espresso dalla parola amore che deriva, per combinazione e contrazione, da a-morte e, dunque, come indica quella a privativa, come privazione della morte. Ecco perché la nascita è metafora dell’amore.

Alla purificazione segue l’offerta, e il bambino viene levato al cielo: un dono agli dei. È un gesto presente in molti riti della nascita sociale, in particolare in quelli che si inseriscono nella tradizione ebraico-cristiana dove domina, esemplare, la figura di Abramo che dona a Dio il proprio figlio Isacco; prende un coltello, tiene il piccolo per mano e s’incammina su per il monte per il sacrificio che Dio gli ha richiesto. Le offerte venivano di solito bruciate, diventavano fumo, e così salivano al cielo. Il gesto di portare il bambino in alto sta a indicare questo “salire” nel luogo degli dei. Persino nel popolo antico meno devoto, nella Roma latina, Levania – attributo della dea Giunone – proteggeva la nascita, e a questo gesto di “levare” si associa sia il termine “allevare” sia quello di “levatrice” con cui viene indicata l’ostetrica.

Il rito con cui inizia la storia di ciascuno è intimamente legato nel suo significato originario, in gran parte divenuto inconsapevole, alla cultura degli spiriti come cause della vita e dei comportamenti umani. Se gli spiriti del male ritornano a impossessarsi del corpo, occorre ripetere quell’iniziale esorcismo e poi di nuovo invocare la possessione dello spirito buono. A cui non si collegano solo celebrazioni religiose come la confessione-comunione (con la prima esce il demonio, con la seconda entra lo spirito del Signore) ma anche pratiche mediche che non hanno soltanto dominato il passato ma persistono tuttora. Il salasso, i purganti, gli espettoranti, gli emetici sono mezzi che fanno uscire dal corpo sostanze tossiche: gli umori cattivi di Ippocrate o, appunto, gli spiriti del male. La medicina è stata per molto tempo una pratica magico-religiosa e in molte popolazioni “primitive” dell’Africa lo sciamano è ancora un medico-mago-sacerdote, il quale ottiene i poteri da speciali divinità. La malattia è dunque una contaminazione. Nei periodi storici delle “grandi paure” come le pesti, le invasioni, le epidemie o le ecatombi, le malattie diventavano ossessioni collettive.
Il periodo che intercorre tra la nascita biologica e quella sociale varia da cultura a cultura, non solo per la durata ma anche per la condizione in cui sono obbligati neonato e madre: un binomio necessario in tutte quelle società che hanno preceduto l’alimentazione artificiale.

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Scultura dei Dogon (Mali) dedicate alla maternità.

Nel villaggio Dogon, nella zona di Bandjagara (Mali) in cui ho vissuto, una donna che riconoscesse di essere vicina al parto abbandonava la propria capanna e si portava nella “capanna delle donne”. Di forma rotonda, la casa era dotata di una piccola apertura di accesso; per il resto, se si eccettua una ancor più piccola finestra, era ermeticamente chiusa. Qui partoriva aiutata dalle donne che lì si trovavano, o anch’esse per un parto o perché mestruate. Usciva da questo “rifugio” soltanto quando cessava la lochiazione, la perdita di sangue attraverso il canale vaginale: in genere dopo 40 giorni. Per il periodo mestruale la permanenza era di 4-5 giorni. Le donne ricevevano il cibo attraverso quella finestrina. La casa costituiva il luogo dove nascondere cautelativamente le persone che non erano in grado di partecipare alla vita sociale. Attraverso la vagina fuoriescono germi che dunque inquinano persone e cose, e naturalmente il neonato che, “sporco”, non poteva essere accudito nella comunità.

La casa delle donne fa affiorare alla mente l’immagine dei santuari del parto trovati in Asia minore e in funzione già nel 6.000 avanti Cristo (sotto questo aspetto presenta grande interesse il santuario di Catal Huyuk, nell’Anatolia centrale, dove fu trovata la maestosa Dea Madre sul trono, fiancheggiata da due felini, che sta partorendo). Questo ricordo legato alla mia esperienza in Africa sottolinea anche quanto fosse importante la presenza degli spiriti nella dinamica sociale e rivela che cosa rappresenta concretamente la purificazione. Immergersi nell’acqua è un’operazione tutt’altro che simbolica e quindi lontana dalla percezione che ne ha l’homo civilis. Questo scenario africano non è poi così paradossale se lo si confronta con il periodo di “quarantena” in cui nella cultura cristiana erano obbligati madre e neonato prima di poter accedere al tempio: il neonato riceveva il battesimo e contemporaneamente la puerpera era purificata all’altare della Madonna. Tra i Dogon, se il neonato muore prima del rito purificatore, non ha diritto alla celebrazione funebre, proprio perché è come non fosse mai nato, ed è curioso che in certe tradizioni religiose, compresa quella cattolica, siano stati previsti luoghi post mortem speciali per questi casi, come il limbo. Nello stesso villaggio la celebrazione per la morte del capo durò due mesi, a indicare una progressione che lega l’espressione esistenziale alla sua dimensione sociale. Il dato biologico è un avvenimento banale che appartiene alla natura, mentre la vita sociale è patrimonio della comunità, e cioè della tradizione che rappresenta in gran parte la cultura.

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* Vittorino Andreoli (Verona, 19 aprile 1940), psichiatra e scrittore. È autore di libri che spaziano dalla medicina, alla letteratura, alla poesia, e collabora con la rivista Mente e Cervello e con il quotidiano Avvenire. Per l’emittente Sat 2000 ha realizzato alcune serie di programmi, della durata di circa 30 minuti, dedicati agli adolescenti (Adolescente TVB), alle persone anziane (W i nonni) e alla famiglia (Una sfida chiamata famiglia).

Il cerchio della vita

La nascita nel Tavoliere pugliese

di Grazia Stella Elia – 1

Caro Salvatore,

nei giorni tristi in cui accompagno nell’ultimo viaggio terreno una giovane cara a me e a tutta la comunità* ti racconterò la nascita (come la si attendeva e come avveniva) nel nostro comune luogo natio e nel Tavoliere fino alla prima metà dello scorso secolo. La nascita, intesa come garanzia di continuità, era considerata essenziale e necessaria per una coppia unitasi in matrimonio. Una sposa che non riusciva a essere incinta entro un certo lasso di tempo, presa da ansiosa preoccupazione, si recava in qualche santuario a invocare la fertilità, oltre a implorare, con fervide preghiere, l’intervento di Sant’Anna. Una volta sicura della propria gravidanza, comunicava la felice notizia alla suocera che, con orgoglio, la comunicava all’intera famiglia.

L’auspicio era che in quel grembo materno crescesse un maschietto piuttosto che una femminuccia, perché questa comportava grossi problemi economici in quanto bisognava ben presto cominciare a preparare il corredo e, possibilmente, anche la dote. Un maschietto, al contrario, poteva essere ben presto inserito nel lavoro dei campi o di artigianato e contribuire al bilancio familiare. Emblematico era il gesto del papà che, alla nascita di un maschietto, specialmente primogenito, esprimeva la propria euforia sparando colpi di pistola o di fucile a salve e ponendo tra le manine dell’ignaro neonato, per buon augurio, il proprio portafoglio.

Compiutosi il tempo della gestazione, la nascita avveniva in casa con l’aiuto della levatrice (la vammöre), della mamma e della suocera e persino di alcune donne del vicinato. Molto espressivo è l’adagio che recita:

Lasse u fùeche ardénde e ajóute la parturénde

(lascia il fuoco ardente e aiuta la partoriente)

Poteva accadere che il parto si presentasse difficile e problematico. In quella drammatica circostanza una delle donne presenti correva a cercare il sagrestano della chiesa di Sant’Anna e lo pregava di far suonare la campana per l’Ave Maria della figliata. All’udire quei dolci rintocchi tutte le famiglie del paese si mettevano in ginocchio a pregare, affinché la Madre del Cielo e Sant’Anna aiutassero la partoriente a dare alla luce la propria creatura.

Poesia d’una tradizione

Dolce poesia d’una gentile

tradizione del mio paese…

Una donna urlava

per le doglie del parto?

Un’altra dal sagrestano

correva a implorare

che suonasse la campana

per l’Ave Maria della figliata.

A quel suono dolcissimo

in tutte le case in ginocchio

si pregava: Ave Maria!

E la partoriente,

che sapeva e sentiva,

con più coraggio

verso la luce spingeva

la creatura del suo grembo.

Ave Maria! Ed era festa

e nasceva l’allegria.

(dal volume Nostalgia di mare, Ed. Apulia, Foggia, 1985, pag. 65)

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L’urlo della vita. Scrive Andreoli: “Rotto il cordone ombelicale, il neonato deve piangere, e se riesce a urlare significa che potrà diventare un gigante”.

Lavata e profumata, la nuova creatura veniva portata dalla levatrice vicino ai presenti per un bacio. Secondo una credenza (ben consolidata anche nel folclore europeo) sono fortunati i bimbi che nascono con la camicia, cioè avvolti nella placenta, che in Germania chiamano “cuffia della felicità”.

Per comunicare il lieto evento a parenti e amici si ricorreva a una donna piuttosto anziana, alla quale si affidava il compito di recarsi dalle varie famiglie, con un elenco, a portare, come si diceva allora, l’allégre (l’allegra notizia). Fatto l’annuncio, ella chiedeva di apporre, sul foglio che portava, una piccola croce accanto al cognome di quella famiglia.

Il neonato, fasciato come una mummia, veniva cambiato due volte al giorno e rimaneva in quella sorta di gabbia per molti mesi, fino a quando giungeva il tempo giusto per cominciare a reggersi in piedi e muoversi con le dande e dentro il girello.

Regole fisse andavano osservate nell’imporre il nome al neonato che, se primogenito, doveva chiamarsi come il nonno paterno (com’è accaduto nel tuo caso, che porti nel nome tracce del ricordo di tuo nonno, il mugnaio Salvatore: o come la nonna paterna se femminuccia). Agli altri figli si davano i nomi degli zii o di Santi particolarmente venerati. Molto diffusi erano i nomi dei Santi Patroni (Stefano e Loreta per il nostro paese) e Anna, per devozione alla Santa protettrice delle partorienti.

Ecco una curiosità attinta dal Frazer: quando una donna era incinta, all’approssimarsi del parto vedeva in sogno un antenato o un parente, il quale le diceva quale morto sarebbe rinato nel suo bambino e quindi quale nome dargli. Se ciò non accadeva, bisognava interpellare uno stregone.

In tempi molto lontani era lodevole consuetudine che una donna, quaranta giorni dopo il parto si recasse in chiesa per ricevere una speciale benedizione, in ricordo di ciò che avvenne quando Maria Vergine presentò Gesù al Tempio.

Molto semplice era la culla, di legno, chiusa ai quattro lati e poggiata su due mezze lune, che ne permettevano il dondolio. A essa era legata una corda, che permetteva alla mamma di cullare il bimbo stando seduta o a letto. Molto spesso chi cullava il neonato era la nonna, la quale accompagnava il dondolio con il canto di lunghe, poetiche strofe di ninnananna. Eccone qualcuna:

Ninna vòule e ninnarédde

u lòupe s’ho mangiöte la pecurédde.

Quanne nasscìeste tóue nasscì la ròuse,

nasscì la pambanédde e lla ceröse.

Quanne nasscìeste tóue nassscìbbe jéie,

nassciàmme tütte e ddóue jìnd’a nna déie.

Vìene, sùenne, e nnan venénne all’appìete,

vìene a cavàdde accòume a nnu cavallìere.

Ninna nanna e ninnarella,

il lupo ha mangiato la pecorella.

Quando nascesti tu nacque la rosa,

nacque la fogliolina e la ciliegia.

Quando nascesti tu nacqui anch’io,

nascemmo tutti e due nello stesso giorno.

Vieni, sonno, e non venire a piedi,

vieni a cavallo come un cavaliere.

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Per quanto riguarda il battesimo (da baptizo, immergo) era ritenuto un rito a cui sottoporre ben presto il neonato, perché si pensava che, oltre alla redenzione, valesse a far salire un’anima al Cielo. Un bimbo doveva quanto prima essere battezzato, per “farsi cristiano”. I padrini di battesimo, per i primogeniti, dovevano essere i “compari d’anello”, cioè coloro che erano stati i testimoni nella cerimonia del matrimonio.

A Monte Sant’Angelo, come racconta il Tancredi in Folclore garganico, in tempi antichi, nel giorno che precedeva quello del battesimo, si andava a casa del futuro padrino e, con l’accompagnamento del tamburo o della chitarra, a mo’ di tarantella si cantava una strofa per annunziare l’evento, il ruolo che gli veniva affidato e la chiesa del rito e intanto non mancava l’esortazione a donare al bambino un… “diamante d’oro”.

Durante la cerimonia battesimale il padrino doveva ripetere le parole del sacerdote perfettamente, senza mai sbagliare, pena la futura balbuzie del bambino.
La festa si svolgeva in casa con i padrini, i parenti stretti e pochi amici intimi e consisteva in un banchetto, mentre a sera si ballava al suono di chitarra e mandolino.

Si gustavano taralli, fichi secchi, mandorle al forno; si bevevano vino generoso e qualche colorato rosolio fatto in casa.

Una curiosa usanza comportava che, non appena le unghiette del bimbo si allungavano, si scegliesse la cosiddetta “madrina delle unghie” (la cummöre de ll’ügne), di solito una parente o un’amica molto cara. Oltre ai padrini di battesimo, il bimbo aveva quindi un’altra madrina: persone che continuavano a seguirlo nella vita e ad avere per lui particolari attenzioni.

L’allattamento era, naturalmente, quello al seno e spesso si protraeva anche oltre i due anni. Per favorire la montata lattea (la renetóure), alla puerpera si consigliavano serenità e cibi brodosi, birra e vino con moderazione. Poteva accadere che la puerpera non avesse latte; si ricorreva allora a una parente o a un’amica che avesse un figlio neonato e latte abbondante e il bimbo si trovava ad avere, così, la cosiddetta “mamma del latte”, alla quale rimaneva affettivamente legato anche da adulto. In mancanza di una nutrice, si usava il latte d’asina.

Grande, profonda e schietta era, in tutta la Puglia, la devozione per Sant’Anna: una venerazione che si trasmetteva da madre a figlia.

Un altro Santo protettore delle donne desiderose di diventare mamme era San Nicola di Bari. Lo si trova menzionato in una ninna nanna tipica di un paese foggiano.

Ninna nanna di Serracapriola

Sande Nicola che per lu munne jeve

Tutte li creature isso addurmeve:

E Sante Nicola quanne aveve tre anne

Diceve ‘a messa e a diceve cantanne;

Sante Nicola nun vuleve menne

Vuleve carte calamare e penne;

Sante Nicola nun vuleve canzune

Vuleve sule litanie e raziune.

Sante Nicola repère acque e vine

Se ‘no fa ‘a mbriacà a Luigine.

San Nicola per il mondo andava

tutti i neonati egli addormentava:

e San Nicola quando aveva tre anni

diceva la messa e la diceva cantando;

San Nicola non voleva la mammella

voleva carta, calamaio e penna;

San Nicola non voleva canzoni

voleva solo litanie e orazioni.

San Nicola ripara acqua e vino

altrimenti fai ubriacare Luigino.

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Nel bassorilievo del Battistero di Pisa, l’Adorazione dei Magi, opera di Nicola Pisano, 1260. L’artista (1215/1220 – 1278/1284) è stato uno scultore e architetto, tra i principali maestri della scultura gotica a livello europeo. Per la sua origine “possiamo presumere la sua provenienza dal sud Italia anche dalla possibile formazione nella scuola foggiana di architettura e scultura di Federico II che nel Duecento fu un centro importante a livello europeo” (Wikipedia).

Una fase molto delicata era (ed è tuttora) quella del divezzamento. Per indurre il bimbo ad abbandonare il latte materno bisognava ricorrere a qualche espediente: coprire il capezzolo e la zona circostante con una pomata scura, bagnare la mammella con un liquido amaro, ungere il capezzolo di peperoncino, usare un intruglio a base di aloe.

Per placare il pianto prolungato del bimbo si usava un fagottino di zucchero (la pupédde) e per farlo addormentare si ricorreva al papavero da sonno (la papàgne) fatto bollire in poca acqua. A mano a mano che il bimbo cresceva, lo si nutriva con latte di capra, che il capraio portava direttamente a domicilio, mungendo al momento e con il pancotto, pane raffermo fatto bollire in acqua con uno spicchio d’aglio e una foglia di alloro divisa in sette parti.

Un motivo di preoccupazione per mamma e figlio era la fascinazione, comunemente intesa come “malocchio”. Per evitarne il pericolo si ricorreva alla potenza della parola e del gesto rituali oppure a particolari amuleti. Molto attenti a proteggersi dal malocchio erano i “terrazzani” del rione delle Croci, a Foggia, quasi ossessionati dalle superstizioni.

A Monte Sant’Angelo (ma anche qui, da noi) le mamme ponevano tra le fasce un “abitino” contenente la pietra di San Michele, una immaginetta del Santo preferito, alcuni chicchi di grano, un pezzettino dell’abito della Madonna, una mandorla a coppia (che qui si chiama cucchiatédde) e un fiore giallo della mazza di San Giuseppe.

Oltre al rito di iniziazione, altri se ne praticavano, quali quelli di guarigione per l’ernia (tipico quello di Noicattaro – Bari), per il “taglio dei vermi” e per liberare dal malocchio e dallo spavento.

Spesso si faceva ricorso a erbe spontanee come la malva e la ruta, ma anche a particolari persone, come la “tagliatrice di vermi”. Contro la verminosi, secondo la medicina popolare, un mezzo molto valido poteva essere una collana di spicchi d’aglio e foglie di rucola messa al collo del bambino che ne era colpito.

Spesso accadeva che una mamma chiedesse a un Santo la grazia della guarigione del proprio bambino da una malattia e prometteva che, a guarigione avvenuta, gli avrebbe fatto indossare un abito simile a quello del Santo invocato. Ebbene, quel bimbo indossava per lungo tempo, fino a che si logorasse, l’abito da San Michele, da Sant’Antonio, da San Nicola, ecc. oppure da Addolorata, Sant’Anna, Santa Rita se femminuccia.

All’età di uno o due anni, finalmente libero dalle fasce, il bambino cominciava a mettere i primi passi, con il sostegno delle dande e del girello, amorevolmente guidato dalla mamma e dalla nonna.

Decenni sono passati; i tempi sono profondamente cambiati, ma si può dire che in questo nostro amato Tavoliere la nascita di un bambino viene ancora considerata come uno straordinario evento, di stupore e di letizia.

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* Grazia Stella Elia, poetessa e scrittrice, è nata a Trinitapoli, nel Tavoliere pugliese. Ha insegnato per molti anni, trasmettendo ai suoi alunni l’amore per la poesia e il teatro. Si è impegnata, sin da giovanissima, nello studio del suo dialetto (“casalino”). Ha operato nel campo della cultura, organizzando convegni ed incontri. Su Grazia e la sua opera, vedere il link.

* L’autrice si riferisce a Ingrid Ungaro, 37 anni, vittima di un incidente stradale in Namibia dove era arrivata come turista con il suo futuro sposo.

“Alla cara Ingrid” sono dedicati questi versi:

“Più attoniti che mai / ci chiediamo se sia vero / che, partita per un magico viaggio, / non ne sia più ritornata / tu, che della vita eri / l’espressione più autentica. / Giovane, bella, ironica, / simbolo eri d’allegria / e di fresca ironia. / Scompare, con te, / il fiore della vitalità / e ci rimane nel cuore / la nostalgia della tua voce canora, / della tua esuberanza d’affetto, / dei tuoi generosi sorrisi.”

E anche questi:

“Rammemorando / In assorta lontananza / ti rivedo bambina. / Vivacità, intelligenza, precocità / una bimba ti rendevano speciale. / Emergevano già, forti, i segnali / della giocosa ironia / ereditata da tuo padre, che di te andava fiero. / Fiorivano intanto i mandorli / odorosi della tua giovinezza, / da te cantata / con la tua ugola d’oro. / Stampato sulle tue labbra / era il sorriso / crudelmente spento / per sempre / in terra africana. / Incolmabile la tua assenza. / Già, perché come te / c’eri soltanto tu”.